A proposito di una riflessione critica su comunità e strutture socio-sanitarie per l’accompagnamento di persone in difficoltà, pubblichiamo due recenti contributi di Susanna Ronconi, entrambi elaborati nell’ambito delle attività di ricerca e formazione del Gruppo di Ricerca NUSA-Nuove Soggettività Adulte-Università di Milano-Bicocca, in collaborazione con la Rivista Pedagogika.
In particolare, gli interventi si riferiscono al progetto di educazione degli adulti Transiti nell’età adulta, mirato a indagare significati, processi e vissuti del cambiamento nel corso della vita (https://nusablog.org/ )
L’articolo Transiti nei luoghi del trattamento socio-sanitario accompagna la presentazione del seminario “Transiti. Nel frattempo”, tenutosi il 23 ottobre 2018, all’Università degli Studi Milano-Bicocca, è stato pubblicato in Pedagogika_XXIII_1-Nel frattempo … transiti nell’età adulta e si può scaricare in https://nusablog.org/transitare-nei-luoghi-del-trattamento-delle-fragilita/
Il secondo articolo, Transiti nel sostegno sociale. I rischi di un neodeterminismo autoritario è in Pedagogika_XXIII_3- 2019 e introduce gli interventi di Leopoldo Grosso (Ritrovarsi nel transito) e Stefania Doglioli e Natascia de Matteis (Percorsi di fuoriuscita dalla violenza di genere. Il femminismo come soggetto eccentrico) che entrano nei temi della relazione di aiuto e in particolare del contesto delle comunità.
Sul tema è stato tenuto anche un Seminario presso la Casa della Cultura di Milano, sempre per l’iniziativa di NUSA e Pedagogika, che si può ascoltare qui https://www.youtube.com/watch?v=6VYLURxnSqY
Transiti nel sostegno sociale. I rischi di un neodeterminismo autoritario
di Susanna Ronconi*
Una domanda prima di ogni altra: le forme del welfare, il suo assottigliarsi, la crescente selettività e il declino dell’universalità, l’affermarsi aggressivo dell’idea di “meritevolezza” delle prestazioni versus quella di diritti costituzionali, tutto questo c’entra qualcosa con come si configura il lavoro sociale di aiuto alle persone? Cioè: come ricade sul nostro lavoro (sulle sue possibilità, potenzialità e legittimazione) la definitiva decadenza di quel patto capitale-lavoro su cui i sistemi di welfare europei si sono costituti nel dopoguerra, in un circolo virtuoso welfare state-sviluppo socioeconomico, in base al quale l’aiuto sociale professionale mirava a promuovere le condizioni delle persone in difficoltà, secondo una idea inclusiva, proattiva e di coesione? Quella torsione, di cui abbiamo ormai esperienza, secondo cui le nostre democrazie mettono in conto esclusi a vita, se non “nemici sociali”, da controllare o contenere o espellere, e, dall’altro lato, (un numero limitato di) “soggetti meritevoli” di aiuto, magari “vittimizzati” e dunque anche più “meritevoli”, dentro un “contratto” stretto e disciplinare, ha fatto sì che nulla sia come prima.
Questo scenario ha un impatto importante soprattutto sul nesso intervento sociale istituzionale-libertà di autodeterminazione dei singoli, nesso dentro cui si situa la relazione tra operatori e soggetti e che costituisce il terreno su cui avviene il transito di cui parliamo. È la nota questione posta da Amartya Sen[1], quella del rapporto, che dovrebbe essere inscindibile, tra libertà (di autodeterminazione) e sostegno sociale, tale per cui non c’è sviluppo (dei singoli così come dei popoli) senza libertà. Su questo assunto si sono formate generazioni di operatori, che il solco di promozione sociale tracciato dalla Costituzione supportava e incentivava. Su questo si fondava anche la questione cruciale della responsabilità: del soggetto (che persegue e attiva il suo transito verso l’autodeterminazione) e dell’operatore (dell’istituzione) che mira il suo lavoro a sostenere una autodeterminazione liberamente scelta. Entrambi, soggetto e operatore, hanno bisogno di essere liberi: l’uno di scegliere i propri obiettivi di vita, l’altro di muoversi dentro il suo mandato con la libertà sufficiente ad assumersi la responsabilità di sostenere la libertà dell’altro.
La questione dell’esito previsto. Neopositivismo, autoritarismo e rigidità procedurale
Questa doppia libertà, in molti ambiti del lavoro sociale, è in difensiva quando non perduta, o, al meglio, si appresta a resistere dentro un conflitto. L’esito del transito risponde troppo spesso a un paradigma di determinismo (nei fini, condurre a “norma sociale” versus soggettiva autodeterminazione) che lo descrive come esito prestabilito e orientato in una pesante asimmetria relazionale istituzione-soggetto; e di neopositivismo (nei modi, obiettivi misurabili e razionalità istituzionale versus percorsi flessibili all’insegna dell’ambivalenza propria degli umani), che questi esiti previsti giudicano e valutano[2]. La critica al determinismo pone la questione che sta nel cuore vivo del lavoro sociale: l’accordo/disaccordo tra gli obiettivi del soggetto e quelli del servizio / operatore, cioè l’autodeterminazione, appunto, che è questione di potere. Non ci può essere responsabilità (del cambiamento) se non c’è un potere da esercitare sulla propria vita. Dall’altro lato c’è il potere delle procedure (e degli indicatori di valutazione, dicono De Matteis e Doglioli) che regolano e valutano gli esiti del transito, esercitando un controllo stringente sui soggetti, sugli operatori e sulla loro relazione. Questa tenaglia deterministico-positivista cerca di imporsi in ogni transito, anche quello più intenzionale e voluto dal soggetto, ma è stringente in maniera esponenziale laddove vi siano dispositivi più o meno indirettamente coercitivi, che sono sempre più frequenti e stringenti, vuoi per pressioni del proprio contesto sociale (ne parla qui Grosso nel suo saggio sulle dipendenze), vuoi per ragioni amministrative o normative (pensiamo all’impianto workferista del Reddito di cittadinanza, che è arrivato a sancire cosa si possa acquistare e cosa no, con un bel salto a piè pari dentro lo stato etico…).
Paradigma determinista e modello dicotomico dell’essere umano
Il modello determinista (adeguarsi alla norma sociale, “corregersi”) assume la cultura dominante circa le relazioni sociali, o su concetti come responsabilità, adeguatezza e via elencando, di fatto ripristinando il vecchio assunto della “normalità” messo in crisi dal movimento della de-istituzionalizzazione degli anni 60 e 70, ipocritamente celando il fatto che la “normalità” continua ad essere sessista, razzista e classista. Per chi svolge con consapevolezza il proprio mestiere c’è, in questo determinismo, innanzitutto il rischio di “lasciar fuori” la critica e l’azione trasformatrice sul contesto in cui i soggetti vivono, di fatto deresponsabilizzandolo e caricando sulle spalle del soggetto solo un imperativo di “cambiamento”[3]. Ma più ancora quello a cui si sta assistendo è il ritorno aggressivo di un modello dicotomico, secondo cui le persone vengono classificate per coppie di opposti che si escludono: buona madre – cattiva madre, dicono De Matteis e Doglioli, sano-malato, dice Grosso, incasellando esistenze complesse, ambivalenti, mutevoli e in movimento in un binarismo alla fin fine disciplinare. Gli operatori sociali dovrebbero sentire questo binarismo come il primo dei loro incubi: quello di finire non tanto a fare “controllo sociale” (che di controllo nel lavoro sociale ce n’è sempre stato, se non altro essendo il welfare una modalità di governo di società conflittuali) ma a fare un mestiere di tipo “correzionale”, di disciplinamento del singolo a una norma sociale dominante e indiscussa. Un vertiginoso salto nel passato.
Antidoti
Il primo degli antidoti ai rischi di un processo di neo determinismo autoritario nel lavoro sociale è già in queste pagine: darsi tempo e luoghi per una riflessione critica collettiva e aperta attorno ai processi di cui siamo, come operatori, co-protagonisti, in cui esercitiamo un ruolo e un potere e al tempo stesso in cui godiamo di gradi di libertà sufficienti (lo credo davvero) per assumerci delle responsabilità. Responsabilità è il secondo antidoto, declinata nel senso indicato da Manuel Cruz[4]: operare delle scelte e assumersi le conseguenze inattese di queste scelte. Perché di assumersi quelle attese, sono capaci tutti e tutte, basta seguire le procedure (le regole, la norma), mentre per assumersi le conseguenze di una scelta soggettiva, fatta in coscienza e rispetto dell’altro/a che in quel momento è a noi affidato/a o si è a noi affidato/a, ci va indipendenza, coscienza, libertà. La responsabilità, per esempio, di “oscillare” con l’ambivalenza del soggetto in un transito flessibile e indiziario, rinunciando alle false certezze del binarismo “o/o” o all’imperativo di obiettivi dettati dalla norma sociale dominante, oggi più di ieri implica rischio. Possiamo dire che fare l’operatore sociale “responsabile à la Cruz” in tempi di neodeterminismo autoritario è qualcosa più di “un mestiere”. Dice Folgheraiter: «Capovolgendo l’impianto della sociologia positivistica, l’approccio relazionale pensa al “sociale” del lavoro sociale come a una “avventura cooperativa” […] La pratica del lavoro sociale risulta perciò essere una realtà “meta-professionale”, non uno specialismo o una qualsivoglia “violenza tecnica”, perciò, ma come una facilitazione o una supervisione: una pratica osservatrice, stimolatrice e accompagnatrice dei modi in cui le “soluzioni” dei problemi sociali “si fanno” attraverso dinamiche tipiche della riflessività umana»[5]. Laddove queste dinamiche possono includere le nostra professionalità, ma sostanzialmente appartengono ai contesti e ai soggetti che le determinano.
*Susanna Ronconi, dopo una lunga esperienza sul campo del lavoro di strada, delle dipendenze e della riduzione del danno, è oggi ricercatrice e formatrice negli ambiti delle marginalità sociali, dei consumi di sostanze, del carcere. Lavora nell’educazione degli adulti con attenzione particolare ai temi di genere. Partecipa al Gruppo di Ricerca Interuniversitario NUSA- Nuove Soggettività Adulte, Università degli Studi di Milano-Bicocca-Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “R.M
[1]Sen A. , La libertà e lo sviluppo, Mondadori, 2000, Milano
[2]Sviluppa criticamente questa prospettiva Fabio Folgheraiter, nel suo lavoro per una ridefinizione internazionale del Lavoro Sociale in ambito IFSW (Federazione internazionale degli operatori sociali e IASSW (Associazione internazionale delle scuole di Lavoro Sociale), Folgheraiter F., The mystery of social work, Erickson, 2012, Trento (con testo anche in italiano)
[3]È interessante, a questo proposito, il dibattito attorno al concetto di empowerment, che a seconda delle declinazioni assume significati di liberazione e potere dei singoli e dei gruppi, o di contro delega a loro soltanto la propria condizione, spoliticizzando le relazioni sociali e i ruolo delle istituzioni. Folgheraiter F. (2012) cit.
[4]Cruz M., Farsi carico. A proposito di responsabilità e identità personale. Meltemi, 2005, Milano
[5]Folgheraiter F. (2012) cit, pag. 52