Dal nostro corrispondente dagli USA – Marijuana Justice Act: questo il titolo del disegno di legge presentato dai Democratici alla Camera nei giorni scorsi. Obiettivo primario è legalizzare la marijuana a livello federale, cioé nell’intero Paese, derubricandola dalla iper-restrittiva Tabella I del Controlled Substances Act voluto da Richard Nixon nel 1971. La proposta, firmata da 12 deputati capeggiati da Barbara Lee e Ro Khanna (California), è il corrispettivo dell’analogo testo presentato lo scorso agosto al Senato da Cory Booker (New Jersey). Combinazione questa che segna un passo storico nella storia politica americana, sia in quanto colpo di grazia all’inumana war on drugs sia per le norme incluse nei disegni di legge: garantire atti di “giustizia riparatrice” alle comunità colpite in questi decenni da arresti e condanne per uso o possesso di marijuana e la creazione di una “industria inclusiva dal basso”.
Si prevede infatti l’avvio di un fondo d’investimento pari a 500 milioni di dollari per stimolare l’occupazione nel nascente settore della cannabis e il contemporaneo taglio dei contributi federali per le attività repressive e per la costruzione di nuove carceri ad hoc, attività che colpiscono in grande maggioranza le comunità di colore o dal basso reddito. Come ha prontamente ricordato la Norml (National Organization for the Reform of Marijuana Laws, storica non-profit attiva a Washington fin dal 1970) «l’arresto di afro-americani per violazione delle leggi sulla marijuana è superiore di quasi quattro volte a quello dei bianchi, pur se entrambe le etnie ne fanno uso in maniera pressoché analoga». E la Drug Policy Alliance – che ha rilasciato oggi il suo rapporto From Prohibition to Progress: A Status Report on Marijuana Legalization – ha aggiunto che «il Marijuana Justice Act potrebbe bloccare la distruttiva guerra alla marijuana portata avanti da Sessions», ricordando gli enormi danni causati da un proibizionismo ormai fallimentare e anacronista ma che il Procuratore Generale vorrebbe rinfocolare con il recente annuncio di rescindere le linee-guida in vigore che di fatto garantivano il via libera alla depenalizzazione della cannabis nei singoli Stati.
Quest’ultima uscita (finora rimasta senza seguito e con possibile effetto boomerang) ha suscitato un’aperta opposizione bipartisan al Congresso, come pure tra i cittadini e le testate di ogni tendenza, al punto che la senatrice repubblicana Dana Rohrabacher (California) ha presentato un’altra proposta legislativa, co-firmata da 39 colleghi, in base alla quale viene interdetto alle autorità governative di incriminare o perseguire consumatori e aziende che rispettano le leggi statali sulla cannabis.
Il quadro politico a stelle e strisce sembra dunque indirizzato sulla strada della regolamentazione legale, come ha appena confermato il Governatore del Vermont firmando la norma che consente ai maggiorenni residenti nello Stato di possedere fino a un’oncia di marijuana (28,34 grammi) e di coltivarne due piante mature e quattro in crescita. Si tratta del nono Stato (oltre al Distretto di Columbia che include la capitale Washington) che opta per la legalizzazione, e il primo a farlo per volere dei legislatori locali anziché in seguito a referendum popolare. Analoghe proposte verranno discusse prossimamente nelle assise parlamentari del New Jersey, New Mexico e New York.
Non a caso l’affondo Democratico poggia su quest’inarrestabile trend in ambito locale, protetto altresì dal Decimo Emendamento alla Costituzione che sancisce il diritto al federalismo e a implementare normative statali, e al contempo sul crescente sostegno dei cittadini per la legalizzazione a livello nazionale. Secondo l’ultimo sondaggio, condotto dal Pew Research Center a inizio 2018, il 61% degli adulti si dichiara favorevole, un picco complessivo mai registrato finora, con in prima fila il 69% degli elettori Democratici, seguito dal 65% di indipendenti e dal 43% di chi si definisce Repubblicano. Non è anzi escluso che questo diventi un cavallo di battaglia della prossima campagna elettorale Democratica, insieme alla tutela degli immigrati e dell’assistenza sanitaria, per riconquistare spazio e seggi in vista delle elezioni di novembre per il parziale rinnovo del Congresso e di molte amministrazioni locali. Contando anche sull’ovvio calo di popolarità dovuto alle croniche disfunzioni della Casa Bianca e, per estensione, del fronte repubblicano.
Il rovescio della medaglia dell’attuale scenario riguarda invece la scarsa informazione su queste proposte di legge e sulle tendenze nazionali. Nello scorso fine settimana, per esempio, le testate mainstream hanno seguito senza sosta la mancata approvazione dello stanziamento dei fondi federali, con il blocco delle attività governative non essenziali e soprattutto lo strascico di polemiche a non finire. E in generale, la gestione a dir poco caotica dell’amministrazione Trump sta avendo come effetto collaterale un disinteresse diffuso per qualsiasi tema politico. Motivo per cui il fronte dell’attivismo, a partire proprio dalla Norml, sta diffondendo inviti a contattare i propri rappresentanti al Congresso affinché si diano da fare per avviare la discussione in aula dei due disegni di legge. Mentre s’intensificano i rilanci sui social media e il comune passa-parola tra conoscenti e amici.
Il quadro generale che va emergendo appare dunque frastagliato ma promettente. È ormai chiaro che, per porre fino a un inutile e costoso proibizionismo, serve un «nuovo approccio capace di integrare scienza, compassione, salute e diritti umani», come ribadisce la Drug Policy Alliance. Mentre queste iniziative convergenti verso la legalizzazione della marijuana puntano proprio «a spostare la conversazione nazionale su tale questione», nelle parole del deputato Khanna. Pur nel marasma delle fake news (e delle fake news diffuse per smentire le fake news, ad infinitum), il possibile successo potrà venire soltanto grazie alla stretta collaborazione tra i pochi politici attenti, i tanti cittadini motivati e altri soggetti interessati della società civile.