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Introduzione

Storia

Le comunità terapeutiche hanno rappresentato, per molte realtà territoriali, la più immediata risposta possibile al problema della dipendenza da sostanze, insieme a un impegno politico, educativo e sociale che ha portato alla nascita di “luoghi” di risposta condivisa, di cui le comunità sono state il soggetto più significativo.

In Italia il fenomeno della diffusione dell’eroina soprattutto tra la popolazione più giovane si è concretizzato, tra la seconda metà degli anni Settanta e gli anni Novanta, in un alto numero di morti ­­– fino a 1.500 all’anno per overdose nel 1996 – e nel consolidamento di una parte della popolazione con problemi di tossicodipendenza. Persone che, per le abitudini e le modalità d’uso collettivo per via endovenosa, sono state fra le prime vittime dell’epidemia di Aids e affette dalle patologie connesse alla diffusione dell’Hiv. L’infezione da Hiv aveva contagiato un numero enorme di persone – il picco venne raggiunto alla metà degli anni Ottanta, con circa 18.000 nuove infezioni all’anno – e tra esse soprattutto i tossicodipendenti, con un elevatissimo numero di morti tra i malati, anche per la quasi totale assenza di farmaci efficaci.

In questo quadro allarmante per il prezzo di vite pagate a un fenomeno che sembrava inarrestabile, accompagnato da tensioni, drammi familiari e rapporti sociali intergenerazionali conflittuali e da una quasi totale assenza di servizi pubblici specifici dedicati, una parte di società civile sensibile, attiva e preoccupata, si attivò per cercare delle risposte alle richieste di aiuto che venivano dalle persone con problemi di dipendenza. È così che nacquero da gruppi di familiari, volontari, religiosi e professionisti, sperimentazioni di forme nuove di ascolto legate a esperienze residenziali connesse ai territori, che offrivano processi di accompagnamento relazionale, gruppi di autoaiuto, laboratori ergoterapici, supporto psico-pedagogico, attraverso esperienze di vita comunitaria fra persone con tossicodipendenza da eroina, volontari in via di formazione e professionisti particolarmente sensibili.  I modelli erano ispirati, mutuati e rivisitati da un lato sulle esperienze anglosassoni delle comunità di cura per persone con disagio psichico, e dall’altro sulle storiche comunità di vita, accoglienza e condivisione di ispirazione religiosa diffuse anche nel nostro paese.

Questo arcipelago eterogeneo di gruppi, associazioni, laici impegnati ed enti religiosi ­– molti dei quali avrebbero poi dato vita, agli inizi degli anni Ottanta, al Coordinamento Nazionale Comunità di accoglienza (CNCA) – ha continuato a operare e a mantenere un forte legame con i territori in cui erano nati, con le famiglie delle persone che accoglievano, con i servizi pubblici dove esistenti (spesso legati all’inizio soprattutto alla salute mentale), inaugurando processi di formazione e scambio professionale su temi nuovi e piuttosto difficili, tra sanità e dinamiche sociali, psicologiche, educative.

A Torino, nell’ottobre del 1980, si tenne il primo incontro delle comunità di accoglienza che daranno vita due anni dopo al CNCA. Le numerose persone presenti provenivano per la maggior parte dal nord ed erano per lo più preti che, in ambienti spesso diffidenti e ostili, avevano posto il problema del disagio sociale nei territori e condiviso la richiesta di uno spazio di confronto in cui poter esprimere opinioni e proposte per incidere sulle scelte politiche in ambito sociale e sanitario, scelte che spesso erano concausa dei problemi che affrontavano nelle comunità.

Nello stesso periodo nasceva, su spinta della Conferenza Episcopale Italiana e di don Mario Picchi, il Programma “Progetto Uomo”, a forte influenza cattolica, nelle cui varie sedi territoriali il direttore era quasi sempre un sacerdote che faceva capo alla Diocesi. Un altro esempio di come il fenomeno della tossicodipendenza rappresentasse un problema molto sentito e diffuso. Il Progetto Uomo ha dato vita con alcune delle proprie associate al Centro Italiano di Solidarietà (CeIS), l’altra importante rete nazionale sul tema delle dipendenze patologiche.

In quegli anni sorgevano anche grandi strutture che ruotavano attorno a figure carismatiche, guru o pseudo tali, che operavano da incontrastati padroni, promettendo la sicura salvazione dei “drogati” attraverso l’isolamento in luoghi quasi mitici, lontani dai contesti di vita di origine degli ospiti, con programmi della durata di molti anni. Queste strutture, che applicavano metodi spesso coercitivi e con approcci molto rigidi, erano una delle risposte di una società incapace di comprendere nuove forme di espressione e conflitto giovanile, e di fornire strumenti per la soluzione dei problemi connessi con la diffusione dell’uso di eroina; erano una reazione al senso di impotenza di una generazione di fronte a nuovi bisogni sociali che minavano un relativo benessere economico diffuso.  Guru che implicitamente ricevevano una delega quasi onnipotente ad agire per risolvere, senza alcuna supervisione, i problemi individuali, sociali e sanitari connessi alla tossicodipendenza con strumenti rigidamente normati, più ispirati a luoghi di contenzione, e con forme punitive e coercitive di cui si è discusso anche nelle aule dei tribunali. Queste strutture hanno avuto per molto tempo maggiore attenzione e credito anche politico – pur rispondendo a un numero limitatissimo di persone – perché rispondevano a un bisogno generalizzato di allontanamento dal contesto civile del malato, del problema, della droga, come precedentemente era successo per il fenomeno della malattia mentale (come ha ben raccontato Foucault ricostruendo la storia della follia).

Non a caso erano i tempi della rivoluzione sulla salute mentale che veniva attuata a Trieste, che portò alla legge Basaglia e alla sua contrastata applicazione in tutta Italia. Approccio e proposta riformatori in cui molte delle realtà del CNCA si riconoscevano e a cui si ispiravano. Il dibattito che si sviluppò nella società civile e fra i professionisti è ancora acceso e malgrado la nascita della rete dei servizi pubblici per le dipendenze, delle agenzie europee e internazionali sul tema, fa fatica a uscire da una contrapposizione tra forme profondamente diverse di risposta, tra rigida contenzione del “drogato” inteso come quasi incapace di intendere e, invece, l’attivazione delle persone coinvolte, dei loro familiari e delle varie realtà sociali e politiche su temi – la droga, l’Aids – che di questa società in evoluzione sono espressione.

Per questo è erroneo parlare in maniera generalizzata di comunità terapeutica per tossicodipendenti, in un quadro di centinaia di strutture residenziali, diurne, notturne e ambulatoriali estremamente eterogenee e talvolta antitetiche tra loro, con modalità e obiettivi di accoglienza, cura, accompagnamento anche molto diversi.

Il CNCA

Il CNCA raccoglie centinaia di strutture residenziali e semi residenziali, équipe di intervento territoriale, sportelli e servizi di bassa soglia e prossimità – ispirati da un approccio di riduzione del danno (Rdd) e riduzione dei rischi (Rdr) – e ultimamente anche servizi ambulatoriali sperimentali. Una rete di realtà fortemente connessa ai territori dove opera e che si fa interrogare dai bisogni che cambiano ed emergono, che offre anche interventi di prevenzione e presa in carico precoce, con lo sviluppo quindi di sistemi territoriali interdipendenti e diffusi. La comunità terapeutica rappresenta oggi la parte strutturale di sistemi territoriali socio-sanitari ad alta integrazione pubblico/privato, con una condivisione della funzione pubblica di risposta alla sempre più alta varietà e diffusione dei fenomeni connessi alle sostanze o a stili di vita problematici. Non solo quindi la tossicodipendenza da eroina, ma le varie forme e facce del consumo problematico e dell’abuso e le diverse forme di compromissione tra cui la dipendenza.

Questa impostazione di ascolto e risposta in continuo adeguamento ha portato il CNCA a essere una delle realtà più significative di intervento sociale anche in altri ambiti, come nel campo dei minorenni che vivono diverse forme di difficoltà, dell’immigrazione, della disabilità, della tratta e dello sfruttamento e del carcere, con forti elementi di interazione trasversale con il lavoro con le dipendenze, anche non da sostanze. Oggi il CNCA conta circa 250 organizzazioni associate distribuite in 19 regioni italiane. Questo documento è anche la presa d’atto dell’esigenza di un confronto che tenga in considerazione l’evoluzione che le nostre strutture di accoglienza hanno avuto e continuano ad avere per far fronte alla continua trasformazione del fenomeno del consumo e abuso di sostanze stupefacenti. Un’evoluzione che mantiene vivi i presupposti etici, valoriali, insiti nella mission iniziale della federazione e in connessione con i territori in cui le comunità sono nate. Un approccio sempre più indirizzato al ruolo protagonista delle persone coinvolte, emerso anche nelle prese di posizione politiche delle campagne nazionali di cui siamo stati coprotagonisti – “Educare non punire” e “Non incarcerate il nostro crescere” ad esempio – per contrastare le derive repressive e riaffermare un approccio democratico e partecipativo nell’intervento sociale.

Contesto attuale

Per provare a capire come cambiano i fenomeni e come rispondere ai nuovi bisogni nel mondo delle sostanze stupefacenti, dell’alcol e delle nuove dipendenze comportamentali è necessario superare le vecchie categorie interpretative, non vedere l’uso di sostanze solo come la risposta a un malessere individuale, senza comprendere il contesto in cui si manifesta.

Il fenomeno droghe muta rapidamente perché il mondo si evolve velocemente. Per provare a cogliere realmente quello che sta accadendo nei territori e si riverbera nelle nostre accoglienze e nei nostri servizi di cura, ci sembra decisivo condividere una lettura che considera l’evoluzione dei fenomeni a partire da due grandi macro sistemi nell’area dei bisogni, superando categorie connesse esclusivamente alla tossicodipendenza da eroina, che hanno influito sulla nascita e l’organizzazione del sistema dei servizi:

  1. da una parte, persiste ancora un importante fenomeno connesso alla dipendenza soprattutto da oppioidi e psicofarmaci o ad abusi e dipendenze gravi di cocaina e alcol – che hanno superato negli ultimi anni l’eroina nelle richieste di accoglienza nelle nostre strutture – in cui è presente un coinvolgimento significativo della popolazione che vive in condizione di marginalità urbana, con una grave condizione di emarginazione socio-sanitaria. Pur nella percezione diffusa della riduzione della presenza di una tossicodipendenza “visibile sulle strade” e di un minor “allarme securitario nelle piazze”, questa parte di popolazione è composta da un alto numero di persone – si ipotizzano almeno 200-250mila tossicodipendenti in Italia –, con storie e percorsi molto diversi. Queste persone sono spesso coinvolte da parecchi anni nel mondo della tossicodipendenza, con varie fasi nel rapporto con le sostanze, forme diverse di abuso – spesso policonsumi e un mix continuo tra psicofarmaci e sostanze psicoattive, crack o cocaina basata – e un forte rischio di cronicizzazione sociale della loro condizione di emarginazione, povertà e deprivazione. Molti di loro rappresentano ancora il 60-80% delle persone che afferiscono quotidianamente ai servizi (Sert, comunità, unità di strada, drop-in, progetti di housing sociale…). Situazioni per una gran parte fortemente compromesse e a grave rischio di emarginazione e di patologie correlate o situazioni di cronicizzazione e/o bassa possibile evoluzione nel loro rapporto con una dipendenza da una sostanza (eroina, cocaina o alcol), ma talvolta anche da vari mix di farmaci tra sostitutive, psicofarmaci e alcol, nonché domande sempre più diffuse provenienti dal mondo delle dipendenze da alcol “di strada” (stranieri, donne, marginalità senza dimora, disturbo psichico, ecc.). Condizioni in cui il consumo di sostanze è aggravato da forti rischi di esclusione sociale grave oltre la dipendenza, che risulta essere così un co-fattore problematico, per le quali sono prioritari i bisogni di base come un letto, del cibo, un momento di pausa, un abito, una doccia. Tale aggravarsi delle situazioni si avverte anche quando la persona decide di “curarsi” o di concedersi una pausa dalla vita di strada, con percorsi e sistemi di presa in carico e cura forse ancora un po’ troppo rigidi – la disintossicazione completa come premessa; la richiesta di 12, 18, 30 mesi di comunità; l’illusione di tempi certi della cura; le regole rigide della somministrazione dei farmaci; le diagnosi sanitarie piuttosto schematiche – e orientati sui servizi accreditati delle dipendenze, senza riuscire a tenere conto della complessità esistente.
  2. Parallelamente, assistiamo a un diverso mondo del consumo e abuso estremamente generalizzato di sostanze e/o di stili di vita in cui una sostanza, un consumo problematico (cocaine, metanfetamine, nps o alcol) o nuove forme di dipendenza (da gioco o da psicofarmaci) rientrano in maniera quasi inscindibile in un modo di essere, di vivere. Una diffusa intermediazione chimica o una parossistica necessità di stimoli in cui la dipendenza o l’abuso assumono forme e bisogni molto diversificati. La cocaina e l’alcol rappresentano in maniera esemplare questo mondo dalle diverse modalità di consumo e problematicità connesse, con fasi di controllo e convivenza con ritmi di vita sociale e lavorativa soddisfacenti ed eventuali periodi di consumo esasperato, che possono portare a crisi psichiche importanti. Come rispondere alle domande di malessere quando non si presenta una dipendenza esplicita e codificata, ma gravi compromissioni fisiche, relazionali, economiche? Come intervenire quando questo s’intreccia con contesti di vita (discoteche, rave, raduni, sale gioco, ecc.) in cui anche il consumo di sostanze o altre forme di alterazione diventa parte di uno stile del vivere e dell’essere? La domanda di aiuto, in questi casi, si misura con una forte resistenza della persona ad accettare una presa in carico forte che allontana per troppo tempo dalle abitudini di vita, anche perché le proprie routine, i piaceri, alcune delle relazioni di riferimento vitale sono interconnessi fortemente ad abitudini d’uso di sostanze. In questi casi le comunità possono offrire soluzioni di presa in carico ad alta intensità di intervento (farmaci, psicoterapie, alta intensità assistenziale), con una breve permanenza in comunità e molto lavoro relazionale. Nella previsione di percorsi territoriali di accompagnamento e monitoraggio più lunghi (case manager, psicoterapia, lavoro con la famiglia, stabilizzatori dell’umore, ecc.), in cui considerare il possibile riuso come segnale del percorso e di una certa vulnerabilità e non immediatamente come una ricaduta nei percorsi di dipendenza, con una necessaria ripartenza da zero della presa in carico.

Parte da queste considerazioni la necessità di ricominciare a discutere tra operatori del pubblico e del privato sociale, delle dipendenze e della psichiatria, del sociale e del sanitario sulla necessità di riscrivere parti dei nostri approcci e interventi nell’ottica di un’alta integrazione tra unità di offerta e modelli di approccio diversi e della necessità di un diverso sistema di intervento e risposta.  Sempre di più alcuni servizi, i loro responsabili e operatori cominciano a sentire la necessità di sperimentare un diverso approccio ispirato da una complementarità orizzontale tra professioni e saperi differenti, tra mandati e risorse tutte forse da ridefinire, da una presa in carico individualizzata più complessiva delle fatiche delle persone accolte, che tenga in considerazione i diversi aspetti – da quelli biografici al personale rapporto con la o le varie sostanze di uso non controllato –, il contesto di provenienza e le aspirazioni personali.

Una complessità di bisogni e possibilità profondamente diversi che si riflettono sui percorsi da proporre e costruire insieme, in cui la parte di intervento residenziale, nelle diverse articolazioni, è una componente di un lavoro più ampio e complesso. La riscrittura del sistema di intervento delle dipendenze richiede una nuova professionalità dell’operatore, una nuova composizione e organizzazione dell’équipe nonché una ridefinizione meno rigida dei nostri servizi, in un diverso rapporto tra una necessaria stabilizzazione delle offerte nei vari processi e criteri di accreditamento e la garanzia di una nuova elasticità delle risposte.

Parte 1. Dalla cura al care

Nel percorso in comunità per persone con dipendenza da sostanze ci sono alcuni momenti che presentano caratteristiche e criticità specifiche:

  • il momento iniziale della presa in carico che coinvolge – per apportare informazioni e contributi – oltre al protagonista principale, numerosi attori istituzionali e non: i servizi ambulatoriali di riferimento, i professionisti che curano gli interventi specialistici e farmacologici, eventualmente la famiglia, gli operatori sociali territoriali (quando coinvolti) o l’istituto di pena quando la persona proviene dal carcere. Il quadro su cui iniziare a costruire una prima ipotesi di progetto con approccio di recovery necessita, poi, di informazioni condivise con la persona coinvolta sulle proprie competenze, la storia e le capacità acquisite nella relazione con il proprio consumo, e tutti gli elementi che ritiene significativi per la soluzione della propria condizione di sofferenza legata al consumo. Rimane anche utile uno sforzo per superare le difficoltà esistenti quando le persone provengono da processi di invio dai servizi pubblici troppo spesso poco strutturati e piuttosto improvvisati, con informazioni sulle problematiche della persona non approfondite e condivise, che possono portare alla perdita di un quadro complessivo della situazione e di rapporti professionali e di cura preesistenti (psicoterapie, trattamenti farmacologici ecc.);
  • durante il percorso è necessario mantenere una connessione continua con la storia della persona, le sue peculiarità e i suoi sistemi relazionali di riferimento ove esistenti (lavoro, figli, residenza, rete sociale). In molti casi è importante anche mantenere il contatto costante e la relazione con le realtà istituzionale invianti (Sert, psichiatria, servizi sociali), anche con momenti strutturati periodici di confronto. Un ruolo da case manager dei referenti della comunità, che garantisce durante il periodo di accoglienza la connessione fra percorso residenziale e servizi del territorio, fra cui i servizi sociali e sanitari coinvolti;
  • il momento della maggiore autonomia è quello nel quale è decisivo il sistema territoriale delle relazioni e dei servizi (qualsiasi sia la reale capacitazione della persona), nell’ottica della metodologia del budget di salute, che dovrebbe accompagnare tutto il progetto condiviso.

In un sistema ancora fondato principalmente su un approccio sanitario e che tende a semplificare, da un punto di vista diagnostico, il consumo non controllato e la dipendenza riferendoli esclusivamente alla sostanza e alla frequenza d’uso, è compito della rete delle comunità promuovere quella ormai indispensabile integrazione, connessione e complementarità continuativa tra offerte ambulatoriali, domiciliari e residenzialità, tra pubblico e privato sociale, tra intervento sociale e sanitario e anche tra i servizi della riduzione del danno, le pratiche di supporto sociale ed empowerment sul territorio, in modo da garantire la corrispondenza fra la complessità della domanda e la risposta. Una domanda multiforme, quella che le persone con problemi di dipendenza pongono ai servizi e che pretende un cambio di approccio, la costruzione di soluzioni orientate a un concetto di care della persona, che comprenda certo ­– in quanto necessario – l’aspetto di cura dei sintomi sanitari, ma che si sviluppi ulteriormente con un obiettivo primario ispirato a un’organizzazione centrata sulla recovery, cioè orientata al raggiungimento del miglior grado individuale e specifico di qualità della vita possibile alle condizioni date dalla persona in percorso. Un percorso di autodeterminazione e inclusione sociale, più che il raggiungimento di un obiettivo predeterminato dall’esterno una volta per tutte.

Per questo le comunità, nelle loro diverse forme, non possono più pensarsi come unica risposta auto referenziata di un percorso predefinito, ma strutturarsi, organizzarsi per un lavoro di rete territoriale più che in relazione al solo percorso residenziale interno. Questo impegno si sviluppa sia prima sia dopo la fase residenziale, attraverso il coinvolgimento attivo dei diversi attori che possono giocare un ruolo per il successo del progetto del beneficiario del percorso terapeutico, in un approccio di forte integrazione socio-sanitaria.

Questi attori – in primis Sert, Comuni, ma anche associazioni, aziende, ecc. – sono coinvolti anche nell’ottica di una responsabilità sociale diffusa che parte dal coinvolgimento attivo della persona accolta e si estende alla comunità territoriale di riferimento, per comporre un percorso che comprende aspetti sanitari e sociali, di cura e di partecipazione attiva alla vita sociale, attraverso l’inserimento socio-lavorativo o la salvaguardia delle relazioni sociali e il posto di lavoro quando presente.

Per gli operatori delle comunità questo significa allargare da subito lo sguardo oltre gli aspetti terapeutici all’interno delle proprie strutture, per lavorare in stretta collaborazione con il territorio (il fuori), non relegando e schematizzando il reinserimento sociale e lavorativo in rigide fasi. Questo processo deve essere il più possibile condiviso anche con i servizi pubblici per le dipendenze, che prevalentemente si concentrano sugli aspetti terapeutici del percorso, rischiando di frammentare il tempo e la vita dell’accolto. Il sistema di intervento può ispirarsi alla metodologia del budget di salute sui quattro assi tipici: salute, casa, relazioni sociali, lavoro. Va evitata qualsiasi forma di omologazione e standardizzazione dell’intervento, in un decisivo e sappiamo faticoso approccio individualizzato e di recovery.

La comunità promuove un protagonismo progettuale rispetto al reinserimento, fino alla sperimentazione dell’autonomia abitativa e lavorativa già durante il tempo della cura, quando possibile, mantenendo la massima flessibilità possibile nella definizione e ridefinizione del progetto di care che coinvolga ogni volta i principali attori del percorso, fra cui ovviamente il protagonista.

Da qui anche la necessità di creare strutture intermedie che diano risposte diverse a bisogni differenti, che accompagnino le persone verso livelli di autonomia diversi, con metodi di co-progettazione che ispirino soluzioni nuove: residenzialità leggere, servizi domiciliari, nuove forme di reinserimento lavorativo. Per permettere tutto questo è importante lavorare su relazioni stabili con gli enti e gli stakeholder coinvolti, anche formalizzando protocolli, accordi, partenariati.

Quindi, il percorso residenziale e ancor più quelli semi-residenziali sono strutturati con una forte e individualizzata adattabilità, anche nelle tempistiche della durata, e finalizzati da subito all’acquisizione degli strumenti per il massimo dell’autonomia possibile da parte del protagonista del percorso (recovery). Occorre dare fiducia pur in momenti delicati del percorso e lavorare sempre per una reale condivisione delle varie fasi di cura, riconoscendo la capacità responsabile nel cambiamento auspicato e condiviso, e quindi non solo la capacità ma anche il potere di raggiungere un proprio livello di autonomia, nei vari ambiti di vita.

Si punta al raggiungimento di un equilibrio funzionale, al ritorno all’abitare “fuori”, anticipando per quanto possibile una vita integrata nella società: mettere radici “nuove”, non necessariamente nel contesto d’origine; costruirsi una rete relazionale di sostegno; raggiungere un’indipendenza abitativa e lavorativa. In questi casi l’autonomia abitativa può essere promossa sempre prima della fine del percorso, nell’ultima fase delle diverse progettualità che si intrecciano, attraverso il passaggio agli appartamenti di reinserimento, che sono strumento importante del percorso terapeutico-riabilitativo delle comunità. Il lavoro, quando preesistente, potrebbe continuare a svolgersi, con gli opportuni accorgimenti, anche durante il programma terapeutico, all’interno della comunità.

L’inserimento nel mondo del lavoro, per quanto possa essere difficile per alcune situazioni fortemente deprivate e a rischio di cronicizzazione, è un elemento prioritario per combattere il disagio sociale in genere e, in molti casi, per la definizione della propria identità e ruolo sociale. La comunità residenziale dovrebbe sempre promuovere opportunità formative su competenze tecniche e competenze trasversali, i tirocini formativi e il tutoraggio, il matching domanda-offerta di lavoro, l’inserimento lavorativo, i percorsi individuali e gruppali di messa in trasparenza delle competenze e di supporto nella ricerca attiva del lavoro (stesura curriculum, autocandidatura, ricerca aziende…), la mappatura del territorio (aziende profit, cooperazione sociale di tipo b…), i rapporti con il centro per l’impiego, la gestione di progetti finanziati per l’inserimento lavorativo. Non sono da escludere soluzioni lavorative esterne sperimentali, leggere, frazionate, flessibili. L’esito di un percorso residenziale porta con sé, così, un aumento delle abilità lavorative e sociali in senso ampio, finalizzate alla costruzione/ricostruzione di una autonomia di vita nel contesto territoriale e socio-economico della persona. Autonomia che non esclude la capacità di gestire possibili momenti di crisi ed emersione di problematiche che si ritenevano superate, capacità che non esclude quella di rivolgersi senza remora ai servizi e le professionalità incontrate durante il percorso in comunità.

Sono numerose le problematiche relative alla realizzazione di progetti di reinserimento socio-lavorativo per le persone accolte che provengono da regioni diverse da quella in cui risiede la comunità e per persone con situazioni penali ancora aperte, sia per la frammentazione dei servizi regionalizzati sia per il maggior impegno necessario per costruire una rete in territori a volte molto lontani dalla comunità. Questa criticità meriterebbe una maggiore attenzione e disponibilità dei servizi pubblici a collaborare con le comunità.

L’ottica è quindi quella della comunità come soggetto attivo e aperto al territorio attraverso:

  • la partecipazione a svariate opportunità di relazione della struttura e della persona (volontariato, attività ricreative, culturali, sportive, ecc.), calibrata sulle singole e diverse progettualità;
  • la collaborazione con l’associazionismo, le organizzazioni del volontariato, dei cittadini sia sul territorio sia all’interno delle comunità, in modo da creare relazione, supporto, sinergia tra ospiti, équipe, cittadinanza, anche attraverso attività laboratoriali e progettualità mirate;
  • essere parte integrante del sistema territoriale dei servizi socio-sanitari e sociali, con periodici momenti di scambio, monitoraggio, avvio di attività territoriali e collaborazioni strutturate di prevenzione, sensibilizzazione e intervento dove necessario.

Parte 2. Nuovi modelli di lavoro

È necessario riformulare i nuovi modelli e le criticità del lavoro nelle strutture residenziali e semi-residenziali uscendo da una generica definizione dell’“operatore di comunità”, per il riconoscimento di saperi e competenze diversificate che sono necessarie nel lavoro di équipe multi-professionali con competenze integrate. Stiamo rischiando per abitudine di usare termini che sono diventati troppo generici e che, quindi, faticano a comunicare significati e modelli nuovi di lavoro e approccio. Ad esempio, a volte parliamo ancora di “operatore/trice delle dipendenze” o “educatore/trice di comunità” come se fossero sinonimi, non sapendo descrivere così invece quel mix di saperi, professionalità, specializzazioni e approcci integrati che costituisce un’équipe. Così come nel termine “comunità”, come dicevamo, ci sono tante esperienze tra loro molto eterogenee, anche il termine “educatore” può essere usato in molti modi e a volte impropriamente: nelle comunità, infatti, operano diverse figure professionali, ma mancano i termini per definire un gruppo di lavoro pluri-professionale (che però agisce di concerto).

Assistiamo a una crisi profonda del sistema di offerta, essendo cambiate molte delle caratteristiche e dei bisogni dei destinatari (età, modalità e sostanze d’abuso, pluri-problematicità, risorse personali…), mentre il sistema di accreditamento è rimasto rigido e spesso sfasato, se non addirittura arretrato in alcune regioni, rispetto ai bisogni e alle tempistiche congrue dei destinatari, alle caratteristiche del contesto e alle potenzialità delle comunità. Gli operatori si trovano spesso a lavorare schiacciati fra le rigidità e i pesanti limiti normativi e le esigenze complesse dell’intervento. Subiscono un sovraccarico nei tempi e nelle responsabilità, a fronte di una remunerazione e un riconoscimento totalmente inadeguati. Il ricambio naturale di personale è limitato dalle condizioni di lavoro e nel settore si sconta una difficoltà a trovare personale, con alcune discrepanze conseguenti nel garantire équipe equilibrate nelle competenze necessarie e in una composizione di genere adeguata.

Nel corso degli anni si sono specializzati, in alcuni territori ove è stato possibile, i ruoli e i servizi, rendendo maggiormente evidenti le specificità dei mandati, dei modelli di intervento e delle professionalità. Questo ha però contribuito a una logica organizzativa “a canne d’organo”, con sistemi, modelli e professionisti piuttosto autocentrati e poco integrati o complementari tra loro per fasi, tempistiche e offerte a diversa intensità terapeutica, tra strutture ad alta specializzazione e realtà più “classiche” di tipo ergoterapico a lunga permanenza o addirittura comunità di vita per tossicodipendenti. È forte l’esigenza di ragionare maggiormente in logiche “ad orchestra”, dove diversi strumenti si accordano per suonare la medesima partitura – ciascuno tenendo ben presente la propria peculiarità e i propri obiettivi – magari integrando luoghi e offerte in fasi diverse dello stesso percorso di cura, tra momenti ad alta intensità di cura clinica, quando necessario, e periodi di accompagnamento a bassa intensità clinica di presa in carico e concentrati sull’inserimento sociale. Non si tratta di un generico superamento delle barriere, ma di un più complesso lavoro sui mandati e sulle posture: esplicitare le specificità e contaminarle. Le diverse professionalità che lavorano nel campo delle dipendenze dovrebbero avere spazi di confronto che permettano di aprire orizzonti e collaborazioni oltre i confini del proprio servizio, come per esempio momenti di scambio tra operatori che operano all’interno delle comunità e operatori territoriali dei servizi ambulatoriali, diurni e della riduzione del danno.

Lo strumento più efficace di valorizzazione delle professionalità è in primis l’équipe, che è luogo plurale per definizione, dove si sviluppa un paziente lavoro di cura e condivisione degli sguardi, di tempo e di intenzionalità. Questo lavoro di cura del terreno comune e della multi-funzionalità delle competenze dovrebbe essere allargato a un lavoro stabile anche tra servizi, dando spazio a un approccio multi-professionale – ad alta integrazione e complementarità tra servizi socio-sanitari nelle fasi di “cura”, e con un riferimento alla metodologia del budget di salute, soprattutto nelle fasi di riorganizzazione territoriale delle risposte e della ricomposizione del care – che permetta di valorizzare dinamiche paritarie nell’espressione dei punti di vista professionali e attivi risorse diversificate e specifiche per la singola persona e congrue rispetto ai territori di riferimento, valorizzando la profonda differenza tra aree urbane e territori più piccoli e con dinamiche relazionali differenti.

Alle professionalità legate al trattamento medico-psicologico e a impostazione quasi esclusivamente sanitaria nella risposta al bisogno di cura della dipendenza e delle sue complicanze – che sta diventando l’impostazione maggioritaria ed esclusiva di alcune Regioni e del ministero della Salute, condizionando gli indirizzi di accreditamento anche delle nostre strutture – sono da aggiungersi maggiori competenze per il lavoro di presa in carico più complessiva della persona di impostazione socio-relazionale, volte all’aumento delle competenze sociali necessarie per la costruzione di veri percorsi di reinserimento o stabilizzazione delle varie situazioni, nel rispetto di quell’approccio di recovery che sappia confrontarsi con obiettivi congrui alle reali capacità, talvolta residue, della persona che accompagniamo.

La formazione degli operatori va preliminarmente preceduta dalla rielaborazione di una visione nuova condivisa, perché la declinazione attuale è vecchia e risale alla legge 309 del 1990, che è portatrice di una ambivalenza profonda tra punizione e cura. Si dovrebbe ripartire – prima di tutto come CNCA – da una rielaborazione dei principi attuativi, che preveda un’evoluzione del nostro lavoro con una nuova visione per strutture residenziali, diurne e ambulatoriali, a cui fare riferimento a livello nazionale, da declinare andando oltre le rigidità del sistema attuale di accreditamento regionale delle comunità.

Il lavoro nelle comunità è cambiato: da un’impostazione quasi esclusivamente educativa, si sta modificando sempre più nella direzione delle attività di un moderno case manager, capace di relazionarsi con una realtà complessa e bisogni e mandati diversi. Una professionalità capace di integrare professionalità e saperi della cura e, nello stesso tempo, creare relazioni complementari con più realtà del sociale, del sanitario, del territorio, di cittadinanza attiva, anche di fronte a una molteplicità di condizioni delle persone che arrivano in comunità: migranti, detenuti, persone con doppia diagnosi, psicologicamente provate da esperienze di vita complesse, oltre al fatto che numerose sono le pratiche di abuso e le tipologie di sostanze consumate, che pretendono approcci diversificati. Tutto questo richiede la capacità di costruire percorsi personalizzati e cuciti su misura, con la necessaria flessibilità, e che non lascino il singolo operatore solo nella necessità di costruire risposte articolate a domande complesse.

Parte 3. Accreditamento: un sistema a macchia di leopardo

Il sistema dell’accreditamento stabilisce per i soggetti pubblici e gli enti del privato sociale attivi nel mondo delle tossicodipendenze i requisiti per l’idoneità a erogare prestazioni sociali e socio-sanitarie soprattutto di cura, in raccordo con il sistema di indirizzo degli enti pubblici competenti. Il sistema dell’accreditamento attuale fa riferimento a più provvedimenti legislativi: la legge 309/90, l’atto di intesa Stato-Regioni del 1999 – ridefinito a grandi linee dall’aggiornamento dei Livelli essenziali di assistenza nel 2017 e in aggiornamento su proposta del ministero della Salute e del Dipartimento politiche antidroga –, gli indirizzi applicativi regionali, oltre che il D. Lgs. 117/2017 che riconsegna il terzo settore alla sua funzione pubblica attraverso lo svolgimento di attività di interesse generale.

Questo complesso insieme di norme, molto studiato in Europa e non solo, riesce a garantire mediamente un livello di prestazioni adeguato e il riconoscimento della rete delle comunità private accreditate come parte del sistema universale di cura. Nel rispetto della ripartizione delle competenze prevista dal titolo V della Costituzione sono però le singole Regioni a definire i sistemi di accreditamento specifici per i propri territori e questo determina criteri e indirizzi differenti che si riflettono anche sulla qualità dei servizi erogati, fino a mettere in discussione gli stessi diritti di cura della persona tossicodipendente. Ogni Regione ha, infatti, prodotto delle normative differenti e molte sono in forte ritardo anche rispetto alle autorizzazioni e agli stessi processi di accreditamento, che non sono ancora stati perfezionati. Questo, oltre che generare incapacità di rispondere alle esigenze e bisogni della popolazione, è causa per le organizzazioni del privato sociale di un enorme dispendio di risorse ed energie, in un contesto di continua precarietà e continua difficoltà di sostenibilità economica.

Fra l’altro negli indirizzi regionali vi è una generalizzata maggiore attenzione agli aspetti burocratici amministrativi e a rigidi standard di figure professionali e strutturali, trascurando quegli aspetti specifici che sono riconosciuti anche nella letteratura scientifica degli ultimi anni e che sono rilevanti ancor più degli interventi terapeutico-sanitari ovvero “il clima emotivo della comunità: un clima resiliente, di accettazione e di consapevolezza, di relazioni autentiche, di totale fiducia,  in cui  la comunità rappresenta il ‘luogo sicuro’ contrapposto alla drammaticità del mondo, ed in cui i residenti potessero usare il contesto della comunità per imparare qualcosa su sé stessi” (De Leon, 2000). Il rinnovato atto di intesa Stato-Regioni sopra citato pare non solo non salvaguardare questi aspetti ma, oltre all’evidente rischio di una eccessiva medicalizzazione, rischia di banalizzare gli aspetti dell’intervento comunitario come una sorta di bonaria assistenza sociale[1].

In alcune regioni, nei requisiti funzionali e nel nuovo atto di intesa approvato è previsto che sia un direttore sanitario – quindi una figura medica – ad avere ruoli funzionali di responsabilità nelle comunità, mentre è opportuno che i ruoli sanitari, nell’ambito delle strutture residenziali e diurne, abbiano più una funzione specialistica e di consulenza stabile. Nelle strutture residenziali per le dipendenze riteniamo che i ruoli di direzione debbano essere coperti prioritariamente da figure di formazione psicologica, sociale ed educative, anche a tutela di una impostazione di tipo socio-psico-medico e non medico-psico-sociale.

Ci sono differenze profonde fra le regioni, così mentre in Regione Lombardia si sono accreditate fino a 13 tipologie di servizi per le dipendenze, compresi gli SMI (Servizi multidisciplinari integrati – Sert accreditati del privato sociale), in altre regioni del sud i sistemi regionali prevedono, ancora, solo le tipologie di comunità pedagogico-riabilitativa e terapeutico-riabilitativa. È urgente e necessario equiparare i servizi nelle varie regioni, per evitare che i cittadini che ne hanno bisogno debbano spostarsi dalla propria regione di residenza per poter accedere ai servizi specifici in cui potrebbero trovare risposte adeguate, negando un diritto alla cura che fa parte dei principi costituzionali.   Inoltre, si riscontrano tariffe molto diverse tra le regioni a parità di prestazione erogata o tipologia di accreditamento, riconoscimenti che dovrebbero essere equiparati a parità di prestazioni e di requisiti funzionali e strutturali richiesti.

La situazione italiana dell’offerta di servizi nelle comunità terapeutiche accreditate per dipendenze è viziata da una contraddizione strutturale per cui è la persona che deve adattare i suoi bisogni al sistema dei servizi offerti nel territorio dove vive, piuttosto che i servizi alle differenziate domande e bisogni di cui si dovrebbero far carico.

Rimangono a tutt’oggi non considerati interventi per persone con esigenze specifiche come: giovani con varie comorbilità e difficoltà comportamentali e persone over 50 portatrici di comorbilità legate anche all’età oltre che all’uso di sostanze, che non sono in grado di gestire in autonomia alcuni aspetti della vita quotidiana, fra cui ad esempio le terapie, e che avrebbero bisogno di soluzioni residenziali di medio e lungo periodo, che non trovano risposta nelle comunità e nei servizi residenziali a bassa intensità assistenziale.

Contemporaneamente, permangono a tutt’oggi scoperte risposte strutturate e accreditate – tranne rare eccezioni territoriali, a forte rischio di chiusura – verso alcune “nuove” tipologie specifiche di bisogni:

  • gli interventi strutturati per giovani abusatori e policonsumatori (minorenni e giovani adulti) con varie comorbilità, connesse molto spesso a difficoltà comportamentali gravi, per i quali andrebbero messe in campo competenze trasversali e integrate tra pedagogia e socialità, tra tossicologia e neuropsichiatria, tra farmacologia e responsabilità, in una modulazione tipica fra tempo di residenza e cura e i percorsi territoriali, e la collaborazione stretta fra tutti gli attori coinvolti;
  • i sistemi di presa in carico territoriale per persone over 50 portatrici di comorbilità legate anche all’avanzare dell’età oltre che a un uso pluridecennale di sostanze, a forte rischio emarginazione, che non sono “più” in grado di gestire in autonomia alcuni aspetti della vita quotidiana, fra cui ad esempio con regolarità le terapie sostitutive o le terapie per patologie connesse. In questo caso le soluzioni residenziali dovrebbero prevedere tempi di presa in carico di medio e lungo periodo (residenzialità accompagnate o ridefinizione di comunità di vita, soluzioni residenziali condivise), che non trovano risposta nelle attuali strutture accreditate per i tempi standardizzati di cura (fino a 18/30 mesi) in “comunità” e nei servizi residenziali a bassa intensità assistenziale;
  • la capacità di presa in carico precoce e definizione diagnostica condivisa con i servizi sanitari pubblici delle persone con forme importanti di disagio psichico o con una vera e propria diagnosi di tipo psichiatrico connessa ai problemi legati all’abuso e dipendenza da sostanze psicotrope. Percorsi che necessitano di una iniziale presa in carico ad alta intensità assistenziale condivisa con supporto di professionalità del sistema sanitario territoriale. Alcuni dati rilevano che tra il 40 ed il 50% delle persone presenti oggi nelle comunità hanno sintomi di disturbo di questo genere;
  • servizi residenziali integrati con servizi ambulatoriali e diurni e con terapie e trattamenti ambulatoriali, specificamente dedicati alle persone con disturbo da gioco d’azzardo, quando questo è necessario. Anche in questo caso mancano nuove e specifiche tipologie di accreditamento che, a partire dalle varie sperimentazioni (avvenute in molte regioni con finanziamenti nazionali triennali erogati ad hoc), possano arrivare a una prima definizione di standard da implementare.

Inoltre sono da considerare sempre più strutturali e, dove assenti, da promuovere soluzioni di:

  • strutture a bassa soglia e di prima accoglienza con un possibile accesso diretto, connesse a possibili percorsi di disintossicazione e in forte connessione con i servizi di prossimità dei territori;
  • percorsi brevi ad alta intensità assistenziale connessi a percorsi territoriali sempre più mirati e adeguati ai bisogni diversificati;
  • una personalizzazione e individualizzazione dei percorsi tra ospedaliero dove necessario, ambulatoriale, residenziale e territoriale, con risposte cliniche e terapeutiche altamente integrate;
  • interventi di recovery, con una presa in carico (care) per persone a forte rischio cronicizzazione, ispirate dal budget di salute ad alta integrazione sociosanitaria;
  • interventi strutturati per reinserimenti sociali e lavorativi;
  • residenzialità leggera e di sollievo come servizi stabili del sistema dei servizi.

È essenziale, anche per garantire un vero e costante monitoraggio e sviluppo innovativo del sistema, finanziare adeguatamente e con regolarità annuale – come previsto dalla legge – il Fondo nazionale lotta alla droga, per accompagnare il ripristino e il rinnovamento in tutte le regioni del diritto alla cura come stabilito globalmente dai Lea. Fondo da utilizzare per uniformare il sistema dei servizi nei territori dove esso non è ancora adeguato alle nuove sfide e ai cambiamenti che da sempre il mondo delle dipendenze comporta. Insieme a un adeguamento del sistema, serve ripristinare il finanziamento di progetti sperimentali per individuare nuove strategie e nuove modalità di intervento nel settore della ricerca, prevenzione, cura e riabilitazione e dell’inserimento socio-lavorativo e abitativo delle persone con problemi di dipendenza.

Parte 4. Comunità e carcere

Il rapporto fra consumo e abuso di sostanze stupefacenti e il mondo della giustizia è giocoforza molto stretto, stante un impianto normativo proibizionista. Nella versione originale della legge 309/90, basata su una impostazione fortemente punitiva che prevedeva anche pene per i consumatori di sostanze proibite, l’unica opzione per accedere a un percorso di presa in carico e cura per le persone con dipendenza patologica era accedere ai percorsi alternativi alla detenzione in comunità terapeutiche. Questo portava a una visione della comunità e a un accesso alla cura come un intervento obbligato e forzato da una impostazione legislativa che non dava alternative, e che quindi riduceva la comunità a surrogato del carcere, con compiti coercitivi e di controllo, cancellando o mettendo fortemente in crisi la valenza fiduciaria, responsabilizzante del patto relazionale e terapeutico caratteristico dell’approccio delle comunità della rete CNCA.

Il rapporto contradditorio e ambivalente delle comunità con il carcere e la tossicodipendenza è rimasto nell’impostazioni delle modifiche legislative successive, con la legge Fini-Giovanardi e le altre norme e decreti emanati in seguito, nonostante le correzioni e le revisioni obbligate dal referendum del 1993 e dalla incostituzionalità della citata legge Fini-Giovanardi. Ma, soprattutto, caratterizza ancora oggi molte delle formule di invio non negoziabili emesse dai tribunali e magistrati di sorveglianza, che scandiscono rigidi regole (uscite, permessi, contatto con l’esterno, limitazioni della libertà), tempi definiti dell’accoglienza (tempistiche definite della pena e del reato) e dure sanzioni in caso di trasgressione e mettono così in forte discussione la possibile evoluzione del percorso e del patto terapeutico stesso.

Questo approccio ha da sempre messo in discussione il patto fiduciario e collaborativo alla base dell’avvio dei percorsi nelle comunità del CNCA, creando difficoltà gestionali e relazionali che hanno limitato per anni il numero delle persone accolte e i tempi dell’accesso, fino anche alla definizione di scelte organizzative come accogliere non più di un terzo di ospiti sottoposti a misure penali, per limitare il più possibile la riproposizione anche all’interno della comunità di dinamiche carcerarie. Chiedere alle comunità di svolgere ruoli che non gli competono, trasformare spazi di cura in “piccoli gulag” nei quali le stesse dinamiche criminogene degli istituti di pena rischiano di ripetersi coinvolgendo l’intero ecosistema, ha per anni fortemente limitato l’uso delle misure di cura alternative alla detenzione in comunità, che non ha mai superato il 35-40% delle persone che ne avrebbero avuto diritto (con una media annua di invio in comunità di 3.500-4.000 persone su circa 10mila tossicodipendenti certificati incarcerati).

A dicembre 2023 il numero di detenuti/e ha superato di nuovo le 60mila unità, gonfiando il sovraffollamento che era stato in parte attutito negli anni scorsi dalle misure deflazionistiche prese durante il Covid anche in seguito a episodi drammatici come le morti nella casa circondariale di Modena e il massacro dei detenuti a Santa Maria Capua Vetere, in cui – soprattutto per il primo avvenimento – il tema della dipendenza e della gestione dei farmaci sostitutivi all’interno del carcere è emblematica, ma mai rimessa in discussione fino in fondo.

Una politica ulteriormente repressiva dell’attuale gestione della giustizia sta facendo la sua parte nel peggioramento della situazione: ritardi nell’invio in comunità, ridimensionamento in alcuni territori della concessione delle misure alternative anche per situazioni sanitarie acclarate, sospensione dell’invio delle persone in attesa di giudizio, proposta di costruzione di nuove strutture ad alto contenimento per tossicodipendenti con operatori sociali invece delle guardie carcerarie ecc. Un quadro generale di sempre peggiori condizioni di vita all’interno degli istituti di pena, rispetto al quale diventano sempre più importanti sia l’intervento del sociale all’interno degli istituti sia la costruzione di maggiori opportunità per le misure alternative alla detenzione.

In relazione ai servizi da erogare dentro gli istituti è opportuno aumentare gli sportelli di consulenza giuridica e relazionale per incrementare l’esigibilità dei diritti sociali essenziali. Gli sportelli sono spesso l’unica possibilità per avere una residenza o anche solo un documento di identità e poi poter accedere a possibili misure alternative. Va promosso l’aumento delle sperimentazioni di spazi ad hoc a finalità educativa, psicologica e relazionale, come i centri diurni o spazi specifici per persone in difficoltà quali tossicodipendenti e persone con disagio psichico, la presenza in tutte le carceri di figure educative, psicologiche e dell’operatore di rete come sperimentato in Lombardia e Piemonte.   Inoltre, sono da incrementare i corsi di formazione professionale e di base, e vanno investite risorse per la creazione di reali opportunità lavorative, in maniera diffusa e trasversale agli istituti, non solo nelle poche carceri “fiori all’occhiello”. Sono estremamente utili anche le iniziative stabili di tipo culturale che fanno comunità e gruppo nonché spesso occasione di riflessione sul reato e sulla pena, e ci appare molto interessante la sperimentazione della proposta dei consigli di detenuti come forma di rappresentanza e responsabilizzazione. Oltre che la valutazione del coinvolgimento di figure esterne alla comunità per dare la possibilità alle persone ospitate di intraprendere riflessioni volontarie sulla pena e/o ispirate al tema della giustizia riparativa oppure al tema genitoriale.

Un altro aspetto fondamentale da affrontare, e di cui non possiamo non prenderci carico, è il tema strutturale della salute in carcere, oltre alla cura dei momenti di uscita e dimissioni che – come sappiamo – è uno dei più a rischio soprattutto per le persone tossicodipendenti (overdose, reato per l’assenza di risorsa economica o riferimenti, dismissione violenta dal trattamento farmacologico ecc.). Il carcere non è solo criminogeno, è anche e soprattutto patogeno o addirittura fortemente inadempiente verso le varie forme di malessere anche fisico, psicologico e, in particolare, per la salute mentale o il disagio psichico grave, come dimostrano i numerosi casi di suicidio e autolesionismo. Gli istituti di pena sono diventati una discarica sociale anche per il contenimento coatto degli stati di sofferenza mentale, che necessitano invece di una vicinanza ancora più forte da parte del sociale. Anche con gruppi dedicati a questi/e detenuti/e all’interno degli istituti, per quanto l’obiettivo strategico dovrebbe essere l’incompatibilità della detenzione per queste persone.

Vi è poi l’accoglienza fuori dal carcere: in housing, in comunità, nei centri diurni, oltre ai servizi di supporto presso il domicilio.

Per l’offerta di servizi di housing, spesso manca una sostenibilità economica di lungo periodo, anche se ci sono esperienze di lungo periodo nella rete CNCA.

Per quanto riguarda le comunità e i centri diurni, si sommano diverse esigenze rispetto alle quali è da richiamare l’impegno delle istituzioni, ci sono le difficoltà ad acquisire informazioni utili sulle condizioni sanitarie e le terapie farmacologiche applicate all’interno degli istituti di pena, il rapporto complesso con gli Uepe territoriali (Ufficio per l’esecuzione penale esterna preposto a garantire e monitorare il “trattamento socio-educativo” delle persone sottoposte alle misure alternative) e, soprattutto, con la magistratura di sorveglianza, che dà spesso una lettura custodialistica dell’affidamento terapeutico, che invece dovrebbe avere una dimensione prevalente, o almeno equivalente, della cura rispetto a quella del controllo penale.

Sul piano più generale, molti detenuti arrivano a fine pena senza aver potuto usufruire di una misura alternativa, perché non hanno casa, lavoro e, spesso, anche legami familiari. Escono dagli Istituti a fine pena quindi senza alcuna prospettiva che non sia quella di tornare senza niente nei luoghi di origine, e spesso commettere nuovi reati a volte per mera sopravvivenza, alimentando il pendolarismo carcerario. Sarebbe opportuno invece attivare luoghi in cui i/le detenuti/e possano ri-trovarsi nell’ultimo anno o negli ultimi diciotto mesi di pena nei territori di origine, accompagnati nella ricerca di casa e di lavoro, per poter guadagnare un’autonomia esistenziale (come anche indicato in una recente alla proposta di legge[2] promosso anche da organizzazioni del terzo settore).

[1] Vedi anche la presa di posizione delle maggiori reti di comunità italiane: https://www.cnca.it/comunita-terapeutiche-cnca-fict-e-intercear-bocciano-il-documento-del-ministero-della-salute/

[2] Atto Camera: 1064 – MAGI ed altri: “Istituzione delle case territoriali di reinserimento sociale nonché modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di esecuzione della pena presso le medesime”