Il 10 ottobre 2022 il Comitato per i diritti economici, sociali e culturali delle Nazioni Unite (CESCR) si è impegnato a preparare un documento che aiuti gli Stati che abbiano ratificato il Patto sui diritti economici, sociali e culturali (ICESCR) a garantire che le politiche adottate in materia di droghe siano compatibili con il rispetto dei diritti umani (“Commento Generale”). Nonostante le ripetute sollecitazioni da parte della società civile a che la Commissione droghe delle Nazioni unite, l’organo competente in materia di sostanze psicoattive, si pronunciasse sul rapporto tra gli obblighi imposti dalle Convenzioni ONU sulle droghe e quelli derivanti dai trattati in materia di diritti umani, la competenza a coordinare i negoziati e la stesura di uno strumento in materia è stata affidata al CESCR, con il coordinamento dell’esperto Seree Nonthasoot (Tailandia).
Il Commento Generale si trova a dare corpo a un’esigenza di valutazione delle politiche sulle droghe emersa già dopo l’entrata in vigore della Convenzione ONU contro il traffico illecito di stupefacenti e sostanze psicotrope, nel 1988. Lo scopo è quello di agevolare la comprensione del quadro giuridico internazionale e arginare gli abusi che la cosiddetta “guerra alla droga” ha dimostrato di causare nel campo dei diritti umani.
Il regime di controllo delle droghe delle Nazioni Unite è costituito da tre convenzioni che mirano a regolamentare la produzione, distribuzione e uso di piante e molecole principalmente per scopi medici e scientifici: la Convenzione unica sugli stupefacenti (1961), la Convenzione sulle sostanze psicotrope (1971) e la Convenzione delle Nazioni Unite contro il traffico illecito di Stupefacenti e sostanze psicotrope (1988). Nonostante questi trattati abbiano “ispirato” l’adozione di numerose leggi e regolamenti a livello nazionale e regionale, nessuno dei tre contiene riferimenti alle ragioni scientifiche poste alla base della classificazione delle piante, delle sostanze e delle molecole nelle tabelle che definiscono i limiti di accesso e di utilizzo delle stesse. In altre parole, la criminalizzazione di decine di condotte aventi a oggetto la disponibilità e l’uso di piante, molecole e sostanze psicoattive per finalità non medico-scientifiche sono fondate su considerazioni politiche che chiamano in causa la tutela della sicurezza e della salute pubbliche senza fornire evidenze dei rischi effettivamente esistenti.
La bozza di “indice ragionato” formulata dal CESCR e aperta al contributo della società civile si concentra, per ora, su cinque questioni principali:
- programmazione: determinare l’ambito di applicabilità del controllo delle droghe;
- possibili alternative alla criminalizzazione dell’accesso e dell’uso di piante, molecole e sostanze psicoattive: affrontare le discriminazioni razziali e di classe nell’applicazione delle leggi sulla droga;
- la pianificazione dell’eradicazione delle colture: risarcimenti e rispetto del diritto a un tenore di vita adeguato e il diritto al lavoro;
- allontanamento dal paziente vs. dicotomia penale (riconoscimento del diritto di autodeterminarsi nella scelta e sottoposizione ai trattamenti medici;
- prospettive di regolazione nel campo della droga.
Oltre ad aver creato un’architettura normativa che affida al diritto penale il controllo di comportamenti individuali o collettivi caratterizzata dalla non proporzionalità delle pene rispetto alle condotte considerate, l’inclusione di quasi tutte le sostanze nelle tabelle delle Convenzioni del 1961 e 1971 crea ostacoli irragionevoli alla ricerca scientifica e alla produzione di benefici anche medici ricavabili dalla sperimentazione e dagli esperimenti clinici. Viste le dimensioni, e le implicazioni, del “sistema internazionale del controllo delle droghe” sarebbe stato opportuno un Commento Generale che includesse anche le ripercussioni sui diritti civili e politici che più propriamente hanno a che fare con l’amministrazione della giustizia. Nonostante la proposta di lavoro trasversale tra Comitati competenti a monitorare il rispetto di più trattati sui diritti umani avanzata dal Relatore Seree Nonthasoot, il diverso numero di ratifiche tra un trattato e l’altro ha ostacolato il raggiungimento di questo obiettivo.
Se la prima vittima del proibizionismo è il diritto alla salute, la seconda è il diritto alla scienza, entrambi riconosciuti a livello internazionale dall’ICESCR (art. 12 e 15, rispettivamente). La realizzazione di ciascuno dei due diritti è strettamente interconnessa con l’altro. Come sottolineato dal Comitato nel suo Commento Generale n. 25 sulla scienza (2020): «Il progresso scientifico crea applicazioni mediche che prevengono le malattie, come le vaccinazioni, o che consentono di essere curati in modo più efficace» quindi «gli Stati parti hanno l’obbligo di rendere disponibile a tutte le persone, senza discriminazioni, soprattutto ai più vulnerabili, le migliori applicazioni disponibili del progresso scientifico necessarie per godere del massimo ottenibile standard di salute».
Allo stigma discriminatorio e criminalizzante di chi usa le sostanze psicoattive e alla mancanza di politiche strutturate di riduzione del danno, negli anni si sono aggiunte complicazioni normative e burocratiche che hanno praticamente annullato le ricerche degli anni Sessanta relative alle “plant medicine”. Ancora oggi, fare ricerca sulla cannabis implica, tra le altre cose, rispondere a misure di sicurezza degne di un caveau pieno di preziosissimi gioielli. Dal momento che le Convenzioni forniscono standard minimi di applicazione, esse consentono agli Stati di adottare misure più rigorose lasciando spazio a interpretazioni arbitrarie e potenziali violazioni dei diritti umani.
In seguito alla sessione speciale dell’Assemblea Generale sulle droghe del 2016, la Commissione Droghe, la Giunta Internazionale sugli Stupefacenti (INCB) e l’Organizzazione Mondiale della Sanità hanno espresso con insistenza gravi preoccupazioni in merito alla preminenza degli interessi politici nazionali sulle esigenze scientifiche all’interno dei processi decisionali multilaterali, in particolare per quanto riguarda la classificazione delle sostanze.
L’Italia costituisce un esempio concreto circa le sfide e le complessità che emergono quando le norme relative alle politiche sulle droghe si intersecano con i diritti fondamentali.
La sostanziale decriminalizzazione dell’uso personale di sostanze psicoattive, occorsa con il referendum del 1993, aveva iniziato ad aprire le porte all’inclusione dei trattamenti di riduzione del danno all’interno dei livelli essenziali di assistenza (LEA), rimborsabili dallo Stato. A causa dei cambi di governo e di un disinteresse diffuso verso queste tematiche, l’inserimento all’interno dei LEA è avvenuto solo nel 2019 e per di più con coperture non meglio specificate rispetto ai bisogni reali. L’approccio istituzionale resta quello per cui l’accesso a terapie sostitutive o di mantenimento viene percepito alla stregua di un condono dell’uso di droga e di uno “Stato spacciatore” contro cui occorre costruire un muro di opposizione “morale” da parte dell’opinione pubblica.
Le attuali politiche sulla droga restano basate sulle norme adottate nel 1990 e riflettono il regime internazionale di controllo della droga come se in effetti il fenomeno fosse fermo a 34 anni fa. Il Testo Unico 309/90, tra le altre cose, continua a ostacolare il pieno raggiungimento dei diritti alla salute e alla scienza, lasciando un sistema di giustizia penale sopraffatto dai procedimenti per reati droga-correlati con carceri sovraffollate e mancanza di assistenza adeguata per le persone che abbiano fatto un uso problematico delle sostanze illecite.
Il quadro giuridico italiano non è in grado di garantire la disponibilità di servizi accessibili, accettabili e di qualità per la gestione dell’uso problematico di droghe, oltre a porre restrizioni ingiustificate alla libertà di ricerca scientifica in questo campo. Inoltre, la mancanza di un forum nazionale per discutere l’efficacia del quadro giuridico vigente alla luce delle nuove evidenze scientifiche ostacola ulteriormente ogni tentativo di riforma delle politiche sulle droghe verso un più adeguato rispetto dei diritti umani.
L’Associazione Luca Coscioni e Science for Democracy, in collaborazione con la Strategic Litigation: International Human Rights Legal Clinic dell’Università di Torino, hanno predisposto, e condiviso con gli esperti del CESCR, un rapporto che intende attirare l’attenzione dell’Onu sulla crescente necessità di riformare il controllo internazionale delle droghe alla luce della natura evolutiva delle conoscenze ed evidenze medico-scientifiche, con il fine di promuovere maggiore coerenza tra le leggi e politiche interne e il quadro giuridico internazionale a tutela dei diritti individuali. Occorre incoraggiare un confronto costante tra il mondo della scienza, quello del diritto e delle istituzioni nel quadro del rispetto dei diritti umani.
A conferma della mancanza di questo dialogo in Italia, la mancanza di un effettivo dialogo istituzionale tra scienza e democrazia ha portato nel 2022, al divieto di preparare e utilizzare l’ayahuasca, oltre alle piante necessarie al decotto; nel 2023 un decreto ministeriale ha tentato di tabellare il CBD – il principio attivo della cannabis che non è contenuto nelle tabelle delle Convenzioni Onu perché di comprovata utilità medica – perché ritenuto “stupefacente”, la proposta è attualmente sospesa dal TAR del Lazio. Non è escluso che 2024 vengano proibite nuovamente le infiorescenze della canapa (con meno dello 0,2% di THC, il principio attivo della cannabis tabellato) con le derivanti resine e olii perché utilizzati per scopi diversi da quelli industriali.
Guardando al (prossimo) futuro, sarà importante partecipare alle negoziazioni e alla stesura del Commento Generale, oltre a monitorare il comportamento e le risposte degli Stati membri dell’ONU rispetto ai contenuti di questo nuovo strumento. Una prima bozza di “indice ragionato” è stata aperta al commento degli Stati e della società civile a febbraio 2024. Al momento, non ci sono informazioni certe sulla data di conclusione dei lavori.