Non esiste nulla al mondo che possa competervi. Niente in grado di raggiungere la stessa velocità di profitto. Nulla che possa garantire la stessa distribuzione immediata, lo stesso approvvigionamento continuo. Nessun prodotto, nessuna idea, nessuna merce che possa avere un mercato in perenne crescita esponenziale da oltre vent’anni, talmente vasto da permettere di accogliere senza limite nuovi investitori e agenti del commercio e della distribuzione. Niente di così desiderato e desiderabile. Nulla sulla crosta terrestre ha permesso un tale equilibrio tra domanda e offerta. La prima è in crescita perenne, la seconda in costante lievitazione: trasversale a generazioni, classi sociali, culture. Con multiformi richieste e sempre diverse esigenze di qualità e di gusto. È la cocaina il vero miracolo del capitalismo contemporaneo, in grado di superarne qualsiasi contraddizione. I rapaci la chiamano petrolio bianco. I rapaci, ovvero i gruppi mafiosi nigeriani di Lagos e Benin City divenuti interlocutori fondamentali per il traffico di coca in Europa e in America al punto tale che in Usa sono presenti con una rete criminale paragonabile soltanto, come racconta la rivista ‘Foreign Policy’, a quella italoamericana. Se si decidesse di parlare per immagini, la coca apparirebbe come il mantice di ogni costruzione, il vero sangue dei flussi commerciali, la linfa vitale dell’economia, la polvere leggendaria posata sulle ali di farfalla di qualsiasi grande operazione finanziaria. L’Italia è il paese dove i grandi interessi del traffico di cocaina si organizzano e si strutturano in macro-strutture che ne fanno uno snodo centrale per il traffico internazionale e per la gestione dei capitali d’investimento. L’azienda-coca è senza dubbio alcuno il business più redditizio d’Italia. La prima impresa italiana, l’azienda con maggiori rapporti internazionali. Può contare su un aumento del 20 per cento di consumatori, incrementi impensabili per qualsiasi altro prodotto. Solo con la coca i clan fatturano 60 volte quanto la Fiat e 100 volte Benetton. Calabria e Campania forniscono i più grandi mediatori mondiali nel traffico di coca, in Campania sono avvenuti i maggiori sequestri d’Europa degli ultimi anni (una tonnellata solo nel 2006) e sommando le informative dell’Antimafia calabrese e napoletana in materia di narcotraffico, si arriva a calcolare che ‘ndrangheta e camorra trattano circa 600 tonnellate di coca l’anno.
La strada africana, la strada spagnola, la strada bulgara, la strada olandese sono i percorsi della coca infiniti e molteplici che hanno un unico approdo da cui poi ripartire per nuove destinazioni: l’Italia. Alleanze strettissime con i cartelli ecuadoregni, colombiani, venezuelani, con Quito, Lima, Rio, Cartagena. La coca supera ogni barriera culturale e ogni distanza tra continenti. Annulla differenze, nell’immediato. Unico mercato: il mondo. Unico obiettivo: il danaro. In Europa, ‘ndrangheta e camorra riescono più di ogni altra organizzazione a movimentare la cocaina. Spesso in alleanza tra loro, alleanze nuove e inedite tra gruppi a cui i media italiani tradizionalmente riservano un’attenzione marginale e cronachistica, lasciando che nel cono d’ombra generato dalla fama di Cosa Nostra continuassero a migliorare e trasformare le loro capacità di importazione e gestione della coca. I giovani affiliati della ‘ndrangheta, come emerge spesso dalle inchieste dell’Antimafia calabrese, ormai non la chiamano più col suo nome arcaico e dialettale, ma Cosa Nuova. E che Cosa Nuova possa essere l’adeguata definizione per un’organizzazione sempre più trasversale e in strettissima alleanza con i cartelli napoletani e casalesi della camorra è qualcosa in più di un semplice sospetto. Tra Sud America e Sud Italia sembra esserci un unico cordone ombelicale che trasmette coca e danaro, canali noti e sicuri, come se esistessero immaginari binari aerei e gallerie marine, che legano i clan italiani ai narcos sudamericani.
Una volta su una spiaggia salernitana ne avevo incontrato uno. L’unico che sembrava provare soddisfazione nel farsi chiamare narcos. Stravaccato sulla sdraio, ascelle aperte al sole, raccontava di sé con i silenzi giusti per alimentare la curiosità e non saziarla. Raccontava di sé senza dare nessun dettaglio che potesse divenire prova, faceva intendere ciò che era e lasciava che su di lui fioccassero leggende. Era uno che si diceva amico di un capo guerrigliero colombiano, Salvatore Mancuso, ne parlava come di una sorta di semidio, una potenza in grado di far muovere capitali immensi e di legare il Sud Italia alla Colombia con un unico indissolubile nodo scorsoio. Ma quel nome non mi diceva niente. Un nome italiano in Colombia, uno dei molti. Poi, qualche anno dopo, venni a conoscere ogni centimetro di leggenda e di inchiostro giudiziario. Salvatore Mancuso è il capo delle Auc (Autodefensas Unidas de Colombia), i paramilitari che da decenni dominano su oltre dieci regioni dell’interno della Colombia, contendendo paesi e piantagioni di coca ai guerriglieri delle Farc. Mancuso è responsabile di 336 morti tra sindacalisti, sindaci, pubblici ministeri e attivisti per i diritti umani: secondo le sue stesse ammissioni fatte al tavolo della commissione Giustizia e pace, istituita nell’ambito del negoziato tra i paramilitari e il governo del presidente colombiano Alvaro Uribe. Salvatore Mancuso è riuscito ad evitare ogni richiesta di estradizione sia negli Usa che in Italia, dove vorrebbero che venisse a rispondere delle tonnellate di coca esportate, perché per evitarle si è fatto arrestare. Condannato a 40 anni per una delle stragi più efferate della storia colombiana, quella di Ituango, attualmente collabora al processo di smobilitazione della guerriglia e per questo la legge 975 colombiana ha ridotto la sua pena a soli otto anni che sconta lavorando in una fattoria nel Nord del paese. Ma da lì in realtà continua ad avere una nuova postazione attraverso cui gestire la diffusione della migliore coca colombiana con i cartelli italiani. Sentir pronunciare il nome di Mancuso, per molti significa far affiorare ogni volta la voce di un testimone scampato a uno dei massacri compiuti dai suoi uomini delle Auc, un contadino che stringendo il microfono come se stesse spremendo un tubetto di dentifricio per farne uscire l’ultima stilla, disse in tribunale: “Cavavano gli occhi di chi osava ribellarsi con dei cucchiaini”. Migliaia di uomini al suo servizio, una flotta di elicotteri militari, e intere regioni da lui dominate, l’hanno reso un sovrano della coca e della selva colombiana. Mancuso ha un soprannome ‘El Mono’, la scimmia, evocato dal suo aspetto di agile e tozzo orango. L’inchiesta Galloway Tiburon coordinata dalla Dda di Reggio Calabria dimostra che con l’Italia ha il maggiore numero di affari. Possiede persino il passaporto italiano. L’Italia sarebbe la nazione più sicura per svernare qualora la Colombia divenisse troppo rischiosa. Mancuso è considerato in diverse inchieste dell’antimafia (Zappa, Decollo, Igres, Marcos) il narcotrafficante che più di tutti, attraverso le finestre dei porti italiani, riempie di coca l’Europa. Il governo italiano che riuscirà a portare Mancuso in Italia sarà l’unico in grado di poter dichiarare di aver fatto qualcosa di decisivo contro il traffico di cocaina, perché sino a quando lo si lascia in Colombia, ogni giorno sarà come giustapporre la firma ai suoi affari.
Il contributo fondamentale della criminalità organizzata italiana sta nella mediazione dei canali e nella capacità di garantire continui capitali d’investimento. I capitali con cui la coca viene comprata si definiscono ‘puntate’. E le puntate dei clan italiani arrivano prima di ogni altro concorrente: puntuali, corpose, in grado di permettere ai produttori di avere garanzie di vendite all’ingrosso e persino di liberarli della necessità di trasportare il carico sino a destinazione. L’operazione Tiro Grosso coordinata dai pm Antonio Laudati e Luigi Alberto Cannavale, compiuta nel 2007 dai Carabinieri del nucleo operativo provinciale di Napoli e che ha visto la collaborazione di Polizia, Guardia di Finanza e la partecipazione di decine di polizie europee, della Dea americana e della direzione centrale per i Servizi antidroga diretta dal generale Carlo Gualdi, costringe a cambiare in maniera radicale lo sguardo sulle vie della coca. Emerge la nascita di una nuova figura, il broker, e lo spostamento dell’asse internazionale dei traffici dalla Spagna a Napoli.
Dopo gli attentati dell’11 marzo 2004, la Spagna decretò il massimo rigore alle frontiere, cosa che si tradusse nell’aumento esponenziale dei controlli di porti e autoveicoli. E così il paese che prima era considerato dai narcos un enorme deposito dove poter stoccare cocaina alla sola condizione che non fosse destinata al mercato interno, ora come snodo di scambi diventava problematico. Tutta la droga finisce quindi dirottata in altri porti come Anversa, Rostock, Salerno. La coca vi arriva dopo che le puntate sono state decise, e a partecipare alle puntate non sono solo i clan, ma anche i corrieri, i broker stessi e chiunque voglia tentare la strada dell’investimento in questa sostanza alchemica che rende cento volte il costo iniziale. In un’intercettazione fatta dai carabinieri di Napoli all’interno dell’operazione Tiro Grosso, Gennaro Allegretti, accusato di essere un corriere, sta preparando un viaggio in Spagna e chiama un suo amico per farlo partecipare alla ‘puntata’. Dall’alta parte del telefono, l’amico appena uscito dalla banca, sa di non avere molti liquidi e quindi vorrebbe tirarsi indietro:
“Tu lunedì cosa devi fare?! Perché io domenica già devo stare preparato… se tu mi dici di no… io domenica notte mi metto nella macchina e me ne vado. lunedì all’alba ce ne andiamo”.
“Penso di no, perché ora sono andato in banca, quasi sicuro di no”.
“Compà… non ti perdere sempre i tram, non perderlo. ha partecipato mezza Italia: ma che tieni da vedere. entri il mese prossimo con tre milioni in più”.
I broker si incontrano negli alberghi di mezzo mondo, dall’Ecuador al Canada e i migliori sono quelli che fondano società di import-export. Trattano con i produttori come Antonio Ojeda Diaz che da Quito a Guayaquil – questo è quanto rivela sempre Tiro Grosso – organizzava i suoi contatti con gli italiani attraverso ditte di import-export con la Turchia. A Istanbul arrivavano solo i contenitori, mentre la coca sbarcava a più tappe durante le soste nei porti italiani e tedeschi. Le modalità del traffico gestito dai broker napoletani sono sterminate. Dalle scatolette di ananas sciroppato dove la coca è nascosta a mo’ di cuscinetto tra una fetta e l’altra, ai caschi di banane dove le palline di coca venivano cucite nel corpo di ogni singola banana. I mediatori sudamericani come Pastor o Elvin Guerrero Castillo spesso vivono direttamente a Napoli, e gestiscono i loro affari direttamente da qui. In Italia il numero uno come broker, secondo le accuse, è Carmine Ferrara, di Pomigliano. Riusciva secondo gli inquirenti a gestire le puntate più importanti. Lui stesso si vanta della sua bravura in una intercettazione: “Tutti vogliono lavorare con me.”. Le puntate sono raccolte dai diversi clan, Nuvoletta, Mazzarella, Di Lauro, i Casalesi, Limelli, gruppi spesso rivali tra di loro, ma che riescono ad accedere alla coca attraverso gli stessi broker. La forma del traffico è semplice e aziendale. Broker che mediano con i narcos, poi i corrieri che trasportano e poi i ‘cavalli’ che sono gli uomini affiliati che la passano ai vari sottogruppi dei clan e infine i ‘cavallini’ che la danno direttamente ai pusher. Ogni passaggio ha il suo guadagno, ma la coca oggi è passata dai 40 euro al grammo del 2004 ai 10-15 nelle piazze più importanti d’Italia. Altro capitolo sono le piazze nel cuore di Napoli, la capitale dello smercio. Il meccanismo dei broker è fondamentale per i produttori di coca: non sono affiliati, non hanno conoscenza se non sommaria delle strutture organizzative dei clan e quindi anche se arrivano a parlare, non sanno dei clan, e il clan non sa di loro. Se i broker vengono arrestati, rimarrà il cartello criminale pronto a divenire interlocutore di nuovi broker, e al contempo se una famiglia viene smantellata, i broker continueranno ad avere i loro interlocutori senza subire altro danno che un cliente perso. Si rivolgeranno ad altre famiglie o a nuove famiglie che emergeranno. Si leva una brezza di scandalo momentaneo quando vengono diffusi certi dati inquietanti: come il fatto che oltre l’80 per cento delle monete italiane risulta tracciato di polvere di coca o che le fogne di Firenze contengono più residui di quelle londinesi. Ma che sia la coca il motore primo dell’economia criminale e che questa, l’economia criminale, sia la più florida delle economie del nostro tempo, su questo molte procure ci lavorano in silenzio da anni e spesso con risorse inadeguate.
Il procuratore Franco Roberti, capo del pool anticamorra dell’Antimafia di Napoli, viso spigoloso, fortemente mediterraneo, taglio d’occhi orientale, un passato alla Procura nazionale antimafia, da molto tempo e prima d’ogni emergenza ribadisce, ricorda, sottolinea, con l’ostinazione di chi vuole guardare al di là del momento critico, dov’è che risiede davvero il problema. Nelle conferenze stampa delle più importanti operazioni antidroga coordinate dal suo ufficio delinea senza mezze misure la situazione grave, gravissima cui si deve far fronte. “A Napoli si ammazza quasi esclusivamente per la droga. La cocaina scorre a fiumi e genera guadagni favolosi. I clan si combattono per il controllo dei traffici. Se un clan investe un milione di euro in una partita di coca, ne ricava in brevissimo tempo almeno quattro. Quadruplica il guadagno rispetto al costo in un tempo microscopico”. Solo per Tiro Grosso gli affari dei broker napoletani spaziavano dalla Spagna (Barcellona, Madrid, Malaga) e poi Francia (Marsiglia e Parigi), in Olanda (Amsterdam e L’Aia), Bruxelles in Belgio, Münster in Germania e poi corrieri e contatti in Croazia, ad Atene e poi a Sofia e Pleven in Bulgaria, a Istanbul in Turchia, e infine Bogotà e Cucuta in Colombia, Caracas in Venezuela, Santo Domingo e Miami negli Usa.
I corrieri utilizzati erano tutti rigorosamente incensurati, e viaggiavano su auto modificate. E la modifica delle auto era sofisticata fino all’inverosimile. La coca e l’hashish venivano preparati come un letto steso appena sopra l’asse dell’auto su cui poi montare il corpo del veicolo. Nelle officine napoletane di Quarto, Agnano, Marano, il meccanismo usato è, come dicono i meccanici, ‘a’ kamikaze’. Come i kamikaze hanno mutato per sempre la strategia militare contemporanea sbaragliando ogni difesa effettiva, perché fino ad allora ci si basava sull’assunto che l’attaccante cercasse di salvarsi, allo stesso modo i narcotrafficanti hanno compreso che l’unico modo per salvarsi dai posti di blocco era organizzare carichi che per scovare bisogna smantellare l’auto stessa. Cosa impossibile per qualsiasi pattuglia. Una volta, durante un’operazione di sequestro di un’automobile, pur sapendo con certezza che vi fosse della cocaina, i carabinieri non riuscivano a trovarla. Smontata l’auto pezzo per pezzo, non si individuava la coca. I cani la sentivano, ma non riuscivano a localizzarla, si agitavano confusi e schiumando dal naso. La coca era nascosta in forma cristallizzata nei fili della parte elettrica dell’auto. Solo un elettrauto esperto avrebbe potuto scovarla, scoprendo più fili del necessario. Per il trasporto si usano le famiglie dei trafficanti. Sono il modo migliore per distribuire i carichi. Le famiglie reali, non metaforicamente i clan, ma proprio i familiari incensurati e che fanno i mestieri più disparati. Gli si offre un weekend in Spagna e 500 euro a testa per il viaggio. L’avvocato pagato in caso di arresto, ovviamente. Una famiglia incensurata – padre madre e bambina – che parte il sabato o la domenica mattina e fa il viaggio, non insospettirebbero nessuna pattuglia. Sulla Roma-Napoli la scorsa primavera i carabinieri fermarono una famiglia che viaggiava su una Chrysler, spaziosa e ben caricata su un letto di 240 chili di cocaina. Quando hanno arrestato i genitori, un sottufficiale non riusciva a togliere dalle braccia della madre una bambina completamente disperata e in lacrime. E i volti di questi trafficanti della domenica erano increduli come di chi non si è reso conto sino in fondo di cosa stava facendo.
La Chrysler sembra costruita apposta per i trafficanti che la foderano. Sopra le gomme, nei vani dei finestrini che spesso non possono essere abbassati ma che tracimano di coca. Negli anni ’80 era la Panda, ora invece non c’è trafficante che non desideri la Chrysler nel proprio parco macchine. Ogni auto di trafficante è protetta da un sistema di staffette che segnalano se ci sono posti di blocco e si organizzano di modo che a ogni uscita la staffetta avverte se uscire o proseguire sull’autostrada. Non parlano mai per telefono dell’arrivo o della partenza del carico e neanche loro sanno tutto il percorso, sanno solo in quali città hanno delle basi e a queste basi fanno riferimento solamente una volta arrivati. Una volta giunti a destinazione segnalano la loro presenza, così che sarebbe troppo tardi per gli inquirenti andare e sequestrare, se hanno ascoltato la conversazione. Una scheda telefonica per ogni viaggio. Poi si butta. In un’intercettazione un trafficante al casello di Caserta Nord si accorge che lo stanno aspettando i carabinieri e che l’hanno beccato e allora temporeggia dinanzi al casellante chiamando subito gli altri: “Mi hanno bevuto. chiamate l’avvocato, stutate tutti i cellulare fate fermare tutti quanti”. Quando sono pedinati, i corrieri, le staffette cercano di seminare le auto civetta dei carabinieri e preparano camion in alcune piazzole di sosta, che aprono il ventre dei loro autotreni caricano la macchina e partono. Anonimi. Camion tra altri camion. È così difficile travolgere il sistema di staffette che nell’aprile scorso per bloccare una macchina i carabinieri sono dovuti atterrare con un elicottero sull’autostrada verso Capua per fermare un corriere.
I metodi per depistare sono sfiancanti. Un auto, pedinata per Tiro Grosso, prima di giungere dalla Spagna a Napoli ha fatto il seguente giro: parte da Ventimiglia, va a Genova, poi torna a Ventimiglia, poi va a Roma, poi torna a Firenze, poi va a Caserta e poi a Napoli. Tutto arriva a Napoli, ma da Napoli può anche ripartire. Pistoia, La Spezia, Roma, Milano e poi Catania. I nasi imbiancati d’Italia tirano coca battezzata a Napoli. Non c’è luogo dove la coca trattata dai broker napoletani non giunga. Non c’è gruppo criminale che non medi con loro. La mafia turca ha chiesto urgentemente coca ai broker napoletani offrendo armi in cambio. Le indagini per smantellare il brokeraggio di coca sono complicatissime. Gran parte del meccanismo del contrabbando è stato metamorfizzato in traffico di coca. Infatti i Mazzarella – è emerso dalle indagini – hanno concesso ai broker i loro ‘capitani’, ossia gli scafisti che negli anni Ottanta trasportavano le bionde, ora dai porti marocchini e spagnoli portano tutto a Napoli, Mergellina, Salerno. Un scafo Squalo 3 prima di essere usato era necessariamente testato dai ‘capitani’ napoletani. I napoletani continuano a essere inafferrabili nella gestione dei traffici per mare, gli introvabili fratelli Russo, i boss nolani eredi dell’impero che fu di Carmine Alfieri, secondo informative dei carabinieri, fanno latitanza su navi, non toccano mai terra, sempre in giro, per Mediterraneo e oceani.
Napoli è città che distrae, la microcriminalità e le faide danno imperativi che non riescono a concedere tempo ai grandi affari dei clan e delle borghesie della coca. E questa è una certezza che i broker conoscono bene. Ma non è sempre così. E per comprenderlo bisogna incontrare il colonnello Gaetano Maruccia, il comandante provinciale dei Carabinieri di Napoli. La prima volta che lo incontrai, ebbi l’impressione di discutere con uno stratega competente e impassibile, ma al tempo stesso ci ritrovai lo slancio del capitano Bellodi de ‘Il giorno della civetta’. Qualità inconciliabili che parevano invece trovare sodalizio in un uomo capace di tenere insieme le contraddizioni fra ciò a cui non si può venir meno in nessun momento e a nessun costo, e ciò che si fa perché dietro al dovere resta ad agire il motore vivo di una scelta. Pugliese d’origine con sangue calabrese, un passato in Sicilia e a Roma, somiglianza al Brando maturo, capelli bianchi tirati indietro, una voce da basso. Immancabile sigaro a lato della bocca, e nel suo studio uno strano aggeggio che sbuffa ogni tanto un profumo che tende ad annullare il tanfo del tabacco. Mi stupì che riuscisse a inquadrare il problema strutturale del territorio in una situazione dove c’è un perenne rincorrere l’emergenza, l’imperativo della quotidianità, l’ossessiva richiesta di soluzioni quotidiane e immediate. Maruccia invece ha idee chiare: “È fondamentale comprendere come il mercato legale sia non soltanto infiltrato dai capitali generati dalla coca, ma fortemente determinato da questi capitali. E capire queste determinazioni è il compito più complicato. Le nostre ultime indagini dimostrano che Napoli è uno snodo centrale del traffico internazionale di coca, ma anche un punto di partenza per il riciclaggio, il reinvestimento, la trasformazione della qualità del profitto del narcotraffico in qualità economica legale. Scoprire i traffici, i canali di arrivo, le molteplici tecniche attraverso cui la cocaina e l’hashish giungono qui è un lavoro fondamentale, ma è solo la prima parte e forse persino la più semplice del lavoro. Sono le trasformazioni che dobbiamo capire: dobbiamo capire, come la polvere bianca diventi tutto il resto. Commercio, aziende, costruzioni, flussi bancari, gestione del territorio, avvelenamento del mercato legale. Si parte da questa macroeconomia da smantellare e poi i micro e medio crimini avranno vita difficile e agiranno senza speranza di crescita. Ma il percorso dev’essere questo e non il contrario”.
I risultati del Comando provinciale dei Carabinieri di Napoli sono molteplici. Per ultimo, l’intero clan dei Sarno, potente nel racket e nella coca, che gestiva un traffico di armi con l’Est usando come copertura i bus delle badanti, è stato aggredito con 70 arresti. E anche il meccanismo del narcotraffico a Scampia è stato affrontato non soltanto con gli arresti di massa dell’ultimo livello, ossia dei pusher, ma con la distruzione dei fortini attraverso cui i clan difendono la piazza con un metodo nuovo e d’impatto, cioè affiancando centinaia di uomini per presidiarla e impedendo così ogni ipotesi e velleità di rivoltarsi. Maruccia non ha alcun sogno di palingenesi, soltanto sa vedere oltre il caos, oltre la coltre di dati singoli che piovono su una realtà che si vuole troppo spesso schiacciata nel sottosviluppo criminale e che invece cova potenzialità criminal-imprenditoriali enormi. “È innegabile che la loro capacità di fare impresa della coca, sia la loro maggiore qualità. Trasformare una periferia disastrata come l’area nord di Napoli in un’industria florida seppur criminale è una capacità criminale con cui dobbiamo confrontarci e che dobbiamo in ogni modo smontare come si smontano gruppi industriali e finanziari e non combriccole di briganti. Abbiamo di fronte la più importante azienda del territorio e temo non solo di questo territorio, anzi dell’intero paese. Quando si tratta di affrontare i problemi di Napoli non si tratta di rimanere entro i confini regionali, ma anzi risorse, mezzi, attenzione non bastano mai perché i percorsi partono e a volte terminano qui, ma coinvolgono i confini dell’intera nazione e spesso del mondo intero. L’importanza di una sempre più efficiente cooperazione internazionale non è determinante solo per il narcotraffico, ma dev’essere trasversale, deve colpire i capitali di investimento che i clan fanno in ogni parte del mondo. O si parte da questa consapevolezza o si ragionerà sempre in modo parziale”.
Impensabile quindi continuare a osservare la coca come una dinamica esclusivamente criminale, la cocaina diviene una forma attraverso cui comprendere l’economia europea che non possiede petrolio, quello nero, e diviene sicuramente una porta d’accesso per comprendere l’economia italiana. Basterebbe seguire le tracce degli investimenti di coca dei broker campani e calabresi per comprendere dove si orienteranno in futuro i mercati legali. La coca, la magnifica merce, l’innominabile valore aggiunto della vita quotidiana di migliaia di persone e l’impronunciabile talento criminale dell’economia italiana, non può che essere raccontata come un modello metaforico usato per lo zero nel pensiero matematico. Traslando quello che disse Robert Kaplan “guarda lo zero non vedrai nulla, guarda attraverso lo zero vedrai l’infinito”, sembra imperativo affermare: “Guarda la coca e vedrai solo della polvere, guarda attraverso la coca e vedrai il mondo”.