In un suo recente articolo, Noam Chomsky definiva l’attuale margine di autonomia della Gran Bretagna rispetto agli Stati Uniti paragonabile a quello dell’Ucraina rispetto all’ex Unione Sovietica. Anche nel campo delle droghe, in effetti, Tony Blair, nel suo isterico furore proibizionista, sembra volersi distinguere come "più presidenzialista del presidente (americano)" e paladino, almeno in questo settore, del mercato il più nero possibile nel contesto, invece, di un mercato il più libero possibile nel settore di tutti gli altri beni ed, ahimè, servizi (vedi, ad es., i trasporti).
Tanto più rilevante ed in controtendenza appare il pregevole studio sugli usi terapeutici della cannabis intrapreso e portato a compimento dalla Camera dei Lord inglese, tradizionalmente conservatrice e non certo incline a qualsiasi forma d’indulgenza verso le droghe etichettate come illecite. D’altra parte, un gran numero di esperti ed una crescente fetta di opinione pubblica internazionale reclama da tempo, soprattutto a partire dagli anni ’90, la legalizzazione delle droghe attualmente confinate nell’illegalità, ed in particolare della cannabis. E ciò per vari motivi, tra i quali la loro utilizzazione in campo terapeutico, collaudata peraltro ormai da millenni, non è neppure il più rilevante: sempre più infatti emerge come motivazione principale della legalizzazione il suo immediato tradursi in fattore decisivo di riduzione del danno, inteso sia in senso biologico che sociale. Ma anche la motivazione "in positivo" della legalizzazione, ossia l’indiscutibile valore terapeutico di queste sostanze, ed in particolare della meno tossica fra di esse, la cannabis appunto, sta emergendo con una sua considerevole forza di persuasione, anche fra le frange più conservatrici della popolazione.
Il rapporto steso dalla Commissione, ispirato ad un sostanziale equilibrio fra le opposte argomentazioni, appare tener conto di queste pressioni e, nelle sue conclusioni, non manca in effetti di sottolineare la necessità di procedere ad una sia pur cauta revisione politico-legislativa, se non altro nel campo dell’impiego terapeutico della cannabis e dei suoi derivati. Da qui scaturisce il pressante invito alle autorità governative competenti ad adeguare, se non altro, la legislazione ad una realtà di fatto che nella pratica si va sempre più diffondendo. Una delle motivazioni principali, infatti, è proprio quella di non permettere che cadano in discredito leggi ormai anacronistiche che paradossalmente trasformano in reati penalmente perseguibili pratiche terapeutiche di scarsa se non nulla tossicità e di sospetta…efficacia!
Il rapporto, di cui qui presentiamo ampi stralci, dopo aver sinteticamente passato in rassegna nella parte iniziale la storia millenaria dell’uso della cannabis e le sue proprietà farmacologiche, illustra nei dettagli le sue virtù terapeutiche, e soprattutto la sua capacità di alleviare significativamente le sintomatologie, talora anche minacciose per la sopravvivenza come gli spasmi muscolari e l’anoressia ribelle agli altri trattamenti, che caratterizzano patologie gravi come l’AIDS o la sclerosi multipla. La parte conclusiva affronta poi i complessi problemi medico-legali connessi all’auspicata ricerca medica e tenta, sia pur faticosamente, di delineare un possibile percorso legislativo capace di superare la situazione d’impasse in cui essa versa attualmente.
Dalle pagine del rapporto, nonostante le sue conclusioni non appaiano dunque sfavorevoli ad una qualche forma di cauta legalizzazione della cannabis per uso terapeutico, emergono tuttavia alcuni elementi contraddittori, che a mio avviso meritano di essere messi in evidenza, proprio in quanto spia di una mentalità ancora largamente diffusa, improntata alla perdurante confusione fra i tre livelli biomedico, morale e legislativo, che in un’analisi corretta, obiettiva, "scientifica" insomma come pretende di essere, andrebbero tenuti invece rigorosamente distinti. Varie prese di posizione riportate nel rapporto risentono infatti in maniera abbastanza trasparente di questa mentalità moralista e rigidamente legalitaria, che rasenta il ridicolo quando, pur mantenendosi sempre su un piano astrattamente teorico, colpevolizza il piacere eventualmente connesso all’assunzione della cannabis e mette su un piatto della bilancia la gravità e l’intensità della sofferenza da alleviare e sull’altro il "prezzo" da pagare in termini di un possibile, se pur effimero, senso di (colpevole) ebbrezza o "godimento" (intrinsecamente perverso?!). Ci si chiede se ancor oggi sia possibile che medici, condizionati, sia pur inconsapevolmente, da pregiudizi moralistici, debbano essere liberi, non già di pensare che il piacere è un peccato, che la sofferenza fisica eleva lo spirito ed aiuta ad espiare le proprie colpe e che quindi sia sbagliato annullarla o forse anche solo alleviarla, ma anche di imporre tali convinzioni ai propri pazienti senza alcun riguardo per le scelte morali, eventualmente discordanti, di questi ultimi. Questo "puritanesimo farmacologico" di operatori sanitari che, più che occuparsi del benessere psicofisico del paziente attenendosi scrupolosamente ai dati scientifici e prescindendo dai loro risvolti morali e legislativi, sembrano preoccuparsi della salvezza della sua anima, richiama alla mente la concezione "veteroreligiosa" del sesso come "triste necessità", da viversi idealmente in assenza di piacere – un’aberrazione cervellotica in stridente contrasto con quella realtà biologica evolutiva e con la conseguente selezione naturale, che hanno permesso la stessa sopravvivenza della nostra come delle altre specie.
In questa chiave di lettura mi sembrano potersi interpretare le sottili e prolisse disquisizioni politico-legislative e biomedico-filosofiche, condizionate e distorte alla radice dal dogma proibizionista – quasi che la legge "per magia" potesse influenzare gli effetti biologici dei farmaci -, su sostanze marchiate comunque dal pregiudizio (per gli altri medicinali, anche se gravati da seri effetti collaterali, non ci si chiede mai se siano moralmente prescrivibili!), nonché il conseguente balletto di proposte legislative di spostamenti dalla 1° alla 2° Tabella (e viceversa) a seconda delle Convenzioni nazionali ed internazionali ispirate alle varie visioni politiche, culturali e religiose prevalenti nella classe dirigente e nell’opinione pubblica dei momenti storici corrispondenti alla loro adozione ed entrata in vigore. E’ anche esasperante, oltre che paradossale, il circolo vizioso che attanaglia tutto il rapporto, derivante dal rifiuto di legalizzare sostanze che non siano state preventivamente provate efficaci mediante sperimentazioni cliniche controllate, e l’impossibilità (o quanto meno l’enorme difficoltà) pratica di condurre sperimentazioni cliniche controllate su sostanze che non siano state preventivamente legalizzate.
Sia per i pazienti, che per gli utenti ed il pubblico in generale, sarebbe forse più utile, invece di essere obbligati a districarsi in questo confuso ginepraio bio-legal-moral-politico-emotivo legato ad un pregiudizio dogmatico che condiziona e distorce ideologicamente il discorso scientifico, poter scegliere liberamente e consapevolmente come rapportarsi o non rapportarsi a queste sostanze sulla base di un’informazione corretta, semplice, chiara e trasparente.
Paolo Crocchiolo
Roma, ottobre 1999