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Un caso di cronaca nera, rimbalzato su tutti i tabloid nazionali e sui social network riporta l’attenzione sul capoluogo umbro, sugli stili di vita e di consumo dei giovani e sull’allarme sicurezza. La storia: due ragazze, Elisa e Vanessa, un lavoro da centraliniste in un call center a Città di Castello, in provincia di Perugia. Un “sabato del villaggio” senza preferenze esclusive, fatto di transiti da un luogo a un altro di socialità e divertimento, di consumo individuale che diventa evento di gruppo e collante della notte: un luogo, un bar di una stazione di servizio IP che da Ponte Felcino conduce a Perugia e al suo centro storico, ormai ridotto a spazio garage, direzionale, a vetrina ad uso commerciale. Una ripartenza “alticcia” e un tamponamento allo svincolo della superstrada E45 di Ponte Felcino. La constatazione amichevole dell’incidente stradale non basta a frenare la paura del riconoscimento che sale insieme all’ansia amplificata da stati di coscienza alterati.

Elisa, secondo la versione confusa rilasciata dall’amica Vanessa e dagli occupanti dell’altra vettura coinvolta, si allontana da sola sulla Punto grigia, diventata una via di fuga, dal controllo e dalla criminalizzazione di alcuni comportamenti. E’ il 29 gennaio, non è ancora mezzanotte, ma quel serial killer del proibizionismo, assoggettato alle logiche del profitto, inizia a fare effetto e a nuocere gravemente alla salute di Elisa, il cui corpo è stato rinvenuto sul greto del torrente Ventia, in località Civitella Benezzone la domenica 30 gennaio. Elisa è morta, secondo il responso dell’autopsia, per insufficienza cardiorespiratoria provocata dal freddo e secondo il fascicolo aperto in procura dal PM Antonella Duchini “in conseguenza di un altro reato”, ossia per aver acquistato una dose di eroina e di averla “sniffata” dopo aver ingerito una grande quantità di alcol. Elisa nel suo girovagare fuggiasco prima di perdersi nel bosco ha cercato una via di uscita al suo stato di stordimento, ha suonato campanelli, cercato conoscenti, abbandonato la macchina, proseguito a piedi, è inciampata,  caduta, si è bagnata, è scivolata, ha parlato con gli operatori del 112 finché non si è esaurita la batteria del telefonino e la comunicazione non si è interrotta. Purtroppo, nonostante le ricerche,  la sua richiesta di ascolto è rimasta vana. Nonostante il patto per la sicurezza (sancito con il prefetto, gli amministratori, le forze dell’ordine e le varie categorie produttive, eccezione fatta per i servizi informali e i consumatori) a Perugia si continua a morire in circostanze sospette (vedi il caso Bianzino), di freddo (4 morti negli ultimi mesi), di panico, di overdose, di violenza sessuale. Si galleggia nel silenzio dell’impunità, si rimane ostaggio mediatico di fatti di cronaca nera (vedi il caso Meredith Kercher), di procedure operative per mortificare la vita dei reclusi, della cultura della “tolleranza zero” e non si mettono in pratica strumenti e percorsi di criticità e consapevolezza dei rischi e dei danni sociali, ambientali, legali, fisici e sanitari causati dal proibizionismo. Non esistono “spazi di ascolto” per consumatori in contesti non connotati, dove acquisire competenze di autoregolazione comportamentale ed emozionale. Non esiste un luogo fisico o virtuale in cui ci si possa sentire “safe” in un momento di crisi, uno spazio protetto per stabilire nuove modalità per entrare in contatto e strutturare relazioni in ambiti non stigmatizzanti con le fasce del consumo “sommerso” o problematico non raggiunto dai servizi di rete e favorire la comunicazione.

Se al posto di innovative pratiche di riduzione dei danni dall’uso-abuso di sostanze psicoattive illegali, anziché attuare politiche aperte a sperimentazioni di un sistema di controllo delle sostanze mediante il “pill test” delle sostanze, unità mobili per “bad trip”, numero verde di counseling e “stanze del consumo” (injecting room), invece di essere disponibili alla relazione e al confronto, si continuerà a ragionare sull’onda degli allarmi sociali e non si comprenderanno atteggiamenti, consumi, motivazioni, non riusciremo a costruire forme attive di autotutela della salute, non riusciremo a uscire dal pantano retorico della sicurezza e a combattere i preconcetti e i moralismi.