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I tossicodipendenti in carcere non devono stare. Partiamo da questo assunto, per ragionare sulle condizioni della detenzione oggi, in Italia. I dati ufficiali del DAP, a maggio 2024, sono di un sovraffollamento medio intorno al 129%. È un tasso di sovraffollamento fra i più alti in Europa, che supera il 130% in 130 istituti, e che tiene conto dei posti regolamentari, che sono più di quelli effettivamente disponibili, per l’inagibilità e l’indisponibilità di molti spazi. Sono dati ormai vicini a quelli che portarono la Corte Europea per i Diritti dell’uomo, con la sentenza Torreggiani del 2013, a condannare l’Italia per violazione dei diritti umani.

I provvedimenti che questo Governo ha preso, fin dal suo insediamento, non possono far altro che peggiorare la situazione. Politiche criminogene, improntate al più crudo populismo penale, che hanno portato alla creazione di nuovi reati, all’inasprimento di pene già previste dal codice. Le uniche risposte, a problemi che sono soprattutto di carattere sociale, si trovano nel penale, mai nella prevenzione, nelle politiche sociali, educative, di inclusione. Del resto, questo è il governo che ha colpevolizzato, fino a criminalizzarla, la povertà. Che vuole inasprire le pene per l’uso di sostanze, che vuole mettere fuori legge il cannabidiolo- CBD, e punire con la reclusione fino a 2 anni chi utilizzi immagini che raffigurano la cannabis.
L’offerta trattamentale, che dovrebbe permettere alle persone ristrette un percorso in linea con il dettato costituzionale, è del tutto limitata. Il lavoro, fondamentale strumento rieducativo, il principale strumento utile al reinserimento delle persone, dovrebbe essere garantito, retribuito, tutelato. Invece, e sono sempre dati del DAP, su 58mila detenuti presenti al 30 giugno 2023, ne lavorano solo 19mila, un terzo, e, di questi, solo 1 su 7 lavora per imprese private o cooperative esterne; 16mila lavorano per l’amministrazione penitenziaria, per poche ore al giorno, per pochi giorni al mese, quasi esclusivamente per attività di tipo domestico, a scarso contenuto professionalizzante, spesso in assenza delle normali tutele contrattuali, a partire dalla retribuzione contrattualmente prevista.

La salute, diritto fondamentale di ogni persona, ancora non è un diritto pienamente esigibile per le persone ristrette. Il carcere è ambiente patogeno di per sé, per il sovraffollamento, per le precarie condizioni igieniche, per le condizioni di vita cui sono costrette le persone, per la spersonalizzazione che comporta. A questo si aggiunge che un terzo delle persone ha problemi di dipendenza, legati all’abuso di sostanze, e problemi legati all’abuso di farmaci.

Le ragioni per cui i suicidi in carcere sono così frequenti, con numeri così impressionanti, sono sicuramente legate alle condizioni in cui vivono le persone ristrette, al sovraffollamento, all’assenza di opportunità, ma anche alla presenza di gruppi vulnerabili, di persone con problemi di salute mentale e di dipendenza, che in carcere non dovrebbero stare.

Il sistema dell’esecuzione penale esterna ha dedicato, a partire dall’entrata in vigore dell’ordinamento penitenziario (L. 354/1975), attenzione alla cura e al trattamento delle persone affette da dipendenza da sostanze, stabilendo la preminenza dei bisogni trattamentali rispetto alle istanze afflittive. La norma, con la sospensione dell’esecuzione della pena, consente di dare immediato avvio, o di proseguire, il programma terapeutico, mediante una procedura semplificata e sulla base di una decisione emessa dal Tribunale di Sorveglianza.

Al ricorso a misure alternative e pene sostitutive non è però corrisposta una riduzione del numero delle presenze in carcere: le forme di esecuzione penale esterna non hanno portato alla diminuzione dell’area detentiva in carcere ma si sono affiancate ad essa. In più, spesso, l’istanza sanzionatoria che legge eventuali episodi di consumo come infrazioni, di fatto mette in secondo piano l’obiettivo del recupero effettivo della persona dalla dipendenza.

Abbiamo espresso netta contrarietà all’utilizzo, per i detenuti tossicodipendenti, delle comunità terapeutiche, “comunità chiuse sul modello di San Patrignano”, intese come una sorta di carcere “privato”. Le comunità non possono e non devono essere luoghi chiusi in cui, di fatto, la persona viene reclusa in un percorso che porta necessariamente alla completa astinenza, dove ogni possibile “ricaduta” significa solo il tornare indietro nel percorso, il rientro in carcere.

Non si risponde così ai bisogni delle persone ristrette, a maggior ragione se con problemi di dipendenza. Sono necessarie altre soluzioni, alcune delle quali immediatamente percorribili, che avrebbero sicuramente effetti immediati e visibili. Già oggi sono in campo alcune proposte, dalla liberazione anticipata speciale, a forme di indulto: sono misure che possono avere una certa efficacia, ma è necessario intervenire urgentemente con una riforma complessiva, che dovrebbe prevedere, ad esempio, l’estensione dei benefici già previsti, con l’elevazione della detrazione della pena a 60 giorni per semestre ai fini della liberazione anticipata, ed un minor ricorso alla custodia cautelare. È stata proposta la sperimentazione delle case di reinserimento sociale per le pene inferiori a 12 mesi, strutture di piccole dimensioni affidate alla direzione dei sindaci ed alla progettazione dei servizi sociali.

Necessaria la modifica, da tempo richiesta, del Testo Unico sugli stupefacenti, in particolare degli art. 73 e 75, e la depenalizzazione di alcuni reati minori: da tempo la CGIL si è pronunciata per la legalizzazione della cannabis e la completa depenalizzazione dell’uso personale di sostanze.

Ed un ricorso serio, importante, a misure davvero alternative, aggiornando e attualizzando l’ordinamento: occorrerebbe procedere ad un loro ampliamento, ed introdurre in maniera significativa pene diverse dal carcere. Oggi, spesso, i percorsi di alternatività tendono a premiare i meno deboli, e quindi, come sottolineava Massimo Pavarini, a creare un meccanismo ulteriore di disuguaglianza nei confronti dei soggetti.

Per far questo, però, c’è bisogno di una seria volontà politica, di un percorso condiviso di tutte le forze che non hanno rinunciato a pensare che un altro mondo è possibile.

In questo contesto si colloca anche il disegno di legge, predisposto dal Cnel, per l’inclusione socio-lavorativa e l’abbattimento della recidiva delle persone sottoposte a provvedimenti limitativi o privativi della libertà, licenziato dalla Assemblea Cnel del 29 maggio. Il disegno di legge non entra nel merito delle misure riguardanti nello specifico le persone che fanno uso di sostanze, ma reca alcune previsioni che meritano attenzione, scaturite da un gruppo di lavoro, cui hanno preso parte le Organizzazioni Sindacali, rappresentanti dei Garanti Territoriali, dell’associazionismo e del Terzo Settore, del mondo accademico. Di rilievo le modifiche proposte all’art. 20 OP, laddove si prevede l’integrale applicazione del contratto collettivo nazionale di riferimento stipulato dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, superando anche la remunerazione attualmente prevista “in misura pari a due terzi” ed equiparando il trattamento economico a quello previsto dal contratto applicato.

Abbiamo sempre sostenuto che il lavoro delle persone ristrette, per essere davvero strumento di inclusione, per non avere nessun carattere afflittivo, deve avere le stesse identiche caratteristiche del lavoro libero, in termini normativi ed economici. Solo così, come sostiene G. Caputo, è possibile passare dalla condizione di detenuto-lavoratore a quella di lavoratore-detenuto, titolare per questo di diritti, e togliere al lavoro carcerario quella “specialità” che lo rende, di fatto, ancora in certa misura “afflittivo”, estraneo alla disciplina giuslavoristica, In questo modo, sarà più facile evitare anche i numerosi contenziosi che ci hanno visto ricorrere per il riconoscimento delle dovute tutele ai lavoratori ristretti.
Oggi il carcere “tra erosione dell’individualità ed estraniamento, è sempre più un non-luogo, una periferia dimenticata, l’inutile immobilizzatore di corpi, soprattutto provenienti dalle frange disagiate della società: tossicodipendenti, extracomunitari…” (A. P. Lacatena)

Il segretario Cgil Agostini, già 30 anni fa, diceva: Strategica è la funzione del sindacato, della CGIL, in un quadro in cui una risposta democratica alla crisi sociale concepisca il carcere come un luogo non di espiazione ma di risocializzazione e la politica di sicurezza urbana come la nuova dimensione in cui inserire l’azione del sindacato confederale.
Nostro obiettivo è riportare l’attenzione sul carcere, contribuire a costruire e generalizzare una cultura democratica su carcere e sicurezza, con un’iniziativa permanente del movimento sindacale e delle organizzazioni della società
(cfr. iniziativa Cgil del 3 aprile 2024 “Articolo 27 – I diritti in carcere, https://www.cgil.it)