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Dall’esplosione della pandemia a oggi è passato un anno abbondante. Come ogni tragedia globale, come ogni periodo di profonda crisi della storia dell’umanità, il Covid ha anche, inevitabilmente, rappresentato un’opportunità: l’opportunità di mettere in dubbio certezze tanto fallaci quanto granitiche; di aggiustare le chiare ed evidenti crepe del sistema; di elaborare e mettere in atto modelli al passo coi tempi e con le necessità dei cittadini; di smettere di perseguire interessi tutt’altro che collettivi. Abbiamo avuto l’occasione di rimettere al centro il bene comune, la giustizia sociale, la tutela dell’ambiente (anche soltanto, molto egoisticamente, come garanzia della nostra stessa sopravvivenza).

Qualcosina sarebbe pure cambiata. Qualche falso dogma si è incrinato. Persino gli Stati Uniti, abituati a fare spallucce per la rovina economica, la sanità negata, la morte di migliaia di cittadini, hanno mosso i primi passi verso una nuova era un pelo meno disumana della precedente. In Italia, in compenso, si è preferito evitare di impelagarsi in complesse discussioni sui massimi sistemi. Ormai da decenni più realisti del re, abbiamo scelto di seguire il solito copione: fare finta che non sia successo niente. Anzi, no: approfittare del trambusto per fare di peggio.

Se le drammatiche, dirompenti conseguenze del Covid hanno a malapena smosso la nostra classe dirigente riguardo i problemi quotidiani di milioni di persone, era possibile immaginare un cambio d’approccio su questioni “minori” (tra mille virgolette) quali droga e carcere? Era lecito attendersi che il legislatore agisse con consapevolezza e decisione su argomenti che smuovono l’opinione pubblica solo quando qualche cattivo agita lo spettro del buonismo? Era pensabile che una qualsiasi maggioranza parlamentare, e non soltanto qualche sparuta anima pia, si dimostrasse disposta ad affrontare la becera propaganda e il benaltrismo di chi vuole nascondere la polvere sotto il tappeto, di chi non vuole incrinare i propri rapporti, locali, nazionali e internazionali, con le mafie?
La risposta già la conoscevamo: no.

Ma avremmo gettato la spugna da anni se non fosse per quella fievole speranza, per quel cauto, pessimistico ottimismo che ci anima. Quindi come ogni anno siamo qui, a snocciolare gli sconfortanti dati di un sistema apparentemente immutabile e spietato, che se ne frega dei propri fallimenti, in questo campo come negli altri. Eppure, proprio per questo, destinato a essere sconfitto.

La situazione nelle carceri

Gli ingressi in carcere, in calo dal 2018, sono scesi nell’ultimo anno di 10.921 unità (-23,6%). Gli ingressi ex art. 73 (Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope) hanno fatto registrare una diminuzione di 2.825 unità, pari al -20,7%.

In calo anche gli ingressi di soggetti tossicodipendenti, da 16.842 a 14.092: un calo nominale di 2.750, pari al -16,3%. C’è tuttavia da segnalare che i ristretti tossicodipendenti si avvicinano ormai alla soglia critica del 40%, con una preoccupante impennata negli ultimi sei anni (dal 27,5% al 38,6%).

Dal punto di vista percentuale, gli ingressi per violazione dell’art. 73 su quelli totali rimangono invece in linea con quelli degli anni precedenti, sempre attorno alla soglia del 30%, superata nell’ultima decade solo quest’anno (30,8%), nel 2013 e nel 2012 (rispettivamente 30,6% e 32,5%).
Per quel che riguarda il calo generalizzato degli ingressi, trattasi ovviamente di una conseguenza della pandemia, che ha reso necessarie politiche di deflazione penitenziaria volte a decongestionare le carceri e a rendere più gestibile l’emergenza sanitaria.
Lo scorso anno i detenuti presenti al 31 dicembre erano tornati a superare la soglia dei 60mila; non accadeva dal 2013. Rispetto all’anno precedente e per il quinto anno consecutivo, erano aumentati sia i ristretti ex DPR 309/90 che quelli tossicodipendenti. Il trend, insomma, era piuttosto chiaro. Con l’arrivo della pandemia e il forzato decongestionamento delle carceri, i ristretti sono scesi a 53.364, ai livelli cioè del 2014, quando le sentenze della CEDU e della Corte costituzionale avevano messo una pezza a un problema, quello del sovraffollamento carcerario, che pareva non preoccupare affatto il legislatore.
Il calo nel numero di ristretti registrato nel 2020 ha riguardato anche quelli ex art. 73, diminuiti di 2.332 unità (-16,1%). Interessante notare come non vi sia stato un calo altrettanto corposo tra i detenuti ex art. 74 (o 73+74), che sanziona una condotta più grave (Associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze psicotrope). L’ampia differenza tra ristretti ex art. 73 ed ex art. 74 è la rappresentazione plastica di un sistema orientato alla cattura dei pesci piccoli e alquanto fallimentare quando si tratta di risalire la piramide della gerarchia criminale. Il parziale restringimento della forbice tra il numero di reclusi per l’una e l’altra condotta va avanti, a piccoli passi, da alcuni anni; il 2020 potrebbe tuttavia non essere molto indicativo riguardo la conferma del trend in quanto, dovendo contenere il sovraffollamento carcerario durante la pandemia, è normale che i principali beneficiari delle alternative siano stati gli autori di crimini meno gravi.

Come possiamo notare, dal 2007 ad oggi circa un detenuto su quattro è tossicodipendente. In termini percentuali l’apice è stato raggiunto nel biennio 2018-2019, ma nel 2019 è stato raggiunto il valore più alto in termini assoluti: 16.934 detenuti tossicodipendenti (il 27,9%).
Al 31 dicembre 2020 sia il dato nominale che quello percentuale sono tornati a scendere, attestandosi al 26,5% (14.148). Va detto che il dato è comunque ben oltre la soglia d’allarme. La presenza di tossicodipendenti in carcere rappresenta infatti un grave problema sanitario dal momento che molti virus e malattie infettive possono colpire i tossicodipendenti in misura estremamente maggiore, e che le strutture detentive del nostro Paese sono spesso del tutto inadeguate a dare supporto e a gestire chi ha gravi problemi di salute.

Simulazione popolazione carceraria senza detenuti ex art. 73 e senza tossicodipendenti

Come abbiamo visto, negli ultimi quindici anni i dati relativi a ingressi e presenze in carcere hanno fatto registrare un trend di aumento costante, invertito soltanto a cavallo del 2013-2014 e di nuovo nel 2020; questi stop temporanei ai processi di carcerizzazione non sono stati promossi dal legislatore, ma subiti: sono state infatti la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo prima (2013, Torreggiani e altri c. Italia, sentenza di condanna per il sovraffollamento carcerario), la Corte Costituzionale poi (sentenza 32/2014, in cui veniva sancita l’incostituzionalità della Fini-Giovanardi), infine la pandemia a calmierare i dati. La costante dell’intero periodo analizzato è la centralità della proibizione nelle politiche penali: dal 2006, infatti, oltre un terzo dei detenuti sono ristretti per violazioni del DPR 309/90, e circa un quarto dei detenuti sono tossicodipendenti.
Il grafico che segue (figura 1) ha lo scopo di illustrare, in maniera molto grossolana, quanto la normativa antidroga influisca sul tasso di affollamento carcerario.
Si parte dal 2006, anno di concessione dell’ultimo indulto ma anche dell’approvazione della Fini-Giovanardi. A seguito dell’indulto, la popolazione carceraria era scesa da 59.523 detenuti (31.12.2005) a 39.005 (31.12.2006), con un tasso di affollamento pari a 91 (ossia 91 detenuti per 100 posti; l’anno prima era a 139). Già nel 2007, però, il numero di detenuti era di nuovo superiore alla capienza regolamentare. La situazione è precipitata negli anni successivi, con un’impennata di ristretti ex art. 73; il picco massimo di affollamento carcerario si è avuto nel 2010, quando ogni 100 posti erano presenti 151 detenuti (di cui 48 per violazione dell’articolo 73).
Dopo la condanna CEDU per il caso Torreggiani (2013) e la dichiarazione d’incostituzionalità della Fini-Giovanardi (2014), la popolazione carceraria è diminuita fino ai 52.164 detenuti presenti al 31.12.2015 (tasso di affollamento: 105); da allora i numeri sono tornati a salire fino al 31 dicembre 2019 (60.769 detenuti, tasso di affollamento: 120).

Fig. 1 Simulazione popolazione carceraria senza detenuti tossicodipendenti

A seguito della pandemia mondiale si è verificata un’ovvia inversione di tendenza che ha riportato il tasso di affollamento a 105. Comunque troppo: per prevenire focolai e contenere il numero di morti sarebbe stato doveroso fare scelte più incisive, che garantissero il distanziamento sociale anche all’interno delle strutture detentive.
Come si può vedere nel grafico, togliendo i detenuti ex art. 73 (simulazione 1), solo nel biennio 2010-2011 sarebbe stata superata la capienza regolamentare; togliendo invece i detenuti tossicodipendenti (simulazione 2), il tasso di affollamento sarebbe stato superiore a 100 solo negli anni dal 2009 al 2012. Oggi i tassi d’affollamento sarebbero rispettivamente di 81 e di 77, più consoni sia per la gestione ordinaria dei penitenziari che per quella, straordinaria, di un’emergenza sanitaria.
Concludiamo con due precisazioni: la prima è che nella prima simulazione sono stati scorporati solamente i detenuti ex art. 73, e non anche i detenuti ex artt. 73 e 74 né i detenuti ex art. 74, autori di crimini più gravi e quindi puniti più severamente. La seconda è che la capienza regolamentare non corrisponde alla capienza effettiva, che è sensibilmente inferiore in quanto alcuni dei posti calcolati non sono effettivamente disponibili: questo significa che il tasso d’affollamento effettivo è sempre un po’ più alto di quello da noi calcolato.

La situazione nei tribunali

Nel 2020 è stato registrato un nuovo balzo nei dati relativi ai procedimenti penali pendenti, probabilmente dovuto al blocco del sistema giustizia a causa della pandemia. Le persone con procedimenti penali pendenti per articolo 73 erano 189.707 al 31 dicembre, il numero più alto registrato negli ultimi sedici anni (+13.919 sul 2019); salgono anche quelli per articolo 74 (+3.400 sul 2019).

Da notare la corrispondenza inversa tra il decremento registrato tra il 2014 e il 2015 e l’incremento registrato tra il 2006 e il 2007, a ridosso della prima applicazione della Fini-Giovanardi: è possibile ipotizzare che il più grave trattamento sanzionatorio della detenzione di cannabinoidi previsto dalla legge del 2006 tanto abbia influito sull’incremento delle persone sottoposte a procedimento penale tra il 2006 e il 2007 quanto la sua caducazione a opera della Corte costituzionale nel 2014 ha influito sulla riduzione dei soggetti sottoposti a procedimenti penali. Purtroppo l’effetto benefico della sentenza è stato presto vanificato da un nuovo trend in aumento interrottosi soltanto nel 2019.

Le misure alternative alla detenzione

Dal 2006 al 2019 si è verificata una crescita costante delle misure alternative. Erano 3.592 nel 2006, sono quasi triplicate nel giro di 3 anni (10.332 nel 2009), hanno quasi toccato quota 30mila al 31.12.2019, calando un poco nell’ultimo anno. Va tuttavia considerato che nel 2006 i detenuti non arrivavano a 40mila, mentre a fine 2019 eravamo a oltre 60mila, nel 2020 a 53.364: questo farebbe pensare che le misure alternative abbiano finito per diventare un’alternativa alla libertà anziché alla detenzione, inverando la teoria del net widening, secondo cui, in un contesto di forte domanda di controllo sociale istituzionale, gli strumenti di diversion e quelli di probation consentono di ampliare l’area del controllo, piuttosto che di limitare quello coattivo-penitenziario.
C’è un altro dato che salta all’occhio: fino al 2019, se per l’affidamento ordinario quasi tre su quattro non andavano in carcere (erano cioè affidati in prova dallo stato di libertà), la proporzione era ben diversa per gli affidati alcoldipendenti e tossicodipendenti. Di questi, esattamente due su tre assaggiavano il carcere prima di poter accedere alla misura alternativa dell’affidamento in prova. Nel 2020 le proporzioni sono un po’ cambiate giacché, per via del Covid-19, in un anno sono quasi raddoppiati gli affidati dallo stato di detenzione (da 3.747 a 6.732); è sorprendente che la stessa crescita non si sia verificata tra gli affidati tossicodipendenti o alcoldipendenti dallo stato di detenzione, che sono invece diminuiti.

La punizione in via amministrativa del mero consumo di sostanze illegali

La tabella 7 è dedicata alle segnalazioni ex art. 75 ovvero al possesso di sostanze stupefacenti per uso personale, una condotta che non ha rilevanza penale ma è soggetta a sanzioni di tipo amministrativo.

Come prevedibile, crollano sia le persone segnalate (-10.728) sia le segnalazioni (-10.914). Il 2019 aveva fatto registrare il più alto numero degli ultimi dodici anni per entrambe le voci.
Il brusco calo del biennio 2014-2015 si è quindi rivelato transitorio: nel 2015 i segnalati erano stati “appena” 27.718, di cui 1.125 minori. In quattro anni c’è stato un aumento generale del 50,6%, mentre i minori segnalati sono poco meno che quadruplicati. Su questi dati ha certamente influito l’ardore securitario dei Ministri dell’Interno Minniti e Salvini, in carica rispettivamente dal 12 dicembre 2016 al 1° giugno 2018 e dal 1° giugno 2018 al 5 settembre 2019. Durante i loro mandati, imperniati sul machismo e la tolleranza zero (come sempre, riservata ai più deboli) è probabile siano stati intensificati i controlli e, di conseguenza, sono aumentate le segnalazioni.
Nel 2020, con mesi di lockdown, coprifuoco e distanziamento sociale, era inevitabile che tanto le persone segnalate quanto le segnalazioni diminuissero in maniera molto netta.
Continua intanto il calvario delle richieste di programma terapeutico, mai davvero ripresesi dal tracollo seguito all’entrata in vigore della legge Fini-Giovanardi: solamente 94 nel 2020 contro le 3.008 del 2007. Se la finalità della segnalazione al prefetto, oltre quella di applicare la sanzione amministrativa, è quella di prevenire l’uso da parte di coloro che non sono assuntori di droga, azzerare o ridurre l’uso da parte di quanti sono abituali consumatori e favorire il recupero di consumatori abituali e di tossicodipendenti, non si può parlare che di fallimento.


Come ogni anno, quasi tre quarti delle persone segnalate ai sensi dell’articolo 75 del DPR 309/90 devono la segnalazione al consumo di cannabinoidi: ben 24.785 su 33.335 (74,4%). La seconda sostanza per numero di persone segnalate è la cocaina (19%, quasi una su cinque); segue con un bel distacco l’eroina (5,1%, poco più di una persona ogni venti).
Molto evidente la disparità nei consumi tra maschi e femmine, che inizia già tra i minorenni. Nel complesso sono maschi il 93,1% delle persone segnalate.
Per quanto riguarda la cifra totale, qualcuno potrà notare la discrasia rispetto a quella riportata nella tabella 5. Il totale effettivo delle persone segnalate è quello della suddetta tabella; i dati non coincidono perché, qualora una persona sia segnalata ex art. 75 per consumo di più di una sostanza, nella tabella 6 risulta più volte (+1 per ogni sostanza). Precisiamo quindi che sono 29.426 le persone con una singola segnalazione, mentre 1.590 hanno più segnalazioni (per un totale di 31.016 persone segnalate).
Purtroppo non siamo riusciti a ottenere il numero di segnalazioni ex art. 75 per sesso e sostanza consumata relativo al 2020, dunque il nostro calcolo del totale delle segnalazioni dall’introduzione del DPR 309/90 si interrompe momentaneamente al 31 dicembre 2019 (tabella 9). Il trend è comunque abbastanza definito, e trova conferma anche nei dati dell’ultimo anno relativi alle persone segnalate: quasi tre segnalazioni su quattro sono per uso di cannabinoidi. L’accanimento sulle droghe leggere nell’ambito della war on drugs è evidente.
Seguono l’eroina con 149.879 segnalazioni (11,42%) e la cocaina con 140.301 (10,69%). Da notare che negli ultimi anni la cocaina ha fatto registrare un numero di persone segnalate di gran lunga superiore all’eroina. Non fa eccezione il 2020 (tabella 8). Se il ritmo resterà tale, nei prossimi due anni la cocaina sarà la seconda sostanza per numero di segnalazioni e di persone segnalate.