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Poco più di un anno fa, il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, lanciava la sua proposta per far fronte al sovraffollamento delle carceri e ai costi delle carcerazioni delle persone che usano droghe detenute per reati droga-correlati: una condanna non al carcere ma a una comunità terapeutica ‘chiusa’. Le caratteristiche di questa misura sono state sommariamente abbozzate da Delmastro così (1): a) una forma di espiazione penale prevista e comminata già in sede di sentenza (“Il giudice già in sentenza può sostituire i giorni di carcere indicati con un numero uguale presso una comunità protetta.”) b) la disintossicazione è l’obiettivo della pena (“per un tossicodipendente che ha commesso reati legati all’approvvigionamento economico per procurarsi la droga, il fine rieducativo della pena non sta nel fatto che conosca a memoria la Costituzione o abbia partecipato ad un ottimo corso di ceramica. La priorità per loro è la disintossicazione”) c) una pena alternativa che manterrebbe la caratteristiche di una detenzione per quanto attiene alle libertà personali (“sto lavorando ad un provvedimento che immagina di coinvolgere il terzo settore, quelle comunità chiuse in stile Muccioli, per costruire un percorso alternativo alla detenzione”) d) una equiparazione del (ripreso o persistente) consumo di droghe a una recidiva che condanna senza appello alla carcerazione (“Sarebbe una possibilità secca, non reiterata. Se commetti un reato e torni in carcere da tossicodipendente dopo aver scontato la pena in una struttura di questo tipo, devi affrontare l’iter normale”) e) Il raggiungimento dell’obiettivo dichiarato della pena (astensione dall’uso) non implicherebbe la fine della pena stessa (Se poi impieghi 8 mesi a disintossicarti [invece di due anni], per il tempo restante la comunità ti aiuterà a formarti e a trovare lavoro”).

Molte sono le osservazioni radicalmente critiche che si possono portare a questo impianto. Lo hanno fatto, da subito e sotto diversi profili, quelle associazioni e quelle comunità che lavorano nel solco del rispetto sia delle evidenze, che dei diritti, che del diritto (2).

A queste osservazioni se ne possono aggiungere altre, basate sulle risoluzioni e sulle raccomandazioni degli organismi ONU che si occupano di diritti umani nel campo delle politiche delle droghe.

Alla luce di queste posizioni, la proposta Delmastro si esporrebbe a una quantità imbarazzante di violazioni.

Una premessa: negli ultimi dieci anni le agenzie ONU che si occupano di diritti umani fondamentali (dalla salute alla libertà, dalle culture tradizionali ai diritti economico sociali), e infine, buone ultime e ‘trainate’ da questo processo riformatore, anche le agenzie che si occupano di droghe, come lo UNODC-United Nations Office on Drugs and Crime, hanno con inequivocabile chiarezza affermato che la gran parte delle violazioni dei diritti umani ai danni delle persone che usano droghe hanno radici nella loro criminalizzazione, soprattutto in quella che attiene l’uso personale e le condotte ad esso correlate (possesso, coltivazione) (3). La stessa Strategia Europea sulle droghe ha adottato formalmente le Linee guida internazionali sui diritti umani nelle politiche sulle droghe, espressione più avanzata dell’ONU in materia, in cui pure la criminalizzazione è individuata come fattore di maggior rischio di violazione (4). Fuori dall’uso personale, per i diversi reati droga correlati, è unanime anche la raccomandazione a fare della carcerazione una estrema ratio, in modo particolare per i reati minori e non violenti. Inutile dire che di decreto in decreto – dal reato di rave al decreto Caivano – il governo italiano va in direzione pervicacemente contraria, creando un contesto in cui le radici delle violazioni dei diritti attecchiscono rigogliosamente.

Nella prospettiva ONU, le forme alternative alla detenzione sono poste al centro di raccomandazioni e risoluzioni a tutela dei diritti, con una attenzione specifica a tutti i diritti fondamentali, e con riferimento alle regole del protocollo di Tokyo sulle sanzioni alternative al carcere (5). Per quanto riguarda le politiche delle droghe, specifica attenzione è stata riservata alle forme alternative alla carcerazione basata sui trattamenti terapeutici (6).

Oltre a UNODC e OMS-Organizzazione Mondiale della Sanità, di questo si è molto occupato anche lo Working Group on Arbitrary detention, WGAD, con ripetuti interventi, fino al documento del 2021, stilato per lo HRC-Human Rights Council, “Arbitrary detention relating to drug policies” . Documento inquietante per l’enorme mole di dati e informazioni sulle violazioni dei diritti dovute alle politiche delle droghe nel mondo: dalla detenzione arbitraria dovuta a leggi liberticide alla pena di morte, dalla tortura e al trattamento disumano e degradante alle pene sproporzionate, dal lavoro coatto alle discriminazioni di genere e etnia, fino ai trattamenti obbligatori.

Ai fini di un ragionamento sulla prospettiva delineata da Delmastro, la sezione sui trattamenti della dipendenza da droghe contenuta nel documento dello WGAD è quella di maggior interesse.

Obbligatorietà e volontarietà

I trattamenti della dipendenza obbligatori sono per definizione una violazione grave dei diritti umani e del diritto di ognuno/a di scegliere o rifiutare un trattamento sanitario. Lo WGAD ne tratta in prima battuta in riferimento ai centri di trattamento obbligatorio di Asia e America Latina, dove le persone vengono rinchiuse anche per anni, senza tutele giuridiche, e seguono in modo coatto percorsi che sono spesso violenti, al di sotto di ogni standard terapeutico, non raramente militarizzati: tutte le agenzie ONU ne hanno a più riprese ordinato la chiusura (per altro senza esito). Però è interessante che vengano citate anche le Drug Courts statunitensi, quei tribunali speciali istituiti proprio per emanare sentenze relative ai reati di droga, consistenti in alternative al carcere e basate sul trattamento. Lo WGAD solleva il nodo della obbligatorietà di fatto (quasi-compulsory) del trattamento deciso da queste corti, e sancisce che “c’è considerevole evidenza del fatto che le drug courts causano danni ai partecipanti e spesso violano i loro diritti umani” (7). Sotto accusa in particolare: il fatto che se il giudice valuta non soddisfacente il percorso, la persona viene inviata in carcere, e lo stesso accade se la persona rifiuta il trattamento (im)proposto, il che non equivale alla libertà reale di scegliere (cosa formalmente possibile ma, appunto, viziata dai dispositivi giuridici); il fatto che la compliance alla sentenza sia limitata alla raggiunta astinenza, senza includere altri obiettivi terapeutici; e che i partecipanti vengano puniti per una ricaduta, che non è un reato. Rispetto al rifiuto del trattamento e della conseguente incarcerazione, lo WGAD sottolinea come “il livello di coercizione che questa scelta implica è troppo grande, ed è una inaccettabile violazione al diritto di scegliere liberamente il proprio trattamento, a rifiutarlo o interromperlo in ogni momento”.

Il trattamento comminato in sentenza previsto dal piano Delmastro sarebbe emesso dai tribunali ordinari italiani, non da corti speciali, ma ci sono fondati motivi di credere che i dispositivi che stanno alla base della condanna delle Drug courts americane caratterizzerebbero le nostre ‘condanne al trattamento ‘ per quanto attiene alle violazioni correlate al loro citato carattere ‘quasi-compulsory’. C’è da dire che questo aspetto, della punizione detentiva in caso di non adesione al trattamento, è qualcosa di cui dovremmo occuparci già da tempo, nell’attuale quadro normativo, è un problema che già abbiamo fin dal 1990, ma non lo abbiamo affrontato come merita: non siamo così lontani dalle Drug Courts quando i giudici valutano il successo o il fallimento di una alternativa consistente in un trattamento, avendo i giudici l’astensione dall’uso come unico orizzonte. Delmastro può peggiorare la situazione, ma siamo già fuori dal rispetto dei diritti umani da tempo, a sentire lo WGAD che, nello stilare i criteri che fanno di un paese un paese che viola i diritti umani, include il fatto che “ sia negato il diritto incondizionato a rifiutare o lasciare un programma di trattamento in ogni momento senza incorrere in penalizzazioni”. Anche le Tokyo Rules sanciscono che “Il fallimento di una misura alternativa non dovrebbe automaticamente portare a una misura detentiva” (8).

Obiettivi e accettabilità del trattamento

Fa parte della violazione della libertà di scegliere il trattamento e del diritto alla salute anche la chiusura del ventaglio degli obiettivi terapeutici alla sola astensione dall’uso. Questo ‘obiettivo unico’ inficia di per sé la libertà terapeutica sancita dai diritti umani: ricorda lo WGAD che “Una riduzione nella quantità e nella frequenza dell’uso di droghe, o altri effetti positivi del trattamento difficili da quantificare, sono apprezzabili dal punto di vista della riduzione della criminalità, anche se non si raggiunge la completa astinenza. La partecipazione al trattamento è da incoraggiare, a prescindere dal risultato individuale”. Cioè: anche dal punto di vista dell’efficacia sociale della ‘sanzione’, anche un uso più controllato e meno intensivo è un obiettivo legittimo (e funzionale). Nella prospettiva del diritto alla salute, lo WGAD riprende e rilancia quanto già sancito da UNODC e OMS nelle linee guida sugli standard dei trattamenti: anche le opzioni terapeutiche offerte dai percorsi alternativi al carcere devono fornire “trattamenti per la dipendenza e altri interventi sulla salute basati sull’evidenza, servizi di riduzione del danno e di sostegno sociale”. Anche la mancanza di questa offerta e della possibilità di accedervi fa di un paese un paese che viola i diritti umani: l’Italia del resto, grazie all’esposto delle associazioni, è già stata ripresa per questo dal CESCR – Committee on Economic Social Cultural Rights dell’ONU per non avere dato completa accessibilità alla Riduzione del danno in tutto il paese, in ciò violando il diritto alla salute di chi usa droghe (9); ora il WGAD ci ricorda che lo stesso diritto spetta a chi segue un trattamento alternativo al carcere. L’obiettivo unico così assertivamente declamato da Delmastro, l’astinenza, toglierebbe ogni possibilità alla molteplicità delle opzioni trattamentali e limiterebbe drasticamente la libertà di scelta delle persone che usano droghe.

Competenze e potere.  I giudici e gli operatori

Uno dei punti più scabrosi sollevati, che ha ricadute sulla libertà e sulla salute, riguarda la stessa natura ambigua dei trattamenti alternativi, tra punizione e cura. Si tratta di chi ha il potere di valutare l’esito di un trattamento eseguito come pena alternativa, e secondo quale premessa e quale prospettiva questo giudizio viene adottato. Il tema ha a che fare con i due punti precedenti. Si è già detto che ritenere da parte dei giudici la sola astinenza un successo e il giudicare un eventuale riuso o comunque una diversa modulazione dell’uso una inosservanza – sanzionabile – del trattamento viene definita dallo WGAD una violazione. Che la cosiddetta ‘ricaduta’ non sia un buon motivo per considerare fallimentare un trattamento lo dicono anche le Regole di Tokyo: “Una ricaduta non è necessariamente la rottura di una adesione al trattamento, ma è la caratteristica di un disturbo così complesso”. A completamento della sua asserzione, l’agenzia ONU specifica e indica che “la valutazione dovrebbe essere sempre lasciata ai professionisti della salute. Non dovrebbe esserci alcuna supervisione o monitoraggio delle corti, dovrebbero essere lasciati solo ai medici”. Una raccomandazione che, se adottata, dovrebbe rovesciare l’intera attuale architettura delle alternative alla detenzione basate sul trattamento, e mettere sottosopra il nostro attuale sistema, Delmastro a parte. Oggi infatti il personale dei servizi fornisce ai giudici informazioni circa l’andamento dei trattamenti (analisi delle urine comprese), ma la valutazione e la decisione è in mano ai giudici e non agli operatori, che così spesso si ritrovano impotenti spettatori di esiti che non condividono. Quello di un dialogo più serrato con la magistratura su questi temi è una questione all’ordine del giorno da anni, per il movimento riformista, che è rimasto per lo più al palo.

Dunque già siamo fuori dalle raccomandazioni ONU, e però la prospettiva ideata dal sottosegretario aggiungerebbe alla partita un carico pesante: quando dice ‘una seconda volta e sei fuori’, cioè al secondo nuovo reato commesso essendo ancora (o di nuovo) consumatore, rimane la sola opzione della detenzione. Una assurdità – negare l’accesso alle alternative a una platea di persone, che sarebbe vastissima, in base a un comportamento che non è un reato penale (l’uso personale non lo è) – che farebbe saltare sulla sedia le agenzie ONU per la plateale discriminazione e violazione dei diritti.

Infine ma non ultimo, secondo UNODC e OMS, questa prevalenza del parere medico dovrebbe avere effetto anche sulla durata della pena alternativa: “Dovrebbe esserci una opzione secondo cui se la persona ha raggiunto gli obiettivi del trattamento, la misura dovrebbe terminare in anticipo [sulla scadenza prevista]” (10). Nulla a che vedere con l’idea di Delmastro di passare comunque in comunità gli eventuali mesi restanti dopo il termine positivo del percorso.

Percorsi e luoghi trattamentali

“Quelle comunità chiuse in stile Muccioli” a cui Delmastro fa riferimento come luogo e modello di ‘espiazione del trattamento’, ci lasciano nel dubbio: sta pensando a strutture penitenziarie privatizzate (dunque ambito penitenziario sebbene esternalizzato) oppure a comunità terapeutiche ‘blindate’ (ma comunque luoghi esterni e alternativi al carcere)? In attesa di spiegazioni, comunque alalrmanti, annotiamo alcune considerazioni che nella prospettiva che stiamo trattando, valgono nell’uno e nell’altro caso.

La prima: continua a valere quanto affermato da UNODC, OMS, HRI, UNAIDS e molti altri, che il trattamento in ambiti coatti e sotto un regime di obbligo o quasi-obbligo sono meno efficaci di quelli volontari, nella migliore delle ipotesi, o per nulla efficaci se non dannosi nella peggiore (11). Tutte le agenzie producono una vasta letteratura in questo senso, il che significa sapere che i più efficaci trattamenti – a cui le persone detenute o in misura alternativa dovrebbero aver diritto di accedere come ogni altro – sono intenzionalmente messi in secondo piano rispetto a trattamenti meno efficaci. Questa è anche una delle ragioni di fondo per cui sono state emesse così tante e reiterate raccomandazioni che indicano la decriminalizzazione come necessaria: garantire il diritto alla salute e all’accesso ai migliori trattamenti disponibili.

In secondo luogo, lo WGAD mette sotto la lente delle violazioni dei diritti alcune caratteristiche del contesto e del modello dei centri di trattamento obbligatorio che la definizione di ‘comunità chiuse’ -anche nella versione non di sezioni carcerarie – richiama ampiamente. Per esempio, il fatto che “le persone che usano droghe non hanno la facoltà di uscire dal centro se non vengono valutate pienamente riabilitate [leggi: astinenti]”, rinvenendo la violazione del diritto alla libertà personale. Oppure: è violazione dei diritti umani essere sottoposti a lavoro coatto, che risponde alla definizione di “obbligatorio e non remunerato o con remunerazioni estremamente basse”. O ancora, riprendendo il tema del ventaglio di possibili approdi del trattamento, è interessante l’elenco delle variabili che lo WGAD include quando descrive le caratteristiche di un centro per il trattamento obbligatorio: “Il trattamento offerto spesso non risponde alle evidenze scientifiche, ma è basato sulla sola astinenza. Gli operatori specializzati sono spesso assenti e così quelli che sono esperti nella riduzione del danno”. Con ciò tornando sulla molteplicità degli obiettivi legittimi del trattamento e sulla qualità dell’offerta come base del rispetto del diritto alla salute. Viene in mente: quali sarebbero i criteri di Delmastro nel formulare i bandi per le future ‘comunità chiuse’?

Le raccomandazioni inoltre invitano a non limitare i trattamenti alternativi a contesti chiusi: “Gli stati devono rendere accessibili servizi sanitari e sociali volontari, basati sulle evidenze e sui diritti e inseriti nella comunità sociale” .

Accountability,  questa sconosciuta

I diritti umani sono una retorica se non si creano le condizioni di contesto per la loro esigibilità. Tra queste, nel caso in esame, l’agenzia ONU indica “un insieme di salvaguardie cruciali per dare alle persone che usano droghe la possibilità di ricorrere per rivedere le decisioni in materia di alternative o punizione detentiva”. Si riferisce al ricorso a una autorità indipendente, che deve avere potere di giudizio anche su casi di modifica o revoca dei trattamenti alternativi al carcere quando decisi a seguito di una supposta inosservanza delle regole del trattamento. Per tutto questo, le persone devono avere il diritto di “accedere all’assistenza legale e all’informazione necessaria, offerta in un modo e con un linguaggio pienamente accessibili”. Si chiama accountability, che vuol dire insieme responsabilità di chi emette o implementa leggi, norme, decisioni amministrative, e garanzia per i destinatari di poter far sentire la propria voce, rivendicare i propri diritti e ottenere, se del caso, un risarcimento. Un pilastro dei diritti umani, fantascienza per le persone che usano droghe, in particolare quelle italiane. E però, un terreno su cui lavorare di più e meglio, usando gli strumenti di advocacy che si hanno a disposizione, le reti internazionali, i dispositivi stessi che agenzie e diritto internazionale hanno elaborato.
Questa breve, parziale disamina delle possibili violazioni dei diritti fondamentali in caso di avanzata del ‘modello Delmastro’ può essere uno degli appigli per un contrattacco politico e legale in nome dei diritti umani.

Note

  1. Tutte le citazioni della dichiarazione di Delmastro sono in La ricetta di Delmastro: «Tossicomani in comunità, così svuotiamo le carceri, Il Dubbio, 13 marzo 2023, https://www.ildubbio.news/giustizia/la-ricetta-di-delmastro-tossicomani-in-comunita-cosi-svuotiamo-le-carceri-ez2uim14
  2. Vedi https://www.fuoriluogo.it/mappamondo/cnca-no-alle-comunita-carcere-cosi-si-torna-agli-anni-80/
  3. Per una panoramica sulle poszoni delle agenzie ONU vedi in IDPC, Converging universes: 20 years of human rights and drug policy at the United Nations (2022), https://idpc.net/publications/2022/12/converging-universes-20-years-of-human-rights-and-drug-policy-at-the-united-nations e Ronconi & Segio, Droghe e diritti umani.Le politiche e le violazoni impunite, ed Milieu (2022). La posizione della società civile europea sulla decriminalizzazione è in CSFD-Civil Society Forum on Drugs, Position papaer on decriminalization (2023), https://www.civilsocietyforumondrugs.eu/position-paper-on-decriminalisation/
  4. UNAIDS, WHO et alt, International Guidelines on Human Rights and Drug Policy (2020), https://www.undp.org/publications/international-guidelines-human-rights-and-drug-policy
  5. UNODC, Handbook of basic principles and promising practices on Alternatives to Imprisonment (2007), https://www.unodc.org/pdf/criminal_justice/Handbook_of_Basic_Principles_and_Promising_Practices_on_Alternatives_to_Imprisonment.pdf ; United Nations Standard Minimum Rules for Non-custodial Measures
    (The Tokyo Rules) (1990), https://www.ohchr.org/sites/default/files/Documents/ProfessionalInterest/tokyorules.pdf
  6. UNODC-WHO, Treatment and care for people with drug use disorders in contact with the criminal justice system. Alternatives to Conviction or Punishment (2018). https://syntheticdrugs.unodc.org/uploads/syntheticdrugs/res/library/treatment_html/Alternatives_to_Conviction_or_Punishment_treatment_and_care_for_people_with_drug_use_disorders_in_contact_with_the_criminal_justice_system_joint_UNODC-WHO.pdf
  7. WGAD, cit. Quando non diversamente specificato, tutte le citazioni provengono da questa fonte.
  8. United Nations Standard Minimum Rules for Non-custodial Measures (The Tokyo Rules), cit.
  9. Forum Droghe, Harm reduction Internationali e altri, in https://www.fuoriluogo.it/forum_droghe/comunicati_stampa/droghe-lonu-bacchetta-litalia/
  10. UNODC-WHO (2018) cit.
  11. UNODC-WHO (2018) cit.