Nel rendere conto di una ricerca faticosa, resa possibile dall’impegno di équipe di strada di cinque grandi città italiane e dalla collaborazione di 509 consumatori e consumatrici di sostanze psicotrope, raggiunti nei contesti del loisir diurno e notturno (anche quello più estremo), possiamo affermare, con un certo sollievo, che non siamo costretti a delineare l’immagine di una nuova, ennesima emergenza; le evidenze raccolte ci spingono piuttosto a sollecitare i decisori politici e gli implementatori di politiche pubbliche a prendere coscienza del ruolo inedito che “le droghe”, ivi compreso l’alcol, vanno assumendo oramai da diversi anni nel nostro paese e, più in generale in Europa. Sulla scorta dei dati nazionali ed europei, da tempo dovrebbe essere chiaro a molti che piuttosto che di emergenza sarebbe utile parlare di emersione (a livello societario) di un fenomeno di consumo che ha avuto genesi, start up, negli anni ’90 in determinati contesti (spesso contesti di loisir notturno), ma che oramai si è diffuso in tutti i luoghi di vita frequentati dai consumatori (casa, scuola, lavoro), con motivazioni e con forme in parte inedite. La consapevolezza di questa progressiva diffusione delle sostanze psicotrope (in particolare della cocaina) nelle abitudini di vaste fasce di popolazione, ovviamente non ha nulla a che vedere con la normalizzazione del fenomeno: serve, al contrario, ad evitare la ricerca di soluzioni tanto emergenziali quanto scomposte ed inefficaci, avviando una riflessione istituzionale e politiche pubbliche in grado di prendere in carico tale fenomeno (e tali cittadini consumatori) in modo non esclusivamente simbolico.
Nel tentativo di aggiungere elementi di conoscenza al fenomeno, la ricerca ha preso le mosse individuando un’area problematica che comprende due dimensioni rilevanti rispetto alle forme e ai modelli di consumo del nuovo millennio. La prima riguarda la relazione tra consumi di sostanze psicotrope e precarietà, intesa non solo come precarietà nel lavoro, ma più in generarle tematizzata come quel sentimento di precarietà esistenziale che sembra coinvolgere molti concittadini e concittadine sulle soglie del nuovo millennio, il millennio liquido appunto. Sulla scorta dei contributi della sociologia europea contemporanea, ed in particolare dei lavori di Gunter Amendt ed Alain Ehremberg, la ricerca ha tentato di indagare su come e quanto i consumatori da noi intervistati si andavano adattando alla nuova forma liquida che va assumendo la società europea, e sul significato che il consumo di droghe assume in tale lavoro di adattamento. Vale la pena di ricordare che il collettivo raggiunto, pur se specifico per stile di vita ed abitudini, presenta caratteristiche socio-culturali non così eccentriche rispetto a cluster simili per età: in maggioranza lavorano, circa un 20% sono disoccupati o in cerca di prima occupazione, il resto è costituito da studenti e studenti lavoratori; poco meno del 30% hanno conseguito la licenza media inferiore mentre circa il 70% sono in possesso di diploma di scuola media superiore o di laurea.
Come vedono il futuro, questi consumatori nella normalità? E come si vedono nel futuro? L’incertezza, la precarietà, l’ansia societaria, quanto incidono nella loro immagine in prospettiva? Qui la prima, relativa, buona notizia. A fronte di una percezione “minacciosa” del futuro in genere che accomuna circa il 76% del collettivo, il futuro personale è visto come “promettente” dal 65,4%: il diffuso sentimento di paura, rispetto ad un mondo che appare percorso da poca speranza e moltissime tragedie, non riguarda quindi solo le fasce di popolazione più avanti con gli anni, ma coinvolge anche le giovani e giovanissime generazioni. I medesimi ragazzi e ragazze, però, affievoliscono questo pessimismo verso il generale considerando (auspicando) in modo diverso il loro destino, che in maggioranza viene riferito come “promettente”. Questa forbice, che distingue il proprio futuro da quello in genere, diminuisce, si chiude, quando si passa ad altre coppie concettuali: il futuro in genere è ansiogeno per il 77,3%, incerto per l’85,9%; il futuro personale è ansiogeno per il 48%, è incerto per il 73,8%. Si può forse pensare che una visione “promettente” del proprio futuro, anche in presenza di un futuro societario percepito come minaccioso, esprima l’idea di possedere la volontà e la capacità di incidere positivamente sul proprio destino: trasmette l’idea che la maggioranza dei soggetti intervistati, nonostante tutto, si sente dotata di quel capitale sociale e di quelle reti primarie in grado di garantire l’accesso al futuro. Futuro che, comunque, è visto come ansiogeno e assai incerto.
Da queste considerazioni, e con tutte le cautele del caso in merito alla loro possibile generalizzazione, emergono delle prime indicazioni per i decisori e gli implementatori di politiche pubbliche. Per prima cosa bisogna evitare che la forbice si chiuda, ovvero che la visione minacciosa e non promettente accomuni sia il futuro in genere che il futuro personale; occorre pensare strumenti di welfare, culturali, economici che ostacolino tale processo e che aiutino coloro che tale forbice l’hanno già chiusa (e non sono pochi, nel nostro collettivo, quasi il 35%). Occorre forse pensare politiche pubbliche che mitighino l’incertezza e l’alto tasso di ansia che percorre la società: se è vero infatti che per molti la prospettiva appare ogni giorno più liquida, altri possono agevolmente rifugiarsi su sponde assai solide, magari per collocazione nella stratificazione sociale o regione di nascita. Per un giovane, per un giovane adulto, tali elementi solidi possono essere, tra i tanti, l’abitazione, una formazione adeguata, un lavoro non sempre e non solo liminale e occasionale, luoghi e spazi di cittadinanza e di protagonismo. In assenza di ciò, i tempi della progettualità personale si riducono drammaticamente, sino a ridursi, come nel caso del 36,7% dei nostri intervistati, al “vivere alla giornata”. E questo vivere alla giornata non riguarda esclusivamente i più giovani, ma ben il 61,1% della classe 35 – 44 anni.
In questo navigare a vista, si affronta il mondo liquido su tavole da surf, al massimo su piroghe: il risparmio a disposizione è inesistente o si limita a “qualcosa sotto i duemila euro” per circa il 60% del collettivo, mentre la famiglia resta il vero serbatoio economico a cui rivolgersi (797%). In questo orizzonte, la ricerca di solidità è rappresentata dalle due massime priorità indicate dagli intervistati: uscire dalla casa paterna e un lavoro in genere, meglio se un lavoro a tempo indeterminato o, se a tempo determinato, almeno ben retribuito (come accade di norma in Europa, ma non da noi, dove la precarietà è di norma compagna della sottoretribuzione). I giovani intervistati affrontano la condizione appena descritta, al contrario di quanto si potrebbe ipotizzare, senza ricorrere a quella forma sempre nuova di sogno collettivo rappresentato dal gioco: circa il 90% si astengono dal “grattare per vincere”, compilare schedine, giocare al poker on line o giocare a “vincere per la vita”. Accanto a questa buona notizia, che esclude il nostro collettivo dal novero di coloro che vivono queste nuove forme di dipendenza, una evidenza ci rende assai meno sereni. In numeri assoluti, 161 intervistati su 509 ritengono utile assumere sostanze per fare fronte alle difficoltà: più si vive una condizione di precarietà, ad esempio avere orizzonti progettuali molto corti, più si consuma per sedare la preoccupazione e l’ansia. Sostanze in funzione auto- terapeutica, lontane dalla tematizzazione che vede l’uso di droga e alcol esclusivamente legata al piacere e al loisir; oramai, per alcuni nostri concittadini, piacere significa anche sopravvivere, galleggiare nella liquidità in tempesta. Così non deve stupire che il 41,8% degli intervistati dichiara di aver assunto alcol o droghe prima di entrare a scuola o al lavoro: se da una parte è significativo che la maggioranza dei nostri consumatori (58%) non ha mai messo in atto tali comportamenti e il 24% lo ha fatto raramente, resta sempre un 18% che frequentemente o sempre deve “aiutarsi” per affrontare le aule e il posto di lavoro. Forse, anche in questo caso, solo politiche repressive (come il test) se non accompagnate da interventi che prendano in carico il problema e non solo il sintomo, non potranno che far aumentare l’ansia e il disagio in coloro che, di fronte alla fatica di vivere (come dice Ehremberg) mettono in atto tali comportamenti.
Quasi il 40% del nostro collettivo è di genere femminile, e rappresenta più o meno la realtà che si trovano davanti le unità di strada che si occupano di prevenzione e riduzione dei rischi. Ed è proprio a partire da tale realtà che è stata scelta la seconda dimensione affrontata dalla ricerca, ovvero il rapporto tra genere e droghe. Nelle tossicodipendenze da oppiacei la presenza maschile era (ed in parte è ancora) preponderante, mentre le donne rappresentavano una minoranza esigua. Nel mondo del consumo, del consumo problematico, del policonsumo, il femminile, in analogia con altri comportamenti sociali, ha raggiunto il maschile, anche se in questo processo di omologazione sembra mantenere intensità e caratteristiche specifiche. La ricerca, nell’affrontare la tematica dei consumi per genere, ha tentato di giustapporre i dati sui consumi e gli stili di consumo dei ragazzi e ragazze intervistate con le loro percezioni rispetto alle diversità, o le similitudini, che accompagnano tali assunzioni negli uomini e nelle donne. Ebbene, dati ed opinioni in larga parte coincidono, restituendo una visione dei 509 intervistati come non solo consumatori, ma anche, in buona parte, come testimoni qualificati del fenomeno. In estrema sintesi e rimandando al capitolo specifico (ed in particolare al box “maschile e femminile tra realtà e stereotipi”), le donne iniziano a consumare sostanze un poco dopo dei maschi, hanno migliori risultati scolastici (quasi la metà hanno un diploma di laurea, contro il 26% dei maschi), restano meno nella casa paterna, vivono leggermente meno la condizione di disoccupazione. Le opinioni degli intervistati riferiscono di un maggior controllo da parte delle donne, di una loro minore compulsività che si riverbera sulla scelta di policonsumare e rischiare con maggiore cautela. Sempre dalle testimonianze emergono consumi al femminile meno orientati alla ricerca di potenza ed energia e più vocati alla disinibizione, alla socializzazione ed anche a superare momenti di tristezza, di insicurezza, di precarietà: consumi da praticare in contesti maggiormente protetti, in piccoli gruppi, in coppia e, quando si usano sostanze in funzione antidepressiva, da sole in casa.
Ricercare intorno al fenomeno del consumo di sostanze psicotrope partendo dal genere, è un approccio quanto mai utile per impostare politiche pubbliche in merito alla prevenzione degli abusi di sostanze psicoattive legali ed illegali. Il nostro lavoro non ha alcuna pretesa di esaustività, ma semplicemente quella di segnalare una traccia di lavoro che noi riteniamo particolarmente interessante; come nel caso del rapporto precarietà e consumi, ci auspichiamo che altri lavori, in campo antropologico, psicosociale, sociologico, aiutino a lavorare sempre meglio il decisore politico e tutti coloro che, spesso con grande passione, quotidianamente si confrontano con il fenomeno.