L’Italia non è il Maryland. Giorgia Meloni non è Wes Moore. Nell’annunciare uno straordinario provvedimento di grazia per ben 175 mila persone condannate per possesso di marijuana, il Governatore del Maryland Wes Moore ha parlato di errore storico e di proibizionismo usato come vero e proprio manganello contro gli afroamericani, contro i più poveri, contro coloro che vivono nelle periferie urbane. Infatti, ogni condanna per possesso di cannabis, ricorda il Governatore, è usata per negare il lavoro, l’alloggio o l’accesso all’istruzione.
Si costruisce, così, il circolo vizioso dell’esclusione sociale e della criminalizzazione sistemica dei gruppi vulnerabili. Dunque, ogni politica diretta a rompere il monopolio criminale nella gestione delle sostanze, a partire dalla cannabis, oltre ad avere effetti benefici sull’economia reale e sui tassi di devianza, contribuisce a restituire equità al welfare, rendendolo meno classista e discriminatorio.
In Italia siamo caduti, invece, nel baratro delle politiche demo-securitarie. La discussione parlamentare, su iniziativa del Governo meno liberale della storia italiana, è concentrata su ipotesi di riforma che vanno nella direzione della criminalizzazione del dissenso, dell’imposizione dell’obbedienza alle autorità, della moltiplicazione dei reati e delle pene, nonché della demonizzazione della canapa in tutte le sue forme e le sue composizioni. La doppia morale sta per diventare legge, come in altri anni bui della storia.
Se da un lato la maggioranza politica è finanche proiettata a chiudere tutti i cannabis store, spostando nell’area della illegalità un pezzo di mondo produttivo capace di conquistare fette significative di mercato, dall’altro lato esiste una società giovanile che ha modi di autorappresentarsi e stili di vita incomprimibili dal nuovo modello etico-punitivo imposto dal Governo. Come le elezioni politiche europee hanno dimostrato, ma mano che scende l’età media degli elettori, l’estrema destra perde consenso. E allora, la questione droghe, la questione criminale, la questione carceraria devono diventare terreno di lavoro politico e culturale per chiunque si oppone all’ondata nera. Le nuove generazioni sono pronte.
Si tratta solo di dar loro spazio e voce. Il Governo ha proposto di criminalizzare, in carcere, i detenuti che resistono passivamente a un ordine dato dall’autorità di Polizia, senza neanche specificare se legittimo. Coloro i quali non obbediscono, in forma nonviolenta, a uno dei tanti ordini quotidiani dell’agente di sezione, rischiano fino a otto anni di galera. Una norma selvaggia, violenta, illegittima, che andrà a colpire molti giovani, alcuni dei quali tossicodipendenti con doppie diagnosi, reclusi nelle carceri minorili o per adulti. I tanti Baby Gang che affollano le nostre prigioni anche grazie agli effetti devastanti del decreto Caivano.
Una norma pensata per trasformare il carcere da luogo di giustizia a luogo di ordine pubblico, tornando indietro al regolamento penitenziario fascista del 1931, quando i detenuti dovevano camminare a testa bassa. Di fronte alla retorica punitiva dell’obbedienza, a partire dal mondo che noi rappresentiamo, contro il proibizionismo e lo Stato etico, va riproposta, spiegandola ai più giovani, invece la cultura nobile e nonviolenta della disobbedienza, in tutte le sue forme.
E’ così possibile produrre quel cambio di piano che rompe il circolo vizioso della violenza morale e materiale delle istituzioni. Dunque, a partire dal mondo delle droghe, va costruito un nuovo movimento capace di mettere al centro la libertà e la dignità delle persone.