“La più grave epidemia del mondo contemporaneo è la superficialità”
(Raimon Panikkar)
In questo saggio Francesco Maisto ricostruisce meticolosamente l’emergenza coronavirus in carcere da un osservatorio privilegiato, quello del Garante delle persone private della libertà in una città come Milano, dunque estremamente significativa quanto alla diffusione del virus e anche nel rapporto carcere-società, tradizionalmente ricco e sfaccettato.
Un dato che viene subito sottolineato, per essere poi ampiamente documentato, argomentato e supportato da un puntiglioso rimando alle fonti, è la discrepanza tra la rapidità del contagio e la lentezza dell’affrontamento da parte delle istituzioni, comprese quelle preposte all’amministrazione penitenziaria. Ritardi, incertezze, omissioni, contraddittorietà di provvedimenti destinati a moltiplicare gli effetti deleteri dal cronico sovraffollamento, sul quale neppure in questa situazione drammatica e ad alto rischio si è voluto e saputo intervenire adeguatamente.
Una miscela di vecchi e perduranti disagi e di inedite paure verso «un nemico oscuro ed invisibile» potenzialmente esplosiva. La disinformazione, il blocco dei colloqui e delle visite e attività del volontariato, misure d’eccezione – epperò indefinite nella durata – sono stati ulteriori ingredienti che hanno prodotto in diversi luoghi proteste e rivolte, morti e violenze, come quelle denunciate nel carcere di Opera da reclusi e loro famigliari, in più di un caso segnalate allo stesso Ufficio del Garante milanese che le ha, doverosamente e prontamente, trasmesse alla Procura della Repubblica.
Come sempre, anche riguardo il diritto alla salute, il carcere è specchio estremo della realtà esterna. È bastato poco a lesionarlo ancor più di quanto non sia per costituzione materiale. Richiamando normative e convenzioni europee, sentenze costituzionali e ordinanze della Cassazione, Maisto sottolinea come quel diritto comprenda anche quello, fondamentale e prioritario, alla prevenzione.
A fronte della lentezza, eterogeneità dei provvedimenti e mancanze delle autorità centrali, vi sono però stati episodi di supplenza positiva da parte di singoli territori e organi periferici, tanto che, ricorda Maisto, l’OMS ha assunto l’esperienza condotta a San Vittore come riferimento per la realizzazione di linee guida per la prevenzione e controllo dell’infezione nelle carceri a livello globale.
Del resto, anche riguardo la questione del sovraffollamento, ancor più cruciale al tempo della pandemia, il governo ha sostanzialmente scaricato sulla magistratura, chiamata prima a supplire per poi essere messa al centro di polemiche ingiustificate, ancorché virulente, su presunte “scarcerazioni facili”. Arrivando infine, lo stesso esecutivo, a provvedimenti d’urgenza nel segno della resa al populismo penale che, scrive Maisto, hanno creato «bolle di incostituzionalità che hanno sfregiato il volto costituzionale della pena». Un volto che, vulnerazione dopo vulnerazione, rischia sempre più di diventare una maschera.
Sulla soglia della rupe Tarpea
Non è ancora tempo di un bilancio definitivo nell’attribuzione di dolo o colpa al Governo, ed in particolare all’Amministrazione penitenziaria, per gli errori e/o le omissioni nella gestione della prevenzione del contagio nelle carceri. Mi limito, quindi, allo stato, ad individuarne la causa innanzitutto nella superficialità. Può, infatti, ascriversi a superficialità tanto la mancata e ritardata comprensione della gravità della diffusione del contagio – principalmente nelle carceri della Lombardia, del Piemonte e del Veneto -, quanto la lontananza e la distanza tra i Ministeri e le direzioni delle carceri, quanto la qualità burocratica della comunicazione tra i vertici del D.A.P. ed i Provveditorati locali dell’Amministrazione penitenziaria, quanto una visione carcerocentrica della politica penale tutta incentrata sul mantra della certezza della pena.
E quindi, per il momento, opto per la prospettiva cosmica ed universale, non direttamente colpevolista, di Papa Francesco, compiutamente espressa nell’Enciclica Laudato si’, ed in particolare, con l’insegnamento che “ Il nostro stesso corpo è costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora. Niente di questo mondo ci risulta indifferente”.
L’unico che ci ha offerto con la Via Crucis di questo Venerdì santo la narrazione attuale del carcere.
Per quanto non sia ancora tempo di “processi”, però, due fenomeni sembrano macroscopici:
• la lentezza dei tanti ed eterogenei provvedimenti del Governo e del D.A.P. a fronte della velocità del contagio.
• il persistente sovraffollamento e la conseguente necessità dello spazio penitenziario a fronte di provvedimenti scarsamente deflattivi.
“Dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso”, dice giustamente Robert Williams nel film L’attimo fuggente.
Più che le teorizzazioni di carattere sanitario o giuridico sulla pandemia nel sistema carcerario italiano, credo che abbiano valore le testimonianze delle persone detenute.
Alcune e significative le ho trovate in Carte Bollate.
“L’emergenza Covid-19 ha fatto esplodere tutte le contraddizioni lungamente ignorate del sistema carcere, aggravando una situazione già estremamente difficile, caratterizzata, in primo luogo, dal sovraffollamento e dalla radicata convinzione che punire significhi recludere e non utilizzare, quando è possibile, misure alternative.
Nelle carceri si è riuscito a contenere il contagio, che ha avuto percentuali nettamente inferiori rispetto all’esterno, anche perché si è accelerata la detenzione domiciliare di una minima parte di coloro che avevano i requisiti per richiederla. Dal 23 febbraio i cancelli di Bollate si erano chiusi per i volontari. Di lì a poco si sarebbero interrotti anche i colloqui tra i detenuti e i loro familiari. Non avevamo più nessun contatto con il carcere, ma già ai primi di marzo l’ansia era a mille: da San Vittore, Modena, Opera e dagli istituti di mezza Italia arriva la notizia delle rivolte che stanno dilagando, reparti incendiati, detenuti sui tetti di San Vittore.”
Bepi si sente in un brutto film di fantascienza: “Che storia impensabile che stiamo vivendo. La realtà supera sempre la fantasia. Nemmeno nei film più apocalittici si era arrivati a pensare a un virus tanto selettivo e letale. Il disagio di ritrovarsi tutti come profughi, senza il nulla più assoluto, trasferiti in ogni luogo e in ogni dove.”
“Soprattutto vorrei, dopo quello che ho personalmente vissuto, che fosse chiaro che lo Stato insieme a chi applica le leggi può e avrebbe potuto far fronte all’emergenza con più cautela”.
“L’inaspettato, brusco e non compreso blocco dei colloqui con i propri congiunti non è stato un pretesto, ma un urlo di disperazione, anche perché si è sommato ad altri disagi conosciuti come il sovraffollamento.”
“E alla fine scopri che il topo potresti essere tu.”
E’ anche significativa qualcuna delle tante segnalazioni pervenute all’Ufficio del Garante delle persone limitate della libertà personale del Comune di Milano ed inserite nella Relazione inviata il 17 marzo al Procuratore della Repubblica di Milano ed al Garante Nazionale. Segnalazioni e richieste pressanti ed accorate dei parenti che non avevano più notizie dei loro congiunti.
Ha scritto un familiare di un detenuto del secondo reparto della Casa di Reclusione di Milano-Opera: “Mi ha appena chiamato mio marito e mi ha detto che lui non è stato picchiato ma sono stati picchiati tutti i detenuti del reparto dove c’è stato casino nel padiglione di fronte a lui, che è vero che lì sono entrati gli antisommossa che hanno spento le luci e li hanno picchiati tutti quanti, ma non mi ha saputo dire altro ma è vero che alcuni detenuti sono finiti al pronto soccorso”.
“Ho appena sentito un familiare che non riesce nemmeno a parlare, è stata chiamata dalla cognata che le ha detto che i suoi nipoti sono stati picchiati a Opera e che certi ragazzi avevano addirittura gli occhi di fuori dalle botte che hanno preso”.
Altro familiare di un detenuto del primo reparto ha segnalato: “Mi ha appena chiamato, mi ha raccontato tutto, che lo hanno picchiato in tre e lo hanno spaccato, che ha le mani rotte, che hanno picchiato tutti perché nella confusione non hanno guardato chi c’era e chi non c’era, hanno spento le luci e hanno picchiato tutti. Lo hanno tenuto a terra coi piedi e lo hanno picchiato con i manganelli. Per riportarlo nella cella lo hanno dovuto trascinare perché non stava in piedi e per due giorni non è riuscito ad alzarsi perché si sentiva svenire. Dopo, quando hanno capito che non c’entrava gli hanno chiesto scusa. Ha detto di portare da mangiare perché sono tutti alla fame”.
Ed ancora, un familiare di un detenuto del primo reparto: “Ha detto che sono in una situazione di m… Passano solo acqua e sigarette. Hanno tolto i fornelli. Oggi doveva arrivare la spesa ma non è arrivata. Oggi sono andati all’aria un’ora, meno male. Gli ho detto ‘finalmente hai chiamato, è una settimana che non dormo’ e lui mi fa ‘tu non dormi? Io ancora oggi dove guardo trovo lividi nuovi’. Mi ha detto che c’è un ragazzo che ha i segni delle manganellate sulla schiena e li ha fatti vedere al direttore che gli ha risposto ‘quelle manganellate che tu hai sulla schiena io le ho nel cuore per tutto quello che vi è successo”.
“Le parole possono attenuare e smorzare, nascondere la dimensione reale delle cose, ma non possono cancellarla”.
E dunque: sovraffollamento, mancanza di dispositivi individuali di protezione, diverse forme di paura – dall’apatia al terrore – per la propria vita e per quella dei figli e delle famiglie fuori dal carcere, la paura come per una “bomba infettiva”, interruzione dei colloqui tra i detenuti e i loro familiari, cancelli chiusi per i volontari, notizie delle rivolte, trasferimenti in ogni luogo e in ogni dove alla ricerca degli spazi sostitutivi di quelli danneggiati, segnalazioni per detenuti picchiati.
Anche questo avveniva nel contesto tragico in cui molti cosidetti liberi cittadini si sentivano come sulla soglia della rupe Tarpea.
“Sentinella, quanto resta della notte?” (Isaia 21,11)
“Sentinella, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte?” La sentinella risponde: “Viene il mattino… se volete, pregate… convertitevi!”. Questo è il versetto della Bibbia, con valenze teologiche e politiche, che Giuseppe Dossetti, fermo propugnatore degli articoli 2 e 3 della nostra Costituzione – ancora oggi, il proprium della Carta italiana e l’architrave su cui poggia l’edificio costituzionale – amava richiamare in ogni occasione di pericolo per la stessa.
Pericoli che si sono appalesati ogniqualvolta è stato emanato un Decreto legge, un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, una Direttiva di Commissari straordinari, un’Ordinanza regionale, una Circolare che, all’insegna dell’art.32 della nostra Costituzione, hanno rischiato di mettere a dura prova i diritti inalienabili.
Nelle settimane di sospensione della nostra quotidianità a causa delle misure del contenimento del Coronavirus, in cui sono divenuti quasi palpabili concetti altrimenti solo filosofici come lo “stato di eccezione” (da tenere ben distinto dallo stato di emergenza), credo che molti si siano posta la domanda di Isaia nell’oracolo sull’Idumea. Molti, ma, credo, pochi o nessuno ai vertici dell’Amministrazione carceraria.
Quanto resta della notte? Quanto… perché l’eccezione abbia termine, e si possano riguadagnare i gesti della quotidianità? Shomrîm è un participio che designa genericamente i “vigilanti”, coloro che vegliano e vigilano. Un termine che, quindi, ben si adatta all’immagine della ronda ed anche a chi ha il dovere di vigilare e custodire le vite dei detenuti.
“Noi tutti abbiamo un compito supremo nell’esistenza: custodire delle vite con la nostra vita. Guai a noi se non scopriamo chi dobbiamo custodire, guai se li custodiremo male”.
Opportunamente Grazia Zuffa ha sottolineato come “norme straordinarie, che incidono sulle libertà personali in nome di un’emergenza con la E maiuscola, come quella della salute, chiamano “naturalmente” all’eccesso nell’esercizio di autorità: che si manifesta «in alto», a livello dei macropoteri (ad esempio nel ricorso ripetuto e improprio ai Dcpm ), fino ad arrivare «in basso», ai «micropoteri» che presiedono all’applicazione delle norme: portati a indulgere a quel piacere in più che nasce da quel potere in più sui cittadini/e». Tenerla a mente, da parte di ognuno/a di noi, tenerla viva nel dibattito pubblico anche da parte di chi quelle norme ha emanato, è l’unico argine a difesa delle nostre “normali” libertà, per il dopo coronavirus”.
Ferma ed autorevole è stata la posizione di Pulitanò nella distinzione tra “stato di eccezione” e “stato di emergenza” e nei rilievi critici rispetto alla posizione radicale di Agamben riassunta nel titolo significativo L’invenzione di un’epidemia, che, peraltro sembra discostarsi dalle sue classiche e fondamentali precedenti coordinate generali.
Perché: ”La libertà è il diritto dell’anima di respirare”, secondo il testamento di Stefano Rodotà.
Il discorso sui diritti è tanto delicato e denso di conseguenze che non può e non deve essere contaminato da quello organizzativo o da quello sulle finalità dell’istituzione. Nel conflitto fra libertà e restrizione dell’esercizio del diritto alla salute, la regola della Costituzione è l’autodeterminazione; ma quando, in periodi di emergenza dichiarata istituzionalmente ed a tempo determinato, diventa pressante la tutela della salute come interesse della comunità (come ad esempio, di fronte a comportamenti irresponsabili collettivi come la movida), bisogna anche accompagnare la responsabilizzazione della comunità stessa.
E dunque, posto che il tema dei diritti e delle sole limitazioni legittime e legali nel quadro costituzionale è prioritario ed influenza ogni altro aspetto della vita, non appare nemmeno lontanamente analoga la logica della guerra. Il vero pericolo sembra, invece, la riemersione di ogni logica istituzionalizzante che, sotto le mentite spoglie della protezione, funzioni, nei fatti, come controllo sui comportamenti, sicchè il diritto ad essere protetti si trasforma in dovere di sottoporsi al controllo. In questo contesto saranno i più fragili a farne le spese.
Disorientamento spazio-temporale
“Per il detenuto lo spazio si restringe e il tempo si dilata. Il tempo e lo spazio sono dissociati per il semplice fatto che vengono sottratti alla persona che li articola fra loro… Nessuno riesce a mantenere le distanze… I riferimenti dello spazio e del tempo si dissolvono…”
Ai tempi del covid è dato scoprire, in più, che una tipica patologia delle persone ristrette può emergere anche negli amministratori: il disorientamento nello spazio e nel tempo come indicatore di condizione patologica.
La perdita del senso dell’orientamento spazio-temporale, quasi un disturbo caratterizzato dall’incapacità di collocarsi adeguatamente entro le condizioni di tempo e luogo, nonché rispetto alla propria persona e all’ambito in cui ci si trova. Molti amministratori apparivano quindi smarriti, confusi.
Ben altro che l’inflazione della distanza. “La creazione di lontananza, dunque, riguarda il tempo quanto lo spazio. Come lo spazio, anche il tempo ha più direzioni. E il distanziamento nel tempo riguarda il passato ma anche il futuro…”.
Sul tempo in carcere si trovano indicazioni multidisciplinari.
Lo spazio è la percezione del senso esterno, il tempo quella del senso interno. Quando lo spazio è vissuto diventa un luogo, deve però essere abitabile per ritrovare se stesso e ripensare a quel che si è stato e a quello che si può diventare. Ed invece così non è stato perché le misure messe in campo hanno trascurato ogni principio di razionalità.
Doveva poi essere noto che, in tempi come quello attuale, la razionalità deve essere in grado di trovare velocemente soluzioni adeguate per la progettazione, anche provvisoria, di forme dell’abitare che corrispondano ai bisogni mutevoli in corso di pandemia. Quindi: strutture mobili e transitorie, caratterizzate dalla trasformabilità, versatilità, ampliabilità e flessibilità.
Da qui la necessità di realizzare, con quella urgenza che non è stata subito messa a fuoco, zone o luoghi di isolamento sanitario, di quarantene e per le procedure di triage.
Si tratta dei principi basilari dell’existenziminimum, del movimento razionalista, riletti nell’ottica del “fruibile mutevole”.
Un filosofo ha scritto che “in questo preciso momento il mondo – tutto il pianeta – non è governato dalla classe politica né da giunte militari, ma dai medici”.
Certo, la gestione dell’emergenza ha avuto bisogno di risorse di scienza e di tecnica. La scienza ha cercato di capire che cosa stava succedendo, e si è impegnata nella costruzione di risposte tecnicamente possibili nell’emergenza. È entrata e sta sulla scena come impresa conoscitiva ed operativa consapevole delle sue potenzialità e dei suoi limiti.
Si è affermato anche nelle carceri il dominio delle competenze sanitarie infettivologiche e della politica a tutti i livelli senza alcuna interdisciplinarietà con gli architetti e gli esperti delle scienze dell’uomo: il mondo degli psichiatri e degli psicologi.
E’ stata sconfessata la tesi foucoltiana secondo cui “Per effetto di questo nuovo ritegno, tutto un esercito di tecnici ha dato il cambio al boia, anatomista immediato della sofferenza: sorveglianti, medici, cappellani, psichiatri, psicologi, educatori. Con la loro sola presenza presso il condannato, essi cantano alla giustizia le lodi di cui ha bisogno: le garantiscono che il corpo e il dolore non sono gli oggetti finali della sua azione punitiva”.
Le emozioni umane dentro e fuori dal carcere
Identificare e dare un nome al nostro clima emotivo è un compito difficile, ma necessario, soprattutto in epoca di pandemia. Quando ci si trova a fronteggiare un nemico oscuro ed invisibile addirittura può sembrare inutile qualsiasi forma di autodifesa.
Resta ancora emblematica la frase di Franklin D. Roosevelt nel discorso di insediamento del 1933: “l’unica cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa”. Erano però, quelli, tempi in cui le scienze dell’uomo non avevano ancora scoperto e scandagliato i tanti tipi di paura diversa: dal timore alla preoccupazione, all’angoscia, al terrore. E sarebbe di estremo interesse scientifico e terapeutico analizzare il tipo di paura che emerge nei detenuti, ed ancora più specificamente quella emersa in corso di epidemia, soprattutto con l’interruzione brusca di ogni informazione sulle caratteristiche del virus ed in mancanza di comunicazioni con le famiglie, i funzionari dell’area pedagogica ed i volontari penitenziari.
Certamente, per quanto nelle carceri siano attivi taluni mezzi di comunicazione, se per le persone libere diventa sempre più difficile restare all’oscuro ogni volta che compare una nuova epidemia (AIDS, aviaria, ebola), per le persone ristrette questa difficoltà, invece, si moltiplica.
La paura come timore è la madre di pettegolezzi e disinformazione che trova nelle carceri il bacino di coltura ideale, e tuttavia, credo si riesca ad attenuare se non a dominare, con una informazione capillare e specialistica.
Ma già la paura come preoccupazione o addirittura angoscia, già inquadrata come un vero e proprio disturbo, si stabilizza e diventa una ulteriore malattia del detenuto.
A livello più alto è la paura come panico, “lo sprofondamento in una fredda, vischiosa, impotenza” e la speranza che la malattia non si avvicini troppo.
A questo livello il panico nelle carceri può colpire senza far distinzioni tra “carature criminali”.
Infine la paura estrema, il terrore come una agitazione che sale dentro per essere a corto di tempo, diventa il “panico del portone che si sta chiudendo” togliendo occasioni di vita rifugiandosi dentro il castello come nel Medioevo. In questo contesto non si tratta di portoni metaforici, ma di quello tragicamente reale: “il doppio portone”.
E qui penso alla paura di gruppi di detenuti rivoltosi di essere stati rinchiusi nei Reparti previa saldatura dei cancelli interni. Questo è il torschlusspanik.
Soprattutto nel primo periodo di emergenza, caratterizzato dall’interruzione dei colloqui e dall’estrema solitudine personale, questi vari tipi di paura si sono apparsi moltiplicati in misura esponenziale per la preoccupazione della salute dei familiari liberi.
Non è mancato peraltro, l’impegno etico e sociale di tanti operatori penitenziari e di tanti volontari che, più che rappresentare adempimenti di compiti di servizio o doveri in genere, hanno manifestato autentica generosità. Penso qui, tra le tante azioni di solidarietà, alle collette a favore delle donne detenute trasferite improvvisamente nella Casa di Reclusione di Bollate dopo la rivolta nel carcere di Modena, per metterle in condizione di telefonare ai parenti.
Il diritto alla salute
Ipocrisie e distorsioni hanno caratterizzato la polemica sul diritto alla salute dei detenuti, facendo emergere posizioni ideologiche e politiche difformi dal dettato costituzionale, in nome della prevalenza della indefettibilità della pretesa punitiva dello Stato e delle finalità di prevenzione generale del carcere.
Vero è, invece, che la salute è diritto “fondamentale”, l’unico ad essere definito tale nella Costituzione (art. 32 Cost.), un diritto non comprimibile e non derogabile (come si afferma nell’art 15 della Carta Europea), e soprattutto, un diritto che non può essere oggetto di bilanciamenti con altri valori, come più volte ha ricordato la Corte EDU.
Da questo ancoraggio normativo ineludibile discende la consapevolezza di questo valore assoluto, che va affermato e tutelato nei confronti di tutti, senza alcuna eccezione, incluse le persone detenute, ancorchè “mafiose”.
Come ben ha evidenziato Emilio Santoro, preliminare ad ogni discorso sul diritto alla salute è quello sull’informazione. “Questa scelta ‘nord coreana’ rende soprattutto difficile capire quali sono le misure adottate per contrastare il COVID-19 in carcere, per tutelare la salute dei detenuti, del personale di polizia penitenziaria ma, direi, dell’intera collettività, e non consente di capire se tali misure siano sufficienti o se, invece, occorre migliorarle”.
Oggi però, anche in forza dell’art.8 della Convenzione Europea si configura, anche per i detenuti, come per i liberi, il diritto alla prevenzione. L’emergenza coronavirus ci consente di fare un passo avanti e di vedere che dobbiamo includere in maniera definitiva la prevenzione tra i contenuti del diritto alla salute dei detenuti.
Occorre allora ricordare che, nel passato prossimo, in occasione del fenomeno di contagio virale da HIV nelle carceri, la Corte Costituzionale, al fine della tutela del diritto alla salute, con la Sentenza N. 438 del 18 ottobre 1995, dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 146, primo comma, numero 3, del codice penale.
La Corte allora rimarcò: “il valore della salute nel particolare consorzio carcerario come bene da porre a raffronto con gli altri coinvolti, un bene, per di più, la cui tutela assumeva peculiare risalto in considerazione della ‘eccezionalita’ che il fenomeno dell’AIDS presentava in sede penitenziaria. Concetti, questi, che sono stati poi ribaditi nella sentenza n. 308 del 1994, ove si osservò <come il binomio ‘carcere-malati di AIDS’ fosse stato normativamente dissolto sulla base di ‘un presupposto di fatto non valutabile in astratto: vale a dire l’eccezionale situazione di pericolo per la salute pubblica nel contesto delle carceri dovuta a due fenomeni di ‘concentrazione’ fra loro interagenti, quali sono, da un lato, l’alto numero di detenuti all’interno degli istituti e, dall’altro, la massima presenza, fra questi, di soggetti a rischio’, giustificandosi, cosi’, una disciplina ‘che assume i connotati sostanziali di ius singulare>”.
Oltre la riaffermazione dei principi costituzionali cogenti appare significativo che sia ancora vivo il dibattito sulle cause non variabili di incidenza ambientale sul diritto alla salute in carcere.
E’ recente l’ordinanza N. 14260, sez. 1, CC – 21/02/2020, R.G.N. 37128/2019 della Corte di Cassazione che, pur trattando direttamente la questione dello spazio disponibile per ciascun detenuto, la inquadra nella cornice del diritto alla salute.
Argomenta la Corte: “Tra gli indicatori che rivelano una condizione di detenzione non conforme all’art. 3 della CEDU, vi è il sovraffollamento carcerario e, dunque, la necessità di definire lo spazio minimo disponibile, indicato dalla Corte EDU in tre metri quadrati per ciascun detenuto nella cella di assegnazione, e di individuare i criteri per determinarlo in concreto.
Nella sentenza in esame la Corte ha ricordato, innanzitutto, i principi generali già elaborati nella precedente sentenza pilota (10 gennaio 2012, Ananyev and Others v. Russia, cit., § 148) in materia di sovraffollamento carcerario e ha ritenuto che la violazione dell’articolo 3 della Convenzione, a causa dell’insufficienza di spazio personale a disposizione dei detenuti, può sussistere in assenza di una delle seguenti condizioni: disponibilità di posto letto individuale; fruibilità di almeno tre metri quadrati di superficie pro capite; possibilità di spostarsi liberamente fra gli arredi della cella.”
Azioni ed omissioni nel tempo e nello spazio
Oggi il fact checking evidenzia una diffusione contenuta dell’epidemia in carcere, ma è necessario indagarne i motivi. E bisogna passare in rassegna le azioni, le omissioni, i provvedimenti ufficiali ed i silenzi ingiustificati.
Sapevamo fin dall’inizio che la velocità del contagio è in funzione diretta della rapidità e della intensità delle misure di distanziamento e lockdown: più le misure sono rapide ed intense meno il virus si diffonde rapidamente. Invece la velocità di diffusione del contagio non è stata accompagnata, se non preceduta da misure altrettanto veloci.
Le date sono fondamentali per valutare le azioni e le omissioni, altrimenti si rischia di perdersi nel ginepraio dei ventisei Provvedimenti governativi, emessi in tre mesi, andando anche alla ricerca della norma ad hoc per il mondo penitenziario, inserita nei decreti con valenza generale per tutta la cittadinanza. Otto di questi hanno riguardato la Giustizia ed il diritto penitenziario.
Il 30 gennaio del 2020 l’OMS dichiarava l’epidemia Covid 19 emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale ed il giorno seguente veniva emesso il Decreto che proclamava lo stato di emergenza nazionale per sei mesi. Ma, una attenta lettura della cronologia dei provvedimenti ne indica la lentezza e l’eterogeneità, in particolare con riguardo al D.A.P., al quale necessariamente devono far riferimento gli organi periferici che, peraltro, in alcuni territori, con lodevole eccezione, si sono attivati di propria iniziativa.
Esemplare, in tal senso, la Casa Circondariale di Milano in quanto l’OMS ha assunto l’esperienza condotta nel “covidario” di San Vittore come benchmark per la realizzazione delle sue linee guida per la prevenzione e controllo dell’infezione da COVID-19 nelle carceri a livello globale .
Solo con il D.L. 2 marzo 2020, n. 9 all’art.10, comma 14 si disponeva che: “…sino alla data del 31 marzo 2020 i colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati… sono svolti a distanza, mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria e minorile o mediante corrispondenza telefonica, che puo’ essere autorizzata oltre i …Negli istituti penitenziari e negli istituti penali per minorenni ubicati in regioni diverse da quelle indicate nel primo periodo, si applicano le medesime disposizioni quando ai colloqui partecipano persone residenti o che esercitano la propria attivita’ lavorativa, produttiva o funzione nei comuni di cui all’allegato 1 al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 1° marzo 2020.”
Provvedimento presentato e vissuto come provvisorio dai detenuti ai quali è stata applicata dopo pochi giorni ancora una disposizione inattesa e vissuta come stabile.
Infatti con il DL 8 marzo 2020, n. 11 all’art.2, comma 8, si disponeva che : “…sino alla data del 22 marzo 2020, i colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati …sono svolti a distanza, mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria e minorile o mediante corrispondenza telefonica, che può essere autorizzata oltre …”. Ed al Comma 9:” Tenuto conto delle evidenze rappresentate dall’autorità sanitaria, la magistratura di sorveglianza può sospendere, nel periodo compreso tra la data di entrata in vigore del presente decreto ed il 31 maggio 2020, la concessione dei permessi premio di cui all’articolo 30-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, del regime di semilibertà ai sensi dell’articolo 48 della medesima legge e del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121.”
L’8 marzo è il giorno fatidico di innesco di una serie di proteste e di rivolte Infatti, sempre l’8 marzo 2020, con DPCM, all’art. 2 veniva disposto che: “I casi sintomatici dei nuovi ingressi sono posti in condizione di isolamento dagli altri detenuti, raccomandando di valutare la possibilita’ di misure alternative di detenzione domiciliare. I colloqui visivi si svolgono in modalita’ telefonica o video, anche in deroga alla durata attualmente prevista dalle disposizioni vigenti. In casi eccezionali puo’ essere autorizzato il colloquio personale, a condizione che si garantisca in modo assoluto una distanza pari a due metri. Si raccomanda di limitare i permessi e la liberta’ vigilata o di modificare i relativi regimi in modo da evitare l’uscita e il rientro dalle carceri, valutando la possibilita’ di misure alternative di detenzione domiciliare”.
E dunque, per atto amministrativo, ci si accorgeva di altro, e quindi, limitazioni e suggerimenti:
• di isolamento, inattuabile in condizioni strutturali di sovraffollamento,
• di misure alternative di detenzione domiciliare,
• colloqui a distanza.
• limitazione di permessi e libertà vigilata (sic!).
Non si trattava solo di poter applicare misure con rapidità, ma anche di misure deflattive tali da fare nelle carceri lo spazio necessario per la tutela del diritto alla salute.
Il 15 marzo l’OMS emanava le Linee Guida per la prevenzione e il controllo del Covid-19 nelle prigioni e negli altri luoghi di detenzione, volte appunto a fornire elementi utili per impostare strategie di prevenzione e controllo.
Al punto 2 delle Premesse segnalava che: “Le persone private della libertà, come le persone in prigione, sono probabilmente più vulnerabili a varie malattie e condizioni. Il fatto stesso di essere privati della libertà implica, generalmente, che le persone nelle carceri e in altri luoghi di detenzione vivano in stretta vicinanza l’una con l’altra, il che potrebbe comportare un aumento del rischio di trasmissione da persona a persona e di goccioline di agenti patogeni come COVID-come le persone private della propria libertà, come quelle in carcere ed altri luoghi di detenzione, siano più vulnerabili al contagio da COVID-19 rispetto alla popolazione libera, proprio a causa delle condizioni di confinamento in cui vivono insieme ad altri per lunghi periodi di tempo”.
L’OMS aggiungeva come: “l’esperienza mostra che le prigioni e i contesti simili, dove le persone sono costrette a vivere le une strette alle altre agiscono come una fonte di amplificazione del contagio, sia dentro che fuori da quei luoghi, tanto che la salute della prigione deve necessariamente considerarsi come un fatto di sanità pubblica. A questo scopo individua importanti azioni di contenimento, che passano evidentemente innanzitutto attraverso una capillare fornitura di presidi preventivi e che in tanto sono efficaci, in quanto possa garantirsi adeguata distanza tra le persone detenute”.
Come ben aveva suggerito e richiesto il CONAMS (Coordinamento Nazionale dei Magistrati di Sorveglianza) col Comunicato del 15 Marzo 2020 in cui indicava “la necessità dell’adozione urgente di misure serie e celeri di prevenzione e di contenimento della diffusione virale negli Istituti penitenziari, nella consapevolezza della maggiore velocità del contagio negli universi concentrazionari, della mancanza strutturale degli spazi necessari all’isolamento sanitario e alla cura ospedaliera delle persone contagiate e dei rischi di diffusione del contagio penitenziario sull’intero sistema nazionale e sulla salute collettiva dei cittadini. Nella prospettiva – di esclusiva competenza delle Autorità politiche – di un piano ragionato, ordinato e non indiscriminato di scarcerazioni che almeno riporti il sistema penitenziario entro la sua capacità regolamentare, con strumenti ordinari e straordinari sia nel campo delle misure cautelari sia in quello delle misure alternative alla detenzione”.
Nello stesso giorno e con gli stessi contenuti le Presidenti dei Tribunali di Sorveglianza di Milano e Brescia azionavano il cd. Potere di Prospettazione ex art.69, l.354/1975 (istituto probabilmente ignoto ai vertici ministeriali) al Ministro della Giustizia, segnalando preliminarmente la “gravissima situazione degli istituti penitenziari della Lombardia a seguito dell’emergenza derivante dalla diffusione del contagio da COVID-19 sin dal 21.2.2020, ha creato presso l’intera popolazione, con specifico riferimento alle strutture… Gli istituti penitenziari versano in situazione di gravissimo collasso. I gravissimi episodi di rivolta, sinora assolutamente contenuti, potrebbero crescere senza possibilità di contenimento. I pericoli di contagio sono tuttavia costantemente presenti e attualmente stanno producendo i loro tragici frutti, a causa della diffusione del morbo e dei dati che sono rassegnati quotidianamente anche alla Sua attenzione Gli agenti della Polizia Penitenziaria sono allo spasimo, sfiniti da turni senza riposo ed esposti al rischio di contagio, provvedimenti che consentano immediatamente di alleggerire le presenze del carcere provvedimenti normativi di immediata applicazione e che non richiedano il vaglio della Magistratura di Sorveglianza che già ora, per le condizioni dei propri uffici, non sarebbe in grado di potervi provvedere, quali:
– una previsione di una normativa di immediata applicabilità che disponga la sottoposizione a una detenzione domiciliare speciale per coloro che hanno pena anche residua inferiore ai 4 anni e con accompagnamento della Polizia Penitenziaria al domicilio per la contestuale verifica dell’idoneità del domicilio stesso. Si precisa che, come è noto alla S.V., la percentuale di detenuti con pene brevi e medio-brevi è elevatissima e potrebbe costituire la base per un intervento immediato e significativo, mirato come deve essere;
– valutare l’inserimento del presupposto dell’emergenza coronavirus come elemento valutativo per tutti gli istituti normativi riguardanti la concessione di benefici penitenziari.”
Il 17 marzo il Garante dei diritti delle persone private della liberà personale del Comune di Milano, per dovere d’ufficio ex art. 35 L. n.354/1975 ed in adempimento del Regolamento Comunale di Milano comunicava al Procuratore della Repubblica di Milano ed al Garante Nazionale le segnalazioni dei familiari di alcuni detenuti nella Casa di reclusione di Milano Opera circa reati e violazioni di diritti asseritamente avvenuti in quell’Istituto di pena nel pomeriggio del 9 marzo 2020 e nei giorni successivi.
In quelle circostanze, insieme allo staff dell’Ufficio del Garante di Milano scoprivamo compiti inediti e fondamentali per questo profilo di Garanzia, come una cerniera, una mediazione per fornire informazioni alle famiglie sulle condizioni di salute dei ristretti.
Con Comunicato ad hoc manifestavo “preoccupazione per le notizie relative alle proteste nella casa Circondariale di Milano che rischiano di ritardare o talvolta annullare le sinergie per la prevenzione del coronavirus per la cittadinanza, per gli operatori penitenziari e gli stessi detenuti. Ho ricevuto, attraverso diverse vie di comunicazione, informazioni su presunti maltrattamenti nella Casa di Reclusione di Milano Opera nel pomeriggio del 9 scorso, rispetto ai quali ho richiesto l’attenzione della Procura della Repubblica di Milano perché ne accerti la veridicità e la consistenza di quanto in esse riportato, nonché al locale Magistrato di Sorveglianza che ha effettuato due ispezioni”. Condividevo la “prospettazione delle Presidenti dei Tribunali di Sorveglianza di Milano e di Brescia al Ministro della Giustizia ed auspicavo i “necessari provvedimenti normativi deflattivi di immediata applicazione e tali da non richiedere il vaglio della Magistratura di Sorveglianza che già ora, per le condizioni dei propri uffici, non sarebbe in grado di poterli applicare in tempi ragionevoli ed adeguati alla diffusione del virus, quali: – la previsione di una normativa di immediata applicabilità che disponga la sottoposizione a una detenzione domiciliare speciale per coloro che devono ancora espiare una pena, anche residua, inferiore ai 4 anni, e con accompagnamento della Polizia Penitenziaria al domicilio per la contestuale verifica dell’idoneità del domicilio stesso…Per quanto poi riguarda i procedimenti ordinari concernenti i detenuti, si suggerisce di inserire il presupposto dell’emergenza coronavirus come elemento valutativo per tutte le misure alternative alla detenzione.”
Ed invece, la montagna partoriva il topolino. Ogni auspicio e suggerimento veniva disatteso.
Con il famigerato DL 17 marzo 2020, n. 18, criticato ampiamente dalla dottrina per le minime potenzialità deflattive, si disciplinava con l’art. 123 una inedita detenzione domiciliare.
“Nel contesto dell’emergenza pandemia l’approccio securitario è leggibile nel rilievo attribuito al problema del braccialetto elettronico, ai fini della concessione d’una misura alternativa al carcere. Esigenze di controllo di persone solo presuntivamente pericolose sono valutate prevalenti rispetto alle esigenze di sicurezza dal rischio sanitario che ha messo in crisi le libertà di tutti”.
Da qui in poi, gridate reazioni da settori del mondo politico e mediatico venivano rivolte al Ministro ed infuriava la polemica contro le scarcerazioni facili, contro il cd. condono mascherato e l’accondiscendenza dei giudici, in particolare quelli di sorveglianza, a favore dei mafiosi.
Severo, ma fondato il giudizio di Michele Passione: “Ancora una volta, in materia penitenziaria, la politica chiude gli occhi, per cinismo, per insipienza, questa volta assumendosi la responsabilità di non scegliere per ciò che serve al Paese (non solo ai detenuti, che peraltro non son figli di un Dio minore), ma per quel che si ritiene sia utile (continui ad esserlo, pro futuro) ad un consenso elettorale da spendere quando verrà il momento. Scelte che, deve qui segnalarsi, non possono essere ascritte soltanto al Ministro della Giustizia (la cui siderale distanza dai problemi del carcere è nota) o al Presidente del Consiglio, giacché lo strumento utilizzato, questa volta, non consiste nel “consueto” Dpcm, ma si sostanzia in un decreto legge.”
E dunque, un decreto di limitata efficacia che mentre, all’apparenza, sembra semplifichi il procedimento per agevolare la concessione della misura alternativa, pone, invece, una quantità di preclusioni, come se la salute andasse meritata. Incomprensibile appare il richiamo ai “gravi motivi ostativi alla concessione della misura”, di cui al comma 2, ed altrettanto grave è la preclusione per la semplice pendenza di un procedimento disciplinare, in quanto rappresenta un influente precedente normativo, foriero di intrecci perversi con le finalità del procedimento di sorveglianza.
Sulla diminuzione dei detenuti dunque, ha influito in modo modesto la misura prevista dagli artt. 123 e 124 del DL. 17.3.2020 n. 18.
Infatti, secondo il Bollettino del Garante Nazionale erano allora circa 700 i prolungamenti delle licenze dei semiliberi e 2.700 le concessioni delle detenzioni domiciliari di cui solo alcune in forza della cd. semplificazione, prevista dall’art. 123 del decreto (quelle con il braccialetto elettronico erano circa 650), ma molte invece disposte in base alla “vecchia” legge 26.11.2010 n. 199.
In quel contesto e nella previsione di scenari foschi il Garante Nazionale fece un Appello ed assunse l’impegno, poi divenuto costante e prezioso, di emettere un Bollettino quotidiano prima sullo stato delle carceri e poi su ogni genere di restrizione della libertà personale.
Scenari foschi che rendevano necessaria la costituzione del Comitato verità e giustizia per i morti nelle carceri. “Tredici detenuti morti. Un numero inusitato, per giunta incerto, laddove alcuni quotidiani indicano quattordici. Numeri, neppure la dignità dei nomi, per la quale si sta adoperando il Garante nazionale dei diritti delle persone private di libertà. Un’opacità mediatica e politica incomprensibile e ingiustificabile, anche tenuto nel debito conto l’emergenza sanitaria in corso con le gravi e impellenti problematiche che pone a tutti. Un numero impressionante, pur nell’eccezionalità delle circostanze in cui quelle morti si sono verificate”.
Nuovo smalto e rinnovata autorevolezza nella difesa della legalità delle condizioni di vita nelle carceri ha dimostrato l’associazione Antigone , che nel XVI rapporto sulle condizioni di detenzione (titolo: “Il carcere al tempo del coronavirus”), pubblicato il 22 maggio, e presentato alla presenza del nuovo Capo del D.A.P., Petralia, ha posto l’accento sul fatto che la pandemia Covid-19 ha colto gli istituti di detenzione italiani già in una condizione di sovraffollamento. Tant’è che dal 7 al 9 marzo è scoppiata la rivolta nelle carceri. In un solo weekend sono stati distrutti e devastati, oltre 70 istituti penitenziari, a cui se ne sono aggiunti 30 con manifestazioni pacifiche.
Sempre attenti alla valutazione delle statistiche penitenziarie, i redattori del Rapporto hanno precisato che all’inizio della pandemia erano rinchiuse nelle carceri italiane 10.229 persone in più rispetto alla capienza regolamentare.
Anche Antigone, come era prevedibile, conviene che da noi il programma di riduzione del sovraffollamento “si è limitato all’arma scarica e poco flessibile del 123”.
Orbene, quando l’epidemia è iniziata erano presenti nelle carceri italiane 61.230 detenuti, mentre attualmente si contano circa 52.000 presenze. Una riduzione chiaramente insufficiente se si deve necessariamente tener conto che le zone per l’isolamento di tutti i potenziali malati, l’isolamento dei sintomatici non tamponati e quello dei positivi, per non dire di una qualche misura di distanziamento, impongono la necessità di spazi comportanti una riduzione ulteriore di almeno 7000 persone.
Lo svelamento dei trucchi della disinformazione lo dobbiamo alla penna acuta di Stefano Anastasia che ha precisato come i boss scarcerati dal 41bis per motivi di salute siano stati solo 3, e non i 376, che, peraltro, erano già assegnati al variopinto circuito dell’alta sicurezza, previa sclassificazione, e di cui ben 196 in attesa di giudizio (ovvero, “secondo quel vecchio arnese della Costituzione ancora legalmente innocenti”), e tutti per gravi motivi di salute.
Solo 155 sono stati invece i provvedimenti di scarcerazione per motivi di salute adottati dai magistrati di sorveglianza. Quindi, se, come taluno ha proditoriamente sostenuto, si fosse realizzata una nuova trattativa tra Stato e mafia, avrebbero concorso, almeno come esterni, ben 200 Magistrati della Repubblica. Insomma, tecnicamente sarebbe stato un colpo di Stato!
La marginalità sociale, la carcerizzazione dei soggetti bisognosi di cura in strutture esterne per le condizioni di salute mentale, le condizioni dei senza dimora, dei tossicodipendenti, ristretti per pene medio brevi, secondo i dati del Garante nazionale, si quantifica in circa settemila persone con una pena o un residuo pena inferiore a un anno, e oltre quattordicimila con una pena o un residuo pena inferiore a due anni, che è il limite previsto dalla L.199/2010 per la concessione della detenzione domiciliare.
Policentrismo istituzionale
Il policentrismo istituzionale e la vigenza di un ordinamento che non ammette lacune o scelte di misure alternative alla detenzione secondo la volontà del Governo in un determinato periodo di tempo, ha evitato la tragedia.
“Un provvedimento giurisdizionale, se rispettoso delle norme e dei principi costituzionali, non può mai costituire un insuccesso dello Stato di diritto o, peggio, una resa dello Stato alle organizzazioni criminali. Rappresenta, al contrario, la riaffermazione del primato dei valori proclamati dalla Costituzione a cui ogni giudice, nell’esercizio delle sue funzioni, deve costantemente richiamarsi”.
Ed invero, la Magistratura inquirente, giudicante e di sorveglianza ha applicato ogni genere di norma vigente, così rendendo viventi diritto e giustizia secondo il dettato costituzionale.
Questo atteggiamento è stato favorito sicuramente dall’importante Circolare del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, inviata a tutti i Procuratori Generali del Paese. Il documento ha significativamente ad oggetto: «pubblico ministero e riduzione della presenza carceraria durante l’emergenza del coronavirus». “ È di grandissima importanza e testimonia un elevato livello di civiltà giuridica, che il Procuratore generale si preoccupi di inviare, ai soggetti che devono promuovere l’azione penale, richiedere le misure cautelari (circa il 30% dei detenuti sono in custodia cautelare) ed emettere i titoli di esecuzione delle pene, una nota incentrata sul diritto “fondamentalissimo” alla salute, ricordando che esso appartiene a tutte le persone, comprese quelle che sono sospettate o che sono state condannate in via definitiva per aver commesso un reato.”
Scrive il Procuratore Generale: “Oggi il rischio epidemico concreto e attuale, che non lascia il tempo per sviluppare accertamenti personalizzati, può̀ in molti casi rappresentare l’oggettivizzazione’ della situazione di inapplicabilità della custodia in carcere a tutela della salute pubblica, in base ai medesimi criteri dettati per la popolazione al fine di contrastare la diffusione del virus”.
Nella stessa direzione va il Parere del Consiglio Superiore della Magistratura sul DL. N: 18/2020, detto “Cura Italia”, che «auspica soluzioni volte a ridurre il sovraffollamento delle carceri, ivi compresi interventi volti a differire per la durata dell’emergenza, l’ingresso in carcere di condannati a pene brevi per reati non gravi.
E’ da inquadrare in questo contesto di rappresentazione del pluralismo istituzionale, pur trattandosi di documenti emanati da Funzionari del D.A.P. (probabilmente sfuggiti al Capo ), la famosa Circolare del 21 marzo della Direzione Generale detenuti e trattamento del D.A.P. di “segnalazione alla Autorità giudiziaria”, per le “eventuali” determinazioni di competenza, dei ristretti affetti da una serie di patologie indicate dal Centre for Desease Control and Prevention CDC 24/7 Saving lives, Protecting people” e dal direttore della U.O.C. Medicina protetta – Malattie infettive del Presidio ospedaliero Belcolle di Viterbo. Detta Circolare è stata perfino oggetto di valutazione della Commissione Antimafia, come se una semplice circolare avesse potuto influenzare la distorsione del principio della esclusiva soggezione del Giudice alla Legge ex art.101, 2 comma della Costituzione.
Il precedente di detto documento si rinviene nella Circolare, in termini, inviata dall’allora capo del D.A.P., in tempi di contagio di AIDS nelle carceri, e che non fece alcuno scalpore in quanto finalizzata a semplici segnalazioni da parte dei Direttori delle carceri alla Magistratura sulle condizioni di salute dei detenuti, peraltro necessarie anche al fine di eventuali attribuzioni di responsabilità penale e civile all’Amministrazione penitenziaria medesima.
Ben fondata la Circolare, in quanto il giorno prima, il 20 marzo, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Cpt) aveva inviato all’attenzione di “tutte le autorità responsabili delle persone private della libertà nell’area del Consiglio d’Europa” una Raccomandazione sui “Principi relativi al trattamento delle persone private della libertà personale nell’ambito della pandemia di coronavirus COVID-19”.
Si raccomandava alle autorità degli Stati membri del Consiglio d’Europa (CoE) di compiere “tutti gli sforzi possibili affinché si ricorra ampiamente alle misure alternative alla detenzione e alla custodia cautelare tramite la libertà vigilata, la liberazione anticipata o altre misure alternative”.
Tanto, al fine di adottare degli strumenti di prevenzione (quali il distanziamento sociale) che in una situazione di sovraffollamento non è possibile mettere in pratica.
Ricapitolando: all’epoca dell’insorgere della polemica contro le cd. scarcerazioni facili, anche dei mafiosi, era stata disposta la detenzione domiciliare a termine, per pochi mesi, in collegamento con il differimento della pena per gravi motivi di salute – quindi per incompatibilità con lo status detentivo in carcere – solo per 3 ristretti, sottoposti al regime di rigore ex art.41 bis O.P., mentre gli altri 376, definiti mafiosi ex vulgo, erano, sì, inquadrati – secondo la variopinta classificazione penitenziaria – nei vari circuiti di alta sicurezza, ma in base a titoli di reato diversi, già esclusi dal 41 bis dallo stesso Ministro, e quindi valutati di pericolosità attenuata. Tra questi ben 196 erano ancora imputati e 180 – compresi i 50 ai quali era stata concessa la detenzione domiciliare collegata al differimento della pena -, ancorchè condannati in via definitiva, erano ammessi a vari tipi di misure alternative alla detenzione.
Sempre ex vulgo, confondendo il numero delle persone scarcerate col numero decrescente delle presenze nelle carceri, si indica un totale di circa 7000 scarcerati. Ma il punto rilevante non è l’esattezza del numero, quanto invece, l’ascrivibilità della diminuzione alla riduzione degli ingressi per arresti di vario tipo. Sempre acuta è stata la lettura dei dati da parte del Garante Nazionale che più volte ha rappresentato l’inversione delle proporzioni tra ingressi e uscite: ad esempio, nel mese di gennaio, a fronte di 130 ingressi si sono verificate 70 uscite al giorno, con un conseguente aumento di presenze giornaliere di 60 detenuti; al contrario, dal mese di marzo gli ingressi giornalieri sono stati 55 a fronte di 110 uscite.
Si spiega così, correttamente, che la metà circa della diminuzione è attribuibile ai mancati ingressi.
Vero è che il volano è stato spinto dall’impegno costante e faticoso della Magistratura di Sorveglianza che, avendo il polso quotidiano dello stato della salute dei ristretti nelle carceri e conoscendo la scarsa qualità dei servizi sanitari, ha meglio e più celermente potuto applicare le misure alternative in presenza delle condizioni ex lege.
La detenzione domiciliare per motivi di salute è stata applicata quando ogni altra strada non era più percorribile, a pena di annullare il diritto alla cura che avrebbe travolto la dignità della persona, che la Costituzione tutela.
E’ utile ricordare anche al Ministro di Giustizia (in una epoca in cui la Grazia è stata cancellata con qualche vanto non encomiabile) che gli strumenti disponibili nell’armamentario del nostro ordinamento sono ancora, ma non solo, gli art. 146 e 147 del codice penale e che non è un merito sottolineare che sono state applicate norme non approvate da questo Governo, perché si tratta di norme vigenti fin dall’epoca fascista.
Ed invero:” gli art. 146 (rinvio obbligatorio) e 147 (rinvio facoltativo) cod. pen. rappresentano una fondamentale valvola attraverso la quale, di fronte a condizioni di salute, per quanto qui interessa, di particolare gravità, il principio generale secondo cui le pene comminate debbono essere eseguite trova un suo limite proprio nella tutela del diritto fondamentale, di valenza costituzionale, della salute…
Nell’art. 146 comma 1 n. 3 sono contemplate condizioni di salute che risultano incompatibili con lo stato di detenzione o perché la persona si trovi in uno stadio della malattia tale da non rispondere più alle cure oppure in specifiche ipotesi di grave deficienza immunitaria o di AIDS conclamato. La S.C. ha a tal proposito rilevato che l’istituto in questione è posto “a tutela dei beni primari della persona, quali il diritto alla salute, il diritto alla vita, il divieto di sottoposizione a trattamenti contrari al senso di umanità”, a prescindere dal dato concernente la pericolosità sociale della persona (cfr. Cass. 28 novembre 2017, n. 990)”.
Ha esattamente evidenziato Della Bella annotando i provvedimenti pubblicati che “sono tutti caratterizzati dal fatto che l’epidemia in atto costituisce un parametro espressamente preso in considerazione ai fini della decisione”.
Conviene solo forse esplicitare che si tratta di provvedimenti evitabili in un diverso contesto logistico e sanitario ed in altro contesto temporale che avrebbe consentito di valutare l’incompatibilità in un sistema penitenziario diversificato e non omologato ed appiattito come in questi mesi.
Ed invero, le ordinanze più argomentate sul pericolo di vita tale da non poter assicurare adeguate cure in carcere, ancorandosi a consolidata e nota giurisprudenza di legittimità, con riferimento agli artt. 3, 32, e 27 della Cost., all’art.3 CEDU, all’art.1 O.P., all’art.24 delle Mandela Rules, hanno scrutinato i singoli casi secondo una griglia: gravità della patologia in atto diversa dal covid- inattuabilità dell’art.11 O.P.- rischio di progressione di malattia potenzialmente letale.
Illuminanti le argomentazioni della Manca, anche sulle ordinanze di rigetto e sui rimedi esperibili avanti la Corte EDU.
Il Governo dunque ha scaricato il fenomeno sulla magistratura.
Anche al fine di evitare tragedie e polemiche sembra utile la proposta di Della Bella di “introdurre nell’ordinamento strumenti ‘straordinari’ che consentano di garantire, in situazioni di emergenza, una rapida fuoriuscita dei detenuti dagli istituti penitenziari, quando l’esecuzione intramuraria possa determinare un grave pregiudizio per la salute e la vita delle persone. Una riflessione, questa, imposta, da un lato, dalla necessità di assicurare che l’esecuzione della pena si svolga nel rispetto di principi inderogabili di tutela della salute e di umanità della pena, dall’altro, dalla sussistenza di obblighi positivi in capo allo Stato – discendenti tanto dalla Costituzione, quanto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo – che impongono l’adozione di misure volte a proteggere la vita delle persone affidate alla sua custodia, come appunto i soggetti detenuti negli istituti penitenziari.”
Non mi sembra esagerato affermare che sono stati mesi di sospensione dell’art.27 Cost. e che si sono create bolle di incostituzionalità che hanno sfregiato “il volto costituzionale della pena”.
“Il futuro entra in noi, per trasformarsi in noi molto prima che accada”
Rainer Maria Rilke, nelle Lettere a un giovane poeta (Lettera del 12 agosto 1904) scriveva:” Non sappiamo dire chi sia venuto, forse non lo sapremo mai, ma molti sono i segni che ne parlano, che dicono che è in questo modo che il futuro entra in noi, per trasformarsi in noi molto prima che accada.”
L’importanza data al futuro rivela la vitalità di una persona, di una famiglia, di una comunità. La statura di una comunità è direttamente proporzionale all’importanza che il futuro e i progetti hanno in quella comunità.
E’ chiaro ormai a tutti che il mondo di ieri non tornerà e che quando usciremo da questa emergenza sarà necessario ripensare in profondità il ruolo dello Stato, il tessuto economico sociale, il sistema istituzionale, le relazioni internazionali.
C’è bisogno di pensare al dopo, ai possibili percorsi di ritorno alla normalità, e alla futura normalità. È il momento di ragionare su tutto ciò che riguarda il con-vivere; su ciò che vorremmo e anche su ciò che non vorremmo ritornasse uguale.
“Dicebamus heri…”, la frase ed il programma che il teologo fra Luis de León pronunciò nel riprendere le lezioni all’Università di Salamanca, dopo cinque anni passati nelle carceri dell’Inquisizione, non è più riproponibile e non può significare “dove ci eravamo lasciati” perché in tanti non abbiamo lasciato. Comunque, deve essere ostacolata come progetto per il futuro.