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Il presente report sintetizza le questioni e l’analisi critica emersa durante la Tavola Rotonda su “Vita quotidiana in carcere nel tempo delle restrizioni”, svoltasi, in modalità videoconferenza, in data 29/05/2020 con Monica Cristina Gallo, Garante del Comune di Torino, Samuele Ciambriello, Garante della Regione Campania. I contesti territoriali considerati rispecchiano uno spettro ampio che va dal Nord e da una regione particolarmente colpita dal Covid-19 (sia tra la popolazione libera che tra la popolazione detenuta), come il Piemonte, al Centro e a una regione mediamente colpita (soprattutto per ciò che riguarda la popolazione libera) come la Toscana, al Sud, con una regione proporzionalmente meno colpita dal contagio (sia nella società dei liberi, che in quella dei reclusi), come la Campania. Gli autori desiderano ringraziare i colleghi Ciambriello e Gallo, non solo per le preziose riflessioni e le informazioni condivise, ma anche per l’aiuto materiale nella redazione delle note che seguono.

Premessa

L’emergenza COVID-19 si è abbattuta in Italia e nelle patrie galere in una situazione di sovraffollamento in costante e incontrollato aumento. Al 29 febbraio 2020, i detenute e le detenute presenti nel sistema penitenziario italiano ammontavano a 61.230[1]. Nel giugno del 2006, prima dell’ultimo indulto concesso in Italia (l. 241/2006 del 31 luglio 2006), i detenuti erano 61.264 ed erano 65.701 al 31 dicembre 2012, pochi giorni prima della famosa sentenza pilota della Corte Europea dei Diritti Umani (Corte EDU), Torreggiani v. Italy, che condanna (per l’ennesima volta) l’Italia per trattamenti disumani e degradanti connessi al sovraffollamento, costringendola a una serie di riforme (prima fra tutte l’introduzione della tutela rimediale nell’ordinamento penitenziario italiano, agli artt. 35 bis e ter o.p., che per la prima volta consentono ai detenuti e alle detenute italiane di reclamare la tutela dei propri diritti contro violazioni, in atto o passate, dell’amministrazione penitenziaria, con un ricorso di tipo preventivo e uno di tipo compensatorio). Sarà proprio a seguito della sentenza Torreggiani che si aprirà quel laboratorio di discussione e proposte di riforma che furono gli Stati Generali dell’Esecuzione penale, voluti, nella scorsa legislatura, dal Ministro della Giustizia Orlando.
È interessante ripensare, oggi, a quei momenti e fare i conti con il fatto che di tutte le proposte di riforma e di tutte le misure oggetto del piano d’azione del Governo per ridurre il sovraffollamento e dare esecuzione alla sentenza Torreggiani, in sede di procedura esecutiva al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, il vero motore della deflazione che si è osservata almeno nel primo periodo successivo alla sentenza pilota (il tasso di sovraffollamento in Italia, ha infatti ricominciato a salire, a partire dal 2016 e in maniera costante fino proprio a fine febbraio 2020) è imputabile a una vicenda giurisprudenziale legata alla depenalizzazione di reati di droga.
Con la sentenza n. 32/2014, la Corte Costituzionale dichiarava, infatti, l’illegittimità costituzionale della l. 49/2006, cd. Fini-Giovanardi, che aveva modificato il D.P.R. 309/90, unificando il trattamento sanzionatorio delle condotte concernenti le droghe cd. pesanti e quelle leggere. Dall’ulteriore sentenza di Cassazione, Cass. Sez. Un. Pen., Sent. n. 42858/2014, che risolve il contrasto giurisprudenziale sorto in tema di effetti sull’esecuzione della pena derivanti da declaratorie di incostituzionalità non comportanti l’abolizione della norma incriminatrice, derivò la possibilità di presentare incidente di esecuzione per la revisione della condanna ex art. 73 D.P.R. 309/90 in varie ipotesi.
Nei mesi successivi, anche grazie a una campagna portata avanti negli istituti penitenziari da vari enti e associazioni, molti incidenti di esecuzione accolti dai giudici dell’esecuzione contribuirono a una reale deflazione penitenziaria (basti pensare che nell’arco di 6 mesi si passò dai 58.092 detenuti del 30/06/2014 ai 53.623 del 31/12/2014). Il Governo tentò di ovviare a questa improvvisa (e inaspettata) “depenalizzazione” con il d.l. n. 36/2014, con cui reintroduceva la rilevanza penale per fatti concernenti le sostanze inserite per la prima volta nelle tabelle allegate al t.u. dalla stessa legge Fini-Giovanardi o dai decreti ministeriali successivi, e reintrodotte appunto nelle nuove tabelle del 2014 (ossia per i fatti commessi a partire dal 20 marzo 2014 in poi), ma non riuscì a ‘porre rimedio’ per il passato, ossia per la depenalizzazione per gli stessi fatti commessi prima dell’introduzione del nuovo Decreto-legge.
Insomma questa bolla di depenalizzazione, prodottasi in forza del lavoro di tutela dei diritti costituzionalmente protetti dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione, riuscì (seppur per breve tempo) a far quello che la Corte EDU chiedeva: a garantire una reale riduzione del sovraffollamento penitenziario attraverso strumenti di depenalizzazione.
La premessa è d’obbligo e serve a illustrare sinteticamente gli effetti prodotti sulla popolazione penitenziaria da un intervento, seppur temporaneo (e, vale la pena ripeterlo, non voluto dal coraggio della politica, ma prodotto della giurisprudenza delle corti italiane) in tema di droghe.

Il Covid in carcere: sovraffollamento penitenziario e distanziamento affettivo

Tornando all’emergenza COVID-19, le condizioni degli istituti penitenziari italiani, all’alba della pandemia, non erano certo rosee. Con un sovraffollamento incontrollato e strutture in media fatiscenti e incapaci di garantire le più basilari condizioni igieniche e sanitarie, le patrie galere affrontano il virus attraverso misure di chiusura immediata.
In particolare, le prime indicazioni specifiche per la prevenzione del contagio del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del 26 Febbraio 2020 sono volte a sostituire “i colloqui con familiari o terze persone, diverse dai difensori, con i colloqui a distanza mediante le apparecchiature in dotazione agli istituti penitenziari (Skype) e con la corrispondenza telefonica, che può essere autorizzata oltre i limiti”, oltre che a sospendere tutte le attività trattamentali e l’ingresso della comunità esterna. Queste misure, in linea con la strategia di prevenzione del contagio a livello generale, non sono, però, accompagnate da idonee informazioni sanitarie sui rischi, sulla necessità di prevenzione, sulle misure preventive a livello igienico-sanitario e incidono, come detto, su un ambiente penitenziario talmente degradato e insalubre da ingenerare ansia e timore in una popolazione ancora più ‘rinchiusa’ e dimenticata.
L’evento che funge da detonatore di tutta la discussione intorno alla tutela del diritto alla salute in carcere durante l’emergenza Covid, lega indissolubilmente il tema della salute a quello delle dipendenze. Tra il 7 e il 9 marzo 2020 scoppiano rivolte in 22 istituti penitenziari italiani. L’esito delle rivolte è catastrofico, 13 sono le persone morte durante i tumulti. Secondo l’amministrazione penitenziaria tutte le morti sono da attribuirsi a overdose di metadone e altri farmaci, presi forzando gli armadietti di medicinali delle farmacie penitenziarie.
Da questo momento, alle rivolte viene attribuito un duplice significato (difficilmente conciliabile), da un lato le morti sono giustificate dall’assalto dei detenuti tossicodipendenti alle farmacie penitenziarie, dall’altro, alcune voci si levano a neutralizzare le potenzialità degli interventi deflattivi (pochi e inefficaci) decisi a livello politico e dei provvedimenti di tutela della salute delle persone detenute decisi dalla Magistratura di sorveglianza, parlando di un ‘ricatto’ allo Stato rappresentato dalla rivolta nelle carceri, voluta e promossa da organizzazioni criminali di stampo mafioso. Insomma se i detenuti muoiono durante le rivolte sono dei tossici senza speranza, talmente poco esperti e avvertiti da morire di overdose da metadone, se sono ammessi alle misure alternative in epoca di pandemia, sono esponenti di associazioni criminali di stampo mafioso che usano le rivolte come ricatto allo Stato.
Il caso della Campania sembra sovvertire questa narrazione. I provvedimenti di sospensione dei colloqui fanno scoppiare le rivolte, il 7 marzo. Il Covid, con annessa sospensione dei colloqui nel sistema penitenziario campano, funge da goccia che fa traboccare il vaso delle problematiche di sovraffollamento endemico e scarse condizioni igieniche. Inoltre le rivolte, ingiustificabili nei mezzi, avevano alla base questioni specifiche: il problema dei trasferimenti da un lato e dei contagi che cominciavano a verificarsi dall’altro.
Anche il caso del Piemonte vale a illustrare che l’emergenza sanitaria si innesta su un terreno fortemente critico. Non a caso le 13 strutture piemontesi là dove sono scoppiati tumulti, erano quelle a più alto tasso di sovraffollamento. Nella casa di reclusione di Alessandria San Michele, per esempio, dove a fine febbraio il tasso di sovraffollamento era al 166%, la rivolta causa danni gravi e rende inagibile un’intera sezione di 50 posti, creando ulteriori problemi per la gestione della struttura dove la Direzione aveva tentato un recupero degli spazi e della logistica. Conflitti e tensioni sorgono, però, anche in altri istituti: a Torino, con un serrato dialogo con l’amministrazione penitenziaria, e nella Circondariale di Alessandria don Soria, un vecchio edificio in centro città, dove si sono registrate battiture notturne e proteste nonviolente. Vale però la pena notare un effetto registrato anche a livello nazionale: le uniche proteste che hanno avuto un risalto mediatico sono state quelle violente. L’esempio di Alessandria è palese: si è parlato della rivolta violenta della Reclusione, ma neanche i l’impegno dei Garanti è riuscito a far ascoltare il grido di allarme e le richieste legittime di aiuto espresse, nelle forme nonviolente, dalla Circondariale. Disattenzione e noncuranza in merito alle paure e ai rischi sanitari aggravati da sovraffollamento dilagante, da endemiche problematiche di condizioni igieniche degradate, da difficoltà del presidio sanitario penitenziario e da una particolarissima rigidità della Magistratura di sorveglianza competente, sono state specularmente affiancate (e travolte) dalla pur giusta denuncia rispetto ai disastri dell’altro carcere cittadino, che sono parzialmente degenerati in rivolta violenta e devastazioni.
Che le proteste abbiano risposto alla paura connessa ai rischi evidenti di una situazione igienico-sanitaria precaria, aggravata da alti livelli di sovraffollamento in gran parte degli istituti italiani (e sicuramente in tutti quelli interessati dalle rivolte) e alla reazione alle misure di chiusura e alle restrizioni non adeguatamente affiancate da una necessaria e continua informazione sanitaria (si pensi solo alla quantità di informazioni e prescrizioni igieniche che inondavano la società dei liberi) è dimostrato, a contrario, dai casi di Torino e San Gimignano. A Torino la sospensione dei colloqui e lo scoppio dell’emergenza sanitaria sono stati accompagnati da una soddisfacente informazione da parte del Direttore, in collaborazione con la Garante dei detenuti, volta a chiarire la situazione e i provvedimenti interni. Contrariamente a quanto succede in altre carceri, a Torino le proteste producono minor impatto e durata e sono concentrate nella sezione 5 e nel blocco B; la situazione viene mediata dal Direttore e dal Comandante, senza ricorso alla violenza o grossi danni materiali. A San Gimignano non si sono registrati scontri o rivolte proprio grazie al lavoro di interlocuzione costante da parte della Direzione con i detenuti e all’approntamento tempestivo dei colloqui con il Garante in videoconferenza Skype.
L’accento posto sui danni delle rivolte e sull’eterodirezione da parte di associazioni di stampo mafioso ha completamente annullato la rivendicazione legittima di una corretta e costante informazione sui rischi sanitari e la denuncia di condizioni igieniche, incompatibili con le prescrizioni necessarie per il contenimento di un virus pandemico. Eppure queste erano e sono rimaste le questioni centrali all’interno di un sistema penitenziario nazionale fortemente deficitario.

La difficile gestione sanitaria della pandemia

L’emergenza pandemica ha messo in luce un altro aspetto che si è rivelato profondamente problematico ed è legato alla gestione della sanità in carcere.
Difficoltà della sanità penitenziaria generalizzata, a oltre 12 anni dal DPCM dell’aprile 2008 ed emersa a pieno, ad esempio, in Regione Piemonte che a fronte di una pressione così nuova ha reagito a macchia di leopardo, sia sui tempi che sulle modalità di prevenzione, sia sulle azioni reattive al contagio. Anche sulla gestione del monitoraggio Covid, le Asl sono andate in ordine sparso. L’Asl Cuneo 1 ha fatto una campagna di tamponi a tappeto per tutti, detenuti e operatori, per le tre carceri di competenza, cominciando da Saluzzo (anche a fronte del significativo numero di contagi), ma poi estendendola anche alla custodia attenuata di Fossano e infine a Cuneo, anche per le sezioni 41bis. Altre Asl piemontesi, come quella di Alessandria non hanno eseguito tamponi, nonostante proprio nella Circondariale di Alessandria fosse recluso il primo detenuto positivo in Piemonte. La realtà di Torino mostra un ulteriore aspetto: Torino è un presidio sanitario penitenziario importante, con il Servizio medico Multi-professionale Integrato con sezioni dedicate e specializzate di assistenza intensiva (SAI) e un infettivologo presente: qui i tamponi sono stati effettuati solo come riscontro ai sintomi, all’espandersi del contagio nelle sezioni interessate, a esclusione, però, della sezione Alta Sicurezza. Inoltre, a Torino, con tutte le difficoltà organizzative, il medico responsabile del presidio ha all’inizio fatto dichiarazioni di incompatibilità con il carcere per i positivi e per i soggetti a rischio per precedenti patologie. Le polemiche, con accuse dirette alla Magistratura di sorveglianza, hanno poi fatto cambiare orientamento, in particolare quando si è registrato un contagio nella sezione Alta Sicurezza.
Infine l’Unità di Crisi, che gestisce in forma commissariale l’emergenza Covid in Piemonte, ha stabilito – grazie anche all’intervento dei sindacati penitenziari e dei garanti – una campagna generalizzata di test sierologici sulle forze dell’ordine, ricomprendendo anche la polizia penitenziaria e gli operatori del carcere.
La Toscana ha mostrato, su questo fronte, un atteggiamento fortemente dilatorio dell’area sanitaria, a livello regionale, soprattutto per quanto riguarda l’informazione e l’esecuzione di tamponi e test sierologici. La decisione, infine, di eseguire test sierologici a tutta la popolazione detenuta (seppur nella incertezza dei risultati, dati i problemi insiti nella natura di questo tipo di indagine epidemiologica) ha segnato un cambiamento di rotta e ha decisamente contribuito a ingenerare, nelle persone detenute, un sentimento di fiducia nel sistema sanitario e il senso di essere stati presi in carico, anche e soprattutto in considerazione nella dimensione di rischio aggravato tipica delle istituzioni totali in una situazione epidemica.

Trasferimenti al tempo del coronavirus: dettati dalle rivolte e vettori di contagio

Le rivolte sono anche all’origine di un’ondata di trasferimenti, dovuti a esigenze di tutela della sicurezza interna e a disposizioni disciplinari, da un lato, e alla aggravata situazione di sovraffollamento dall’altro. Le rivolte, infatti, avevano provocato danni materiali tali da ridurre ulteriormente la capacità regolamentare dei singoli istituti penitenziari; dato quantomai critico nel momento in cui appariva necessario predisporre sezioni di isolamento cosiddetto ‘sanitario’ dedicato a persone con sintomi o con tampone positivo o per l’opportuna separazione degli spazi per gestire i casi.
I trasferimenti, disposti immediatamente dopo le rivolte e senza approntare le dovute misure di prevenzione (doppio tampone negativo a distanza di una settimana nell’istituto di origine e isolamento precauzionale di 14 giorni nell’istituto di destinazione), portano al dilagare del contagio in alcuni istituti.
È questo il caso di Saluzzo e della gestione dei detenuti trasferiti in Piemonte a seguito delle rivolte. Sono state 72 persone trasferite a Saluzzo (essenzialmente da Modena e da Bologna) e dei 222 arrivati in Piemonte, senza preventivi tamponi e senza purtroppo che il rispetto delle prescrizioni consigliate sia stato sufficiente a impedire il contagio.
Mentre a San Gimignano, una persona trasferita da Modena (con un tampone positivo, ma successivamente mantenuta lavorante nella mansione di portavitto proprio nella sezione Covid) risulta positiva all’arrivo in Istituto. L’immediata disposizione precauzionale dell’isolamento preventivo impedisce il diffondersi del virus. La differente gestione dei trasferimenti è all’origine di esiti completamente opposti in termini di contagio e di rischio potenziale.

Carcere, Covid e droghe. Una triade di difficile composizione

È interessante verificare le interconnessioni tra carcere e droghe in tempo di pandemia. Alcuni casi, tra quelli discussi all’interno della Tavola Rotonda, servono a illustrare, infatti, quanto una situazione di emergenza sanitaria incida in maniera più che proporzionale sui detenuti tossicodipendenti che, dalle ultime stime, sono il 27,94% del totale dei presenti (mentre erano 21.213, a fronte dei 60.769 detenuti totali, i detenuti presenti per reati connessi alla legge sulle droghe in carcere al 31/12/2019, secondo gli ultimi dati forniti dal Ministero della Giustizia).
A fronte, infatti, delle scarse e inefficaci misure legislative di ampliamento dell’accesso alle misure alternative (come già ricordato prevalentemente sostanziatesi nella semplificazione procedurale della misura della detenzione domiciliare ex l. 199/2010, tuttavia aggravata nei limiti di accesso, soprattutto per le persone ‘coinvolte’ nei disordini del 7-9 marzo 2020), la magistratura di sorveglianza operava attraverso un’azione robusta di concessione di misure alternative, prevalentemente nella forma della detenzione domiciliare in luogo di differimento pena (ex art. 47 ter co. 1 ter o.p.).
A oggi questo lavoro di tutela del diritto alla salute delle persone detenute, insieme al sostanziale blocco del flusso in entrata (in parte dovuto alla drastica riduzione dei reati, in parte al minor uso dello strumento della misura della custodia cautelare in carcere da parte dei tribunali ordinari) ha garantito una costante e progressiva riduzione della popolazione penitenziaria. D’altronde, da un lato, la popolazione non è mai arrivata a sfiorare la capacità regolamentare, come indicata (e misteriosamente calcolata) dal Ministero della Giustizia, dall’altra, l’emergenza sanitaria ancora in atto ha costretto a ripensare gli spazi, rivalutandoli alla luce della necessità di potenziare i reparti di isolamento sanitario per tutti i casi, non soltanto di positivi asintomatici, ma anche di persone risultate positive al test sierologico e in attesa del doppio tampone, di nuovi giunti e persone trasferite da altri istituti, di persone sintomatiche in attesa di tampone (quando i sintomi consentano la permanenza in carcere e non impongano l’ospedalizzazione).
E’ emersa, quindi, l’esigenza di immaginare reparti di isolamento sanitario e, nei casi a più alta densità di contagi di veri e propri reparti Covid. Il Piemonte, ad esempio, è arrivato ad avere 78 casi di contagio a Torino, 22 a Saluzzo e 3 ad Alessandria, nel momento di maggiore picco di contagi. Dopo la gestione in affanno e la frenata della Magistratura sulle concessioni di misure alternative a seguito del dibattito pubblico relativo ad alcune concessioni di misure alternative a detenuti per reati di mafia e a detenuti ristretti in circuito Alta Sicurezza (A.S.), mentre nelle altre sezioni si optava per eseguire il tampone a tappeto, per gli A.S., proprio a causa delle polemiche sulle scarcerazioni, si sceglieva di non eseguire il tampone, pur avendo svolto la persona contagiata mansioni di portavitto ed essendo, quindi, entrato a contatto con molte persone tra agenti e detenuti e pur essendo ristrette in questo circuito persone mediamente più anziane, con detenzioni medio-lunghe e portatrici di malattie varie.
Nel frattempo, invece, venivano approntate strutture interne dedicate alla detenzione di persone positive al Covid. A Torino, in particolare, per i detenuti positivi con rigetto dell’istanza di scarcerazione da parte della Magistratura o impossibilità di accedere a misure alternative, veniva creata una struttura dedicata, all’interno dell’istituto presso il padiglione E, sezione a custodia attenuta che ospita oltre alla Sezione del Polo Universitario, la squadra di Rugby e la comunità di recupero per tossicodipendenti.
Quest’ultima è la struttura a Custodia Attenuata “Arcobaleno”, un centro di riferimento regionale per il trattamento di secondo livello dei detenuti con disturbi da uso di sostanze. Organizzata per accogliere fino a un massimo di 70 persone provenienti anche da altri istituti di pena, si articola anche con gli interventi di primo livello, erogati nello stesso Istituto, e in uscita con i SERD territoriali, con le Strutture residenziali per il trattamento delle dipendenze e con le altre agenzie e risorse sanitarie del territorio, dedicate a contribuire al progetto riabilitativo.
L’Arcobaleno, nel complesso coinvolge 100 detenuti e 10 detenute, garantendo così, cosa più unica che rara nel sistema penitenziario italiano, la parità di genere (nel rispetto delle proporzioni di popolazione penitenziaria per genere) nell’accesso a una struttura ad alta valenza trattamentale. Sarebbe importante, in questa prospettiva, immaginare una percentuale di posti da riservare anche alle persone transgender con disturbi da uso di sostanze stupefacenti (data la rappresentazione più che proporzionale del fenomeno all’interno della popolazione transgender detenuta e la presenza di un reparto transgender nel carcere di Ivrea). Il progetto Aliante, sempre all’interno dell’articolazione Arcobaleno, rappresenta un ponte verso i progetti di cura e reinserimento sociale esterno ed è rivolto a persone la cui posizione giuridica consenta l’elaborazione di programmi di cura e socio-riabilitativi da iniziare in carcere e proseguire all’esterno in misura alternativa alla detenzione. La particolarità rappresentata dal patto trattamentale prevede una serie di attività mirate al reinserimento in comunità. Si pensi ad esempio che è una delle poche sezioni con cucina interna e attività laboratoriali e trattamentali specifiche e continuative. Infine, vale la pena menzionare la sezione dei tossicodipendenti sieropositivi, cosiddetta sezione Prometeo, realtà che continua ad essere interessante (anche se ha forse smarrito il senso iniziale e si è cronicizzata). I detenuti fanno ingresso in questa sezione attraverso un’adesione al progetto Prometeo, con una cucina dedicata e un trattamento diversificato per detenuti con patologie complesse (oltre alla sieropositività). Durante l’emergenza Covid purtroppo non c’è stata alcuna attenzione rispetto alla drastica riduzione delle attività all’interno. Prometeo è stata una di quelle sezioni che hanno cercato di più il contatto con i Garanti per ricevere informazioni sul rischio di un eventuale contagio rispetto alla loro situazione sanitaria già molto delicata e caratterizzata da importanti vulnerabilità.
Senza alcun preavviso tutte le persone presenti nelle due sezioni Aliante sono state trasferite nei blocchi principali dell’Istituto per creare la sezione interamente dedicata alle persone positive al coronavirus. L’interruzione del loro programma si è protratta per circa due mesi.
Un altro esempio molto interessante sulla rilevanza dei percorsi differenziati e dedicati al trattamento di persone tossicodipendenti in carcere è rappresentato dalla Campania, in cui l’Istituto a Custodia Attenuata di Lauro, dedicato alla detenzione di persone tossicodipendenti è stato soppresso per far posto a un ICAM (Istituto a Custodia Attenuata per Madri detenute). L’altro Istituto presente in Campania e ormai l’unico dedicato alla gestione trattamentale dei detenuti tossicodipendenti, è Eboli, un piccolo carcere a custodia attenuata. La Campania registra uno scarso accesso alle misure di affidamento terapeutico e un limitato utilizzo dello strumento delle comunità terapeutiche.
Appare necessario valutare quanto abbia inciso la deflazione carceraria esperita in questi mesi e legata alla tutela della salute in carcere da parte della Magistratura di sorveglianza, sulla popolazione penitenziaria tossicodipendente e quale sarà il peso dei reati legati alla legge sulle droghe nel numero dei nuovi ingressi in carcere, appena le statistiche daranno conto anche di questa “riapertura”. Il rischio è che ci troveremo di fronte a una percentuale invariata (o addirittura aumentata) di detenuti e detenute tossicodipendenti.
A fronte di questa mancata considerazione della vulnerabilità contestuale, sanitaria e sociale vissuta da molte delle persone tossicodipendenti in carcere e della maggiore esposizione ai rischi connessi al Covid in carcere per una popolazione particolarmente debilitata sul piano sanitario e immunitario, l’UNODC (United Nation Office on Drugs and Crimes) ha stilato una guida su: “COVID-19: prevenzione dell’HIV, trattamento, cura e supporto per le persone che usano droga e persone in carcere” che detta una serie di linee-guida e indicazioni legate in particolare alla necessità di garantire, durante la pandemia:
La continuità e la sostenibilità dei servizi legati al trattamento e cura di HIV e HCV e di altri servizi a bassa soglia per le persone che fanno uso di droghe… La chiusura dei servizi comporterà solo il sovraffollamento di quelli che rimarranno aperti, il che aumenterà i rischi di trasmissione e avrà un impatto sulla qualità del servizio.
Per ciò che concerne, specificamente le persone detenute tossicodipendenti, la guida dell’UNODC, afferma la necessità che:
le carceri siano incluse nei piani nazionali di preparazione e risposta per il COVID-19. La continuità e la sostenibilità di servizi completi per l’HIV e l’HCV per le persone in carcere devono essere garantiti durante la pandemia COVID-19.
Inoltre gli Stati devono:
Garantire che i servizi sanitari nelle carceri siano almeno commisurati a quelli esterni e che le persone che vivono e lavorano in carcere abbiano accesso a misure preventive e di controllo, alla diagnostica e alle cure per il COVID-19 e per le altre condizioni di salute (HIV, HCV, tossicodipendenza, salute mentale), in modo da rispettare l’etica medica e i diritti umani.
Prendere in considerazione misure non detentive in tutte le fasi dell’amministrazione della giustizia penale, anche in fase preprocessuale, processuale, di condanna e post-processuale. La priorità dovrebbe essere data alle misure non detentive per le persone in custodia cautelare e le persone condannate con un profilo di rischio basso e responsabilità assistenziali, con preferenza per le donne in gravidanza e le donne con figli a carico.
Il documento fa poi riferimento al rischio specifico della connessione tra consumo di droghe e Covid-19.
Da questo discendono una serie di raccomandazioni agli Stati al fine di garantire la continuità dell’assistenza alle persone che fanno uso di droghe e alle persone con disturbi connessi, tenendo conto di una serie di questioni rilevanti.

Suicidi in carcere

Tenere il conto degli atti di autolesionismo e dei suicidi in carcere al tempo della pandemia appare ancora più rilevante, così come è necessario che su ogni suicidio sia aperta un’indagine che possa vagliare le modalità dell’atto e le condizioni contestuali e individuali in cui si colloca. Dalla fine di febbraio, negli istituti penitenziari di Piemonte, Toscana e Campania si registrano almeno 8 suicidi (3 in Campania: Napoli Secondigliano, Aversa il, Santa Maria Capua Vetere; 2 in Piemonte: Novara e Asti; 3 in Toscana: 2 a Prato e 1 a Siena). I casi di Asti (10.05.20) e di Siena (27.05.20) appaiano ancor più allarmanti, dal momento che si sono verificati all’interno dell’isolamento sanitario legato ai protocolli di prevenzione del Covid. Queste, come altre situazioni italiane, saranno da valutare, misurando l’impatto dell’isolamento in relazione alle particolari condizioni psicologiche delle persone coinvolte.

L’emergenza COVID-19 ha portato al pettine della storia alcuni nodi irrisolti e problematiche ricorrenti della comunità penitenziaria italiana. Il sovraffollamento endemico che impedisce a chiunque di gestire l’ordinario, ma ancor di più le fase straordinarie ed eccezionali come una pandemia; la riforma della sanità penitenziaria regionale ancora in attesa di un pieno sviluppo organico e del riconoscimento della sua autorevole presenza in carcere in un’interlocuzione alla pari fra Amministrazioni dello Stato chiamate ad una corresponsabilità parallela e convergente; la consolidata distanza culturale prima ancora che politica fra i decisori istituzionali del territorio ed il carcere, spesso vissuto come un’escrescenza fastidiosa e purulenta, foriera solo di problemi e di costi o semplicemente come un bacino di interessi rappresentati dai sindacati dei lavoratori; la cronica percentuale di detenuti tossicodipendenti che occupano le strutture penitenziarie anziché comunità terapeutiche dedicate, con costi maggiori e risultati trattamentali inferiori e inadeguati alle aspettative individuali ed alle esigenze sociali, di sicurezza e recupero.

Conclusioni

Le aperture e le innovazioni introdotte sull’onda dell’emergenza, sia sul fronte delle tecnologie che delle procedure, giustificate dalle tante chiusure e divieti motivati dalla prevenzione del rischio possono e devono rappresentare un lascito fruttifero di una stagione molto difficile per chi in carcere ha vissuto questi mesi, evitando al contempo il rischio che si istituzionalizzino a scapito della necessaria partecipazione fisica della comunità esterna alla vita del carcere e che si produca un effetto di aggravata dematerializzazione della presenza degli affetti e della società dei liberi in carcere. Se, quindi, le videochiamate e l’utilizzo di canali comunicativi diversificati, oltre a garantire contatti frequenti a famiglie lontane ed indigenti, possono ora far ripartire le attività formative e scolastiche, la presenza in molti istituti di consulenti professionali e competenti, come ad esempio gli esperti di Medici senza Frontiere, possono rappresentare uno sviluppo nuovo di relazioni fra il territorio e il modo chiuso del carcere.

Note

  1. Fonte: Dati del Ministero della Giustizia, reperibili presso: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14.page?frame10_item=2&selectedNode=0_2
  2. Torreggiani and Others v. Italy, n. 43517/09, 46882/09, 55400/09 et al., 8 January 2013.
  3. I documenti prodotti dagli Stati Generali dell’Esecuzione Penale sono reperibili presso il sito del Ministero della Giustizia: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_19.page
  4. Si veda la nota a cura di R. Pirosa, Incidente di esecuzione per revisione di condanna ex art. 73 T.U. stupefacenti, reperibile presso: http://www.altrodiritto.unifi.it/sportell/art73/. Un buon riassunto dell’intera vicenda è offerto da F. Viganò: “Morale: una volta abolita la norma incriminatrice (poco importa se per effetto di un ripensamento del legislatore o di una sentenza della Corte costituzionale), il legislatore resta libero di ripristinare la norma medesima (ovviamente purché al riparo dei vizi denunciati dalla Corte). Ma questa nuova norma potrà, secondo i principi generali, produrre effetto soltanto per il futuro, a una sua ipotetica efficacia retroattiva ostando l’inderogabile divieto di cui all’art. 25 co. 2 Cost.” F.Viganò, “Le Sezioni Unite risolvono un contrasto… dottrinale sugli effetti della sentenza n. 32/2014 in materia di stupefacenti”, Diritto Penale Contemporaneo, 1 agosto 2015, reperibile presso: https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/4057-le-sezioni-unite-risolvono-un-contrasto-dottrinale-sugli-effetti-della-sentenza-n-322014-in-materia
  5. Inizialmente prevista per le sole regioni Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Emilia Romagna, Marche, Toscana e Sicilia, ma poi estesa a tutto il territorio nazionale.
  6. L’unica misura volta ad ampliare l’accesso alle misure alternative è stata la ‘semplificazione’ procedurale incardinata sull’impianto della già esistente detenzione domiciliare, detta ‘speciale’ e introdotta da Angelino Alfano con l. 199/2010, art. 123 d.l. 18/2020, cosiddetto “Cura Italia”.
  7. Manifestano 130 detenuti comuni a Salerno, 800 a Poggioreale e altri a Carinola.
  8. Era, infatti, stato chiesto che nessuno venisse trasferito. L’amministrazione, invece, trasferisce 100 detenuti per motivi ordine e sicurezza.
  9. In secondo luogo va, infatti, considerato il tema dei contagiati e della paura che ne deriva. Le persone positive al Covid sono dapprima un medico e un infermiere a Santa Maria Capua Vetere, poi 2 detenuti, uno contagiato perché trasferito in ospedale a Cotugno. Poi due agenti di Secondigliano e un poliziotto del reparto traduzioni.
  10. Dai dati dello scorso Libro Bianco sulle Droghe 2019, reperibile presso: www.fuoriluogo.it
  11. Se è vero, infatti che, a oggi, la popolazione detenuta è scesa a 53.387 detenuti, è anche incredibilmente vero che la capienza regolamentare non è stata aggiornata dalle statistiche riportate sul sito del Ministero della Giustizia da cui appare, ancora oggi, una capienza regolamentare pari a 50.931 al 29 febbraio, a fronte della capienza regolamentare al 31 maggio 2020, di 50.472, quindi al netto soltanto dei danni alle celle prodotti durante le rivolte e non anche degli spazi ulteriori necessari, anche in via precauzionale, a gestire gli isolamenti sanitari.
  12. Sulle problematiche insite in tale tipo di struttura si veda S. Ciuffoletti, “Oltre la Propaganda. Analisi sull’effettività delle politiche legislative in materia di detenzione femminile in Italia”, in Studi sulla Questione criminale, n. 3 (2014);
  13. COVID-19: HIV prevention, treatment, care and support for people who use drugs and people in prisons (UNODC), reperibile presso: https://www.unodc.org/unodc/en/hiv-aids/new/covid-19-and-hiv.html
  14. Ivi, trad. nostra.
  15. Si rimanda all’allegato. “Suggestions about treatment, care and rehabilitation of people with drug use disorder in the context of the COVID-19 pandemic A contribution to the health security of countries and communities”, formulato sempre dall’UNODC, reperibile presso: https://www.unodc.org/documents/drug-prevention-and-treatment/Drug_treatment_and_care_services_and_COVID19.pdf. In particolare vi si afferma che i disturbi connessi con l’uso di droghe sono spesso accompagnati da condizioni somatiche come HIV/AIDS, epatite B e/o C e tubercolosi, malattie polmonari o cardiovascolari, ictus, cancro e lesioni e traumi, inter alia. Inoltre, le persone con disturbi connessi con l’uso di droghe, specialmente per via iniettiva, possono avere un sistema immunitario compromesso. Infine, il documento fa riferimento allo stigma e alla discriminazione tradizionalmente legati al consumo di droghe e ai disturbi connessi, che spesso si traducono in un accesso limitato alle risorse di base come l’alloggio, l’occupazione, l’assistenza sanitaria e il sostegno sociale. Per tutte queste ragioni, il documento fa discendere da questo minorato accesso alle tutele sociali e sanitarie, un più elevato rischio di sviluppare il Covid.
  16. Come la continuità di accesso delle persone ai servizi anche e soprattutto in tempi di crisi; la preparazione di piani di continuità dei servizi, assicurandosi che siano seguite le raccomandazioni generali per le malattie respiratorie infettive e che siano in vigore linee guida speciali per i pazienti COVID 19; l’erogazione dei servizi in modo da ridurre al minimo i rischi associati allo stretto contatto con le persone o a qualsiasi altra forma di aggregazione sociale; la formazione del personale, compresi gli operatori di prossimità, sulla prevenzione Covid e la necessità di fornire loro attrezzature di protezione; la necessaria assicurazione che i locali dei servizi siano puliti e igienici; la continuità dei servizi a bassa soglia; la distribuzione di naloxone alle persone che potrebbero essere a rischio di overdose di oppiacei etc…
  17. Dalle stime offerte dal Bollettino 34 del Garante Nazionale delle persone detenute o private della libertà personale: “A questi numeri occorre purtroppo affiancare quello dei 21 suicidi registrati dall’inizio dell’anno fino a oggi, un numero, per quanto può contare una valutazione parziale, superiore a quello degli ultimi due anni (alla stessa data di oggi erano 16 nel 2019 e 18 nel 2018). Quello che colpisce è che in ben due degli ultimi tre casi si è trattato di persone che avevano appena fatto ingresso in Istituto e, conseguentemente, erano state collocate in isolamento sanitario precauzionale. Questa drammatica questione induce a una riflessione su come possa essere vissuto tale periodo in persone in cui alla frequente precarietà di vita all’esterno dell’Istituzione detentiva si sono improvvisamente aggiunte l’intrinseca vulnerabilità connessa alla privazione della libertà e quella dovuta a una collocazione isolata sin dal primo traumatico momento.” Reperibile presso: http://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/it/dettaglio_contenuto.page?contentId=CNG8955&modelId=10021