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"Immagina una politica sulla droga fondata non sulla paura, sul pregiudizio e l’ignoranza, che ispirano gli odierni indirizzi americani, ma piuttosto sulla ragionevolezza, sulle risultanze scientifiche, sulla difesa della salute pubblica, sui diritti umani": a detta di Ethan Nadelmann, questo è il senso della politica di riduzione del danno, nettamente contrapposto all’approccio della "guerra alla droga". In brevi linee l’autore traccia il bilancio, assolutamente disastroso di questa "guerra" infinita. Nel 1980, negli Stati Uniti, i detenuti per violazione delle leggi anti-droga erano 50.000 (fotografia della presenza giornaliera); nel 1997 la cifra è balzata a circa 400.000. Sempre nel 1980 il bilancio federale per il contrasto alle droghe era di circa un miliardo di dollari; nel 1997 lo stesso ammonta a sedici miliardi di dollari, due terzi dei quali riservati alla repressione.
Ma l’interesse di questo saggio non è tanto nella denuncia del fallimento dell’approccio punitivo, quanto nell’analisi delle differenze fra gli indirizzi europei, dove la riduzione del danno sta affermandosi sempre di più, e quelli americani. La tesi di Nadelmann è che non esistano sostanziali differenze socioeconomiche fra l’Europa e gli Stati Uniti, e ciò vale anche sul piano normativo. Nel Vecchio Continente il narcotraffico è perseguito, e così il piccolo spaccio, ed è presente una diffusa preoccupazione sociale circa la diffusione del consumo di droghe; anche la retorica della "guerra alla droga" risuona spesso nelle parole dei politici. Ma, a differenza dell’America, gli obiettivi sanitari hanno la priorità e le autorità sanitarie europee hanno un ruolo decisivo nel determinare le politiche. Ciò spiegherebbe come mai, sin dagli anni 80, si siano adottate misure, come i programmi scambia-siringhe, per contenere la diffusione del virus HIV a cominciare dall’Olanda e l’Inghilterra; si siano generalizzati in molti paesi, compresa l’Italia, i trattamenti metadonici per gli eroinomani; sia stata varata in Svizzera una sperimentazione, dai risultati positivi, di programmi con eroina, per ridurre i danni sociali e i danni della clandestinità per quei tossicomani che versino in gravi condizioni di salute e di marginalità sociale; si sia allentata la repressione sui semplici consumatori in gran parte dell’Europa occidentale, depenalizzando la coltivazione e il possesso di piccole quantità di canapa, e perfino la vendita, come in Olanda, e in generale non perseguendo più penalmente l’uso personale di tutte le droghe.
Potremmo chiederci se non ci sia troppa enfasi nel sottolineare gli aspetti innovativi delle politiche europee, laddove persistono differenze rilevanti fra paese e paese. Basti pensare al dibattito italiano sulla sperimentazione dell’eroina terapeutica, in gran parte avulso da un’analisi doverosa delle risultanze scientifiche dell’esperienza svizzera. Lasciamo al lettore giudicare. Il pregio maggiore del saggio è comunque di inquadare la questione droghe all’interno di problematiche politiche più ampie: il rapporto della potenza leader del mondo con paesi di minor peso politico, ma con radicate tradizioni di diritti civili e sociali, sedimentate nell’esperienza del welfare (determinate, a nostro avviso, nell’apertura nord europea alla riduzione del danno); il rapporto (difficile) fra scienza e politica; la (scarsa o addirittura mancata) influenza delle politiche locali, molto più legate ad obiettivi pragmatici di convivenza civile e di tenuta della comunità, nel determinare gli indirizzi nazionali e sovranazionali.
La questione droghe è in ultima analisi un test di vitalità della politica. Come dice Nadelmann: ciò che resta da fare è di appellarsi al coraggio politico. Non solo in America, aggiungiamo noi.

Grazia Zuffa
Presidente del Forum Droghe

Roma, luglio 1998