Era un po’ che non mi trovavo in difficoltà come quando Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, mi ha rifilato una curatissima ricerca del prof. Vittorino Andreoli, condotta nel carcere Due palazzi di Padova e nel Regina Coeli di Roma per conto del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dal titolo «Doppia diagnosi, tossicodipendenza carcere». Accetto questo testo per molti motivi, compreso il fatto di aver effettuato, tra i tanti, un programma terapeutico per soggetti a doppia diagnosi (altri terapeuti hanno poi sostenuto che la mia diagnosi era solo una: tossicodipendente e poliassuntore). Anche se in realtà i miei interessi sono, col tempo e con le giornate di cella da riempire, diventati altri: quello di capire ad esempio, dopo essere diventato un animaletto da carcere-comunità-carcere, di cosa discutono quelli che pretendono di curarmi-castigarmi-curarmi, su cosa si confrontano, dove stanno dirigendo i loro sforzi scientifici così come i «nostri» finanziamenti statali.
Vorrei andare oltre la premessa del libro che trovo condivisibile, in alcuni passaggi convincente ed avvincente, tranne quando identifica come grave errore le azioni mirate alla «limitazione del danno» che avrebbero creato una droga di stato a discapito del lavoro di «prevenzione». Se in alcuni casi il metadone è stato usato al posto della prevenzione è stato un grave errore, in molti casi però, dove il metadone è arrivato tardi, abbiamo avuto a che fare con morti, malattie e ricorso più che obbligato al crimine: posso testimoniare io stesso per averlo sperimentato sulla mia pelle bucata di quanto si sia perso tempo e vite preziose. Non sarebbe meglio, invece di generalizzare, dare un senso al metadone ed usarlo secondo il tipo di persona che si rivolge ai servizi pubblici, e fare nel frattempo prevenzione, tanta ed intelligente?
E invece le campagne di prevenzione lanciano slogans del tipo «o ci sei o ti fai», trasformato da alcuni amici emiliani che lavorano con le dipendenze in «io ci sono e mi faccio». Che vuole ricordare provocatoriamente che comunque qualcuno che avrà il problema delle dipendenza c’è e ci sarà, in barba a tutti i terapeuti maghi e curatori di anime. È così difficile accettare che esistano uomini e donne per cui la vita presenti difficoltà diverse dagli altri senza arrivare ad eliminarli, a decidere che «non ci sono»?
La depressione del carcere
Non è mio intento contestare il senso o l’utilità di un’opera di questo genere, vorrei però riprendere a parlare della condizione del tossicodipendente in carcere oggi, a qualche anno dalla ricerca e quindi con la possibilità di verificarne la ricaduta: credo infatti che il senso del ricercare, elaborare dati, trarre delle conclusioni, sia anche di fornire delle indicazioni operative, degli stimoli a sperimentare… insomma non può essere solo accademia.
È già da anni che si parla dell’esistenza di casi ove alla patologia definita «dipendenza» alcuni pazienti ne associano un’altra di tipo psichiatrico, e che parte di queste persone finiscono in carcere. Ma quante sono le persone che effettivamente possano definirsi pazienti di
«doppia diagnosi»?
È una domanda non da poco, se non altro perché più una diagnosi è completa, più la cura dovrebbe sortire qualche benefico effetto.
Trovo però nella premessa della ricerca una serie di passaggi discutibili. Per esempio: è fuori di dubbio che durante la detenzione la responsabilità degli ospiti è dell’Amministrazione penitenziaria anche per il loro trattamento. Orbene passa una notevole differenza se un detenuto sia seguito in maniera adeguata per i suoi bisogni sanitari, oppure no: se un depresso-tossicodipendente viene seguito per la dipendenza e non per la depressione, si possono avere effetti gravi: comportamenti suicidi che si manifestano nel momento in cui la disponibilità di sostanze non c’è (o non dovrebbe esserci), a meno di terapie sostitutive».
Io posso capire che l’essere a conoscenza della patologia depressiva sia un’opportunità in più per aiutare il detenuto, dopodiché mi viene un po’ da ridere (con grande amarezza ovviamente), perché mi chiedo qual è, nonostante gli sforzi degli operatori, l’intervento attuato nei confronti della dipendenza e quale ancor di più sulla depressione, visto che più depressivo del carcere stesso ci sono rimasti solo alcuni programmi televisivi.
Ed aggiungo, visto che sono un depresso cronico e sono attualmente in affidamento in prova, che perfino fuori si fa fatica a farsi curare (a meno che uno non disponga di 80 o più euro a seduta). Ma questa è un’altra storia e la chiudo qui.
Mi chiedo poi: quand’è che ci si accorge che un detenuto è anche affetto da patologie psichiche? La mia esperienza personale mi suggerisce solo alcune circostanze, del tipo: se uno fa a pezzi la cella e finisce all’Ospedale psichiatrico giudiziario (magari gli stanno negando un diritto e non riesce a chiederlo facendosi capire); oppure quando dà segni di squilibrio tipo crisi mistiche o grafomaniche. Di solito se è solo un violento è al posto suo, quindi niente psichiatra, a volte ci finisce sotto visita perché col medico non riesce proprio a trovare un accordo sui farmaci e quindi fa casino. Ma se uno marcisce in cella senza ribellarsi ed è socialmente morto, difficilmente verrà aiutato e curato, e se costui sia o non sia tossicodipendente, con in più una patologia psichica primaria o meno (quindi doppia diagnosi), nessuno saprà mai nulla.
Torniamo alla ricerca: dal campione analizzato, a Padova ci sarebbero il 60% di sedicenti tossicodipendenti, di cui il 27,3% sostiene di avere già avuto un ricovero in psichiatria mentre al 13% sarebbe stato diagnosticato un disturbo psichiatrico (ma poi quelli che sostengono di avere disturbi psichiatrici sale al 19%). Il 40% ha dichiarato di aver paura di impazzire (di cui il 51,9% sono stranieri ed il 23,5% italiani), l’85% ha una buona stima di sé.
Questi dati fanno emergere sostanzialmente che i tossicodipendenti in carcere sono in gran parte portatori di un’altra patologia di tipo psichiatrico e, se non si fanno i conti anche con questa, qualsiasi intervento terapeutico risulterà parziale col rischio di essere inefficace. I bassi successi nel trattamento ottenuti finora sono letti in questa luce: gli interventi non hanno tenuto conto della compresenza dei due disturbi.
Psichiatrizzare i tossicodipendenti
Ma è difficile stabilire quanto i risultati siano condizionati dallo stato di detenzione.
Io mi chiedo qual è la valenza di strumenti quali quelli usati in questo caso, senza tener gran conto sia della rappresentatività del campione, sia della distorsione ambientale. Il carcere infatti distorce, confonde, complica in maniera micidiale le situazioni. Il questionario che è stato utilizzato ad esempio non è applicabile ai nord-africani e neanche agli italiani con livello di istruzione al di sotto della media inferiore. Ma ce l’hanno un’idea di cosa significa in tanti casi avere il diploma di media inferiore, magari preso 15 anni fa in carcere?
Prendiamo ad esempio uno dei quesiti: «Ritiene lei di avere un disturbo del comportamento?». Siamo certi che chi compilava il questionario riuscisse a capire cos’è un «disturbo del comportamento»? Io, che ho un grado di istruzione superiore, ho dovuto chiedere informazioni.
Mi sono anche chiesto il senso di un campione quale quello utilizzato, che si basa sulla domanda «Ha ancora problemi di dipendenza da sostanze?». Salta fuori un 59,4 degli intervistati che risponde di sì. Ma chi ci dice che tra gli altri detenuti, magari con qualche anno di galera sulle spalle, non ce ne sia una gran parte che non sente di «avere ancora problemi di tossicodipendenza da sostanze», semplicemente perché sono in stato di detenzione e quindi di astinenza forzata?
Voglio dire che la rilevazione dei soggetti tossicodipendenti con questi strumenti può creare diverse distorsioni: è difficile capire quanto i risultati siano condizionati dallo stato di detenzione o meno e credo che cambi parecchio la «verità scientifica» se una persona è osservata in gabbia o a piede libero.
Emerge così un dato che tende a psichiatrizzare i tossicodipendenti: risulta che a Padova oltre i due terzi dei tossicodipendenti sono portatori di patologie psichiatriche, per lo più classificabili nella categoria dei borderline, e dei soggetti portatori di disturbo antisociale. Ma qual è la situazione dei detenuti in generale per quanto riguarda la salute mentale? E quale il rapporto con gli indici di salute al di fuori del carcere?
Non è difficile capire che a fronte di dati del genere si arriva facilmente al tentativo di ricreare in carcere (ma anche in alcune comunità terapeutiche) ulteriori occasioni di segregazione, dove lo strumento farmacologico, oltre eventualmente a «curare», può diventare uno strumento di controllo delle persone: è sempre più facile somministrare 50 gocce piuttosto che un po’ di umanità, prevista costituzionalmente, ma che poi non si capisce mai cos’è. È umanità passare 20 ore su 24 chiusi in uno sgabuzzino munito di cesso?
Ma mi viene da riflettere anche sulle cure, perché dopo anni di detenzione legati ad esempio ad uno o più farmaci, dove la dipendenza non c’era, comunque subentra. Perché continuano a scegliere di curare chi ha anche problemi psichici in carcere? Sono proprio così pericolosi da non poterli tirar fuori o magari «costano» culturalmente troppo? C’è troppa concentrazione, dati i risultati, di malattie mentali in carcere ed un legame troppo forte con l’uso di stupefacenti, per non pensare che a monte non ci sia un processo di selezione e di emarginazione progressivo di tutte le diversità.
Veniamo alle ricadute operative: proprio nel periodo successivo a questa ricerca, sono stato trasferito a Padova. Durante la mia detenzione ho avuto occasione di effettuare diversi colloqui con la psicologa che manifestava una difficoltà a ricordarsi del mio caso: spesso dovevo ripartire facendo un riassunto delle puntate precedenti (non me ne voglia se dico questo). Ho dichiarato dall’inizio della mia carcerazione che soffrivo fin da quando avevo 20 anni di depressione (molto prima di diventare tossicodipendente), ma era evidente che, a parte segnarlo nelle relazioni di cui necessitavo per le mie istanze di scarcerazione per le misure alternative, altro non veniva fatto. D’altra parte non vedo come mi si potesse aiutare a tenere sotto controllo la mia depressione: forse l’unica cosa utile è stata proprio il permettermi di svolgere un’attività come il giornale e stare un po’ fuori dalla cella dove rischiavo di marcire.
Ma anche per gli altri detenuti non pare sia cambiato niente: l’autolesionismo ed i suicidi sono sempre una costante, la gente che perde la testa, tossici e non, l’ho vista perfino aumentare. Come ho visto aumentare l’ingresso in Casa di reclusione di ragazzi con pene cortissime ed in condizioni di salute mentale e fisica sempre più precarie.
Sono stato tra i promotori di un convegno in carcere proprio sulla salute mentale, perché sempre più in galera si respira aria di manicomio. Ma l’obiettivo non è di spingere perché si faccia finta di curare in carcere situazioni che invece devono essere prese in carico dal Dipartimento di Salute Mentale fuori dal carcere. Perché se il carcere non crea patologia, almeno non del tutto, certo comunque aggrava e non cura le sofferenze di tante persone.
* Redazione di Ristretti Orizzonti