SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano, la docu-serie in cinque episodi prodotta da Netflix nel 2020, ha avuto ampi riscontri di pubblico e di critica. Sicuramente per le indubbie qualità di sceneggiatura e regia, nonché l’abile marketing e la grande disponibilità dei mezzi della piattaforma, colosso multinazionale dell’intrattenimento che fattura oltre 20 miliardi di dollari l’anno. Altrettanto per certo, l’interesse suscitato è spiegabile anche con il fatto che la vicenda tocca nervi sempre scoperti, riapre contrapposizioni mai sopite e una storia sociale e culturale che non è relegabile al passato. Il merito è obiettivo e indubbio: aver riaperto la riflessione e il dibattito non tanto e non solo sulla comunità terapeutica fondata da Vincenzo Muccioli nel 1978 quanto sulla questione delle droghe, da tempo rimossa dall’attenzione pubblica e dall’affrontamento politico e istituzionale. Basti dire che la Conferenza governativa che ha il compito di verificare e indirizzare le politiche in materia non viene più effettuata dal 2009, in violazione della legge che la prevede ogni tre anni.
La tossicodipendenza ieri e oggi
Una inadempienza tanto più grave stante la permanenza di drammaticità ed estensione del problema. Secondo le fonti ufficiali, nel 2019 le morti per intossicazione acuta da droghe sono state 373, di cui 169 dovute all’uso di eroina, in aumento del 11% sull’anno precedente, che già aveva visto una crescita del 17% rispetto al 2017. Lo stesso Dipartimento per le politiche antidroga istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, nella propria relazione annuale al Parlamento, specifica peraltro che tale cifra è inferiore alla realtà, in quanto si riferisce solo alle morti attribuite in via diretta all’assunzione di droghe e ai casi per i quali sono state interessate le forze di polizia.
Nel complesso, e con questa avvertenza, negli ultimi vent’anni i decessi correlati agli stupefacenti assommano a 9.718. Si consideri che nel 1985, l’anno del famoso “processo delle catene”, ricostruito nel documentario e che vide imputato e condannato in primo grado Muccioli, i decessi per droga erano stati 242.
La questione, beninteso, non riguarda solo o particolarmente il nostro paese: secondo l’Osservatorio europeo sulle droghe, nel 2018 i decessi per overdose nell’Unione sono stati 8.300.
In Italia, nel corso del 2019, i 6.624 operatori dei 562 Servizi Pubblici per le Dipendenze (SerD) hanno assistito complessivamente 136.320 persone, mentre i servizi gestiti dal cosiddetto “Privato Sociale” – ben 821 quelli registrati – al 31 dicembre 2019 avevano in carico 16.352 persone, la maggior parte (11.117) inseriti in strutture terapeutiche residenziali.
Pur nelle differenze anche significative riguardo le sostanze oggi utilizzate, il loro mercato e le modalità di consumo, il quadro attuale delle droghe e delle dipendenze, insomma, ha dimensioni che dovrebbero allarmare, oltre che indurre adeguate risposte a livello politico e sociale. Eppure, il problema rimane pressoché invisibile e non rilevato nella informazione e consapevolezza pubblica.
Benvenuto, dunque, il documentario SanPa, che ha saputo risvegliare l’attenzione del distratto e omissivo sistema mediatico, se riuscirà davvero a provocare una riflessione che vada oltre il soggettivo dosaggio delle “luci” e delle “ombre” e un dibattito che esca dalle personalizzazioni per addentrarsi nella questione droghe (e politiche sulle droghe) in generale e, in specifico, nell’analisi dei modelli e delle culture che presiedevano e presiedono alle risposte terapeutiche.
Di cosa stiamo parlando
Le premesse non rendono però ottimisti, poiché il racconto che SanPa propone non fornisce alcun elemento di contestualizzazione riguardo il periodo storico, le correnti culturali, la situazione politica, gli apparati normativi di riferimento, le diverse filosofie e metodologie di trattamento delle tossicodipendenze. Uno spettatore giovane o smemorato sarà anzi indotto a ritenere che quella di Muccioli sia stata l’unica struttura preposta alla cura di quanti in quell’epoca fossero stati dediti all’uso di droghe. E, così pure, che l’opera di San Patrignano sia da considerarsi tanto più meritevole stante la latitanza dello Stato e di ogni supporto pubblico.
Una convinzione tanto diffusa quanto errata, come vedremo, da cui non si discosta Carlo Gabardini, che con Paolo Bernardelli è stato coautore della docu-serie ideata e scritta da Gianluca Neri e diretta dalla regista Cosima Spender. In un’intervista parla esplicitamente «dell’assenza dello Stato che bollò la droga come una tematica tabù e creò emarginazione e stigma sociale». Una persuasione ribadita più volte: «È una serie su tutti noi. Su come decidiamo di risolvere i problemi che travolgono la società e su come ci confrontiamo con l’assenza dello Stato» (“Il Fatto Quotidiano”, 16 gennaio 2021).
Se ci pensiamo, questo è un concetto cardine che ha invaso e colonizzato il discorso pubblico degli ultimi decenni, a consentire e sorreggere la restaurazione liberista oggi dominante, in una sorta di profezia che si autoadempie. La denuncia dell’assenza e dell’inefficienza dello Stato, culla prima del liberismo e poi del populismo, è stata cavallo di Troia delle privatizzazioni, dell’appropriazione dei beni comuni e della demolizione del welfare. «Il privato è meglio e funziona meglio» è lo slogan che ci accompagna da decenni. La sindemia del Covid-19, con il corredo di alta mortalità e le diverse problematiche connesse, derivanti dalla decennale penalizzazione e aziendalizzazione del servizio sanitario pubblico e dal depauperamento della medicina territoriale a favore del sistema privato e convenzionato, sta ora rendendo evidente anche ai più ciechi quanto fosse fraudolenta quella ideologia. Un sistema che, tuttavia, non demorde e che sta utilizzando lo shock pandemico per accentrare poteri e moltiplicare profitti, nella logica rapace e consolidata del capitalismo dei disastri.
Secondo il documentario, dunque, già allora e anche nel campo delle tossicodipendenze l’iniziativa privata colmava il vuoto dovuto alla latitanza e disinteresse delle autorità pubbliche e “salvava” tanti giovani altrimenti condannati. Diversamente, già la legge n. 685 del 1975 aveva istituito i servizi pubblici territoriali, man mano cresciuti di numero, esperienza e di professionalità. Il confronto non era tra un’assenza e una supplenza, ma tra impostazioni diverse e talvolta opposte. Nel pensiero di Muccioli, in realtà, ciò di cui si lamentava la mancanza non era tanto dello Stato in sé, bensì dello Stato forte, dello Stato penale non di quello sociale. Non per niente le forze politiche maggiormente e per prime tifose di San Patrignano sono state quelle con medesima e dichiarata convinzione e con qualche nostalgia per passati regimi.
La linea guida della docu-serie
Fatta salva la bontà delle intenzioni e l’indubbia perfezione tecnica, scontata l’evidente e preventiva ricerca di equilibrio (rivendicata da Gabardini: «Le luci ci sono e le abbiamo mostrate in maniera profonda e senza filtri»), quel che risulta ab origine discutibile è l’architrave, l’assunto fondante sul quale è costruito l’intero documentario. Quello di cui ha espressamente riferito il produttore Gianluca Neri: «La frase che ci eravamo dati noi autori come linea guida era: quanto male sei disposto a giustificare, per fare del bene? Era la chiusura del trailer che proponemmo a Netflix per farci prendere la storia» (intervista realizzata da Selvaggia Lucarelli per TPI.it, 3 gennaio 2021).
Si introduce in questo modo un’affermazione apodittica e fattualmente indimostrabile, ovvero che l’esito di quei trattamenti, pur violenti, sia stato «il bene» dei soggetti in quel modo trattati. La cui alternativa sarebbe stata il permanere nella “schiavitù” della droga e la morte. Un male relativo e contingente per un bene assoluto e definitivo. E qui, a puntello dell’assunto, entra in campo non semplicemente un aspetto non comprovato, ma una vera e propria falsa memoria, una credenza e una disinformazione riguardo ai fatti e ai dati dell’epoca.
Dice ancora il produttore: «Alcuni montatori che avevano 18 anni ci guardavano basiti chiedendo “Ma davvero si facevano con le siringhe?”. Gli dovevamo spiegare che i tossicodipendenti li trovavi nei parchi, morti sulle panchine, per spiegare quanto fosse un’emergenza nazionale». Eppure, questa descrizione non corrisponde alla realtà di quel periodo, ma semmai a quella di un decennio successivo, allorché la risposta politica alle tossicodipendenze era divenuta marcatamente punitiva, anche sulla scia e per risultato dell’approccio e del verbo muccioliniano.
La fotografia che più è rimasta nell’immaginario, condizionandolo, è, in effetti, degli ultimi giorni del 1979: un ragazzo riverso su una panchina di Milano, alla Bovisa, con un prete che ne benedice la salma. Si chiamava Dario Rizzi, aveva 16 anni. Ma, dopo le suggestioni e i fotogrammi rimasti maggiormente impressi, occorre tornare al quadro nel suo insieme e all’obiettività dei numeri e alla corretta datazione degli avvenimenti e del loro sviluppo, guardando in parallelo ai cambiamenti nelle politiche e nelle legislazioni antidroga.
I morti per droga e la nuova legge
I decessi per sostanze stupefacenti hanno iniziato a essere censiti nel 1973, con un solo morto registrato. Da allora una lenta ma quasi lineare progressione: 8 decessi (nel 1974), 26 (1975), 31 (1976), 40 (1977). Nel 1978, anno di fondazione di San Patrignano, furono 62; in seguito 126 (1979), 206 (1980), 237 (1981), 252 (1982), 259 (1983), 397 (1984), 242 (1985). Nell’anno dell’assoluzione in appello di Muccioli per le catene, il 1987, i morti erano stati 543 e poi hanno continuano a salire progressivamente sino ai picchi dei 1.161 del 1990, 1.383 del 1991, 1.217 del 1992. Picchi che è inevitabile – e corretto – porre in correlazione con la nuova legge sugli stupefacenti introdotta nel 1990, dopo un dibattito lungo e lacerante a livello politico e sociale e tra le diverse comunità terapeutiche, portatrici di pratiche e metodologie assai differenziate. Dallo scontro uscì vincitore Muccioli, principale sostenitore della legge Iervolino-Vassalli (legge 26 giugno 1990 n. 162, poi DPR 9 ottobre 1990, n. 309).
Era allora in carica il VI governo Andreotti, di coalizione pentapartita (DC, PSI, PSDI, PRI, PLI). La nuova disciplina era fortemente voluta dai due partiti principali della coalizione, il democristiano e il socialista, allo scopo di riformare il criterio della “modica quantità”, caratterizzante la legge n. 685 in quel momento in vigore. Sino al 1990, infatti, era esclusa la punibilità per la detenzione di un modesto quantitativo di sostanza finalizzata al consumo personale.
La legge n. 162 volle invece, programmaticamente, punire chiunque consumasse droghe. Così, il possesso di una quantità inferiore alla “dose media giornaliera” (definita con apposite tabelle ministeriali in 100 milligrammi di principio attivo per l’eroina, 150 milligrammi per la cocaina, 1/2 grammo per l’hashish) comportava sanzioni amministrative (sospensione della patente, del passaporto, obbligo di colloquio in prefettura). Al di sopra di quella soglia, invece, le misure diventavano automaticamente penali; ma anche la reiterazione o l’inosservanza delle sanzioni amministrative comportava – e comporta – l’avvio al circuito penale.
La ratio, insomma, era di escludere ogni discrezionalità da parte della magistratura e delle forze dell’ordine nel valutare caso per caso se la droga fosse destinata all’uso personale o allo spaccio, e dunque di punire severamente anche il semplice consumo e la detenzione a uso personale. In seguito la norma venne addirittura inasprita, con la legge Fini-Giovanardi, n. 49 del 2006, che equiparò droghe pesanti e leggere e moltiplicò ulteriormente gli ingressi in carcere, prima di essere, pur tardivamente, dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale con sentenza n. 32 del 2014.
La war on drugs
La legge repressiva del 1990 aveva un’altra delle sue radici nella fascinazione del leader socialista dell’epoca, Bettino Craxi, per la war on drugs voluta e varata dall’allora presidente statunitense George Bush senior, ma già indirizzata dal predecessore Ronald Reagan. Arrivarono così gli anni della “tolleranza zero” imposta dal sindaco di New York Rudolph Giuliani (che abbiamo ritrovato negli anni recenti in veste di avvocato di Donald Trump).
Sia nella versione originale, sia in quella importata in Italia, la guerra e l’intolleranza si sono sviluppate non già contro le sostanze proibite ma verso chi le utilizzava. Cominciò in quel modo e in quel tempo la bulimia del sistema penitenziario.
La filosofia del “fare raggiungere il fondo” ai tossicodipendenti per costringerli poi a risalire, teorizzata e praticata dalle strutture sostenitrici della necessità – anzi del valore – della punizione (non solo San Patrignano, ma anche altre, in particolare le comunità Incontro di don Pierino Gelmini) produsse presto effetti. Nefasti, non salvifici.
I dati mostrano che, ben prima di raggiungere quel “fondo” da cui eventualmente risalire, spinti a nascondersi e non rivolgersi ai servizi nel timore di essere denunciati, molti morivano o si infettavano di AIDS e in numero crescente finivano in prigione.
In Italia, al 31 dicembre 1990 i tossicodipendenti detenuti erano 7.299; sei mesi dopo erano già saliti a 9.623 per arrivare a ben 14.818 il 31 dicembre 1992. Cifre mai più reclinate: al 31 dicembre 2020 erano 18.757 le persone in carcere per violazione della legge sulle droghe.
Assieme, si intensificò proprio allora il numero di morti, che arrivò nel 1996 al picco storico dei 1.566, favorito dalla clandestinità cui la nuova legge costringeva i tossicomani, laddove anche i medici erano tenuti a segnalarli, a dispetto del rapporto di fiducia e delle regole deontologiche.
Il record dei decessi, tuttavia, non portò alcuna resipiscenza. Anzi, la madre della nuova disciplina, la ministra Iervolino, arrivò incredibilmente a dichiarare: «L’aumento dei decessi non rappresenta certo una smentita della validità della legge, anzi secondo me ha il valore di una conferma» (“La Repubblica”, 8 febbraio 1991). E, di fronte al disastro carcerario, tentò di scaricare l’intera responsabilità sui socialisti di Craxi: «Non siamo stati né io né la Democrazia cristiana a insistere perché chi consuma droga finisse in carcere. Anzi, il testo originario da me presentato non prevedeva questa misura. Poi altri partiti che voi ben sapete hanno insistito su quel punto» (“La Repubblica”, 10 novembre 1992).
Non è dunque la filosofia coercitiva o il rigore e il furore repressivo teorizzato e praticato da Muccioli e consacrato nella Iervolino-Vassalli ad aver “salvato” i giovani tossici. A parte la discutibilità del termine, rilanciato dal documentario, si potrebbe plausibilmente affermare il contrario.
La “linea guida” e l’idea forza che si è data il documentario, inoltre, condivide e rilancia un’altra falsa credenza – ovviamente e interessatamente accreditata a suo tempo da San Patrignano, ma non solo –, vale a dire che la comunità terapeutica, specie se chiusa e con regole rigide, fosse l’unica soluzione per “fare del bene”, per “guarire” e “salvare” dalla tossicodipendenza. Quando invece era, ed è, una sola delle possibili modalità, a fianco di diverse altre, non necessariamente comunitarie e non per forza residenziali. A partire dal fondamentale – ma in Italia storicamente penalizzato e disincentivato – pilastro dei servizi di riduzione del danno. La risposta terapeutica, per essere davvero efficace, deve infatti essere il più possibile mirata e individualizzata, poiché ogni storia di tossicodipendenza è una storia a sé, come insegnano decenni di esperienza dei servizi e come conferma la letteratura scientifica. Imporre soluzioni standardizzate – e magari corredate dall’ergoterapia, ovvero da lavoro gratuito su larga scala come a SanPa –, assieme alla complessiva filosofia punitiva e reclusiva, hanno costituito un approccio ideologico che poteva aggiungere al “male” un “male” di tipo diverso ma egualmente pernicioso per la persona.
Alle fatiche, rischi e sofferenze della condizione che si trovavano a vivere a causa della dipendenza, infatti, per decine di migliaia di persone si aggiunsero allora quelli della stigmatizzazione, della privazione della libertà, del maggior rischio di contrarre l’AIDS e altre malattie trasmissibili.
Maggior facilità di contagio che ha avuto come conseguenza una impennata delle morti. Quelle per AIDS sono rapidamente passate dalle 2 del 1983 al picco di 4.519 nel 1995. In quell’anno più nefasto, su 5.578 casi di contagio 3.386 hanno riguardato tossicodipendenti; dall’inizio della raccolta dei dati, nel 1982, al 1995, su un totale di 32.632 contagiati 21.195 erano consumatori di droghe per via iniettiva. Certo, sono morti per il virus e per le infezioni correlate, ma anche e assieme per la criminalizzazione dei propri comportamenti, per la mancata prevenzione, per il contrasto alle politiche di riduzione del danno, per la difficoltà di trovare siringhe pulite, per la costrizione a nascondersi, per l’imposizione preventiva dell’astinenza, onde poter ricevere cure o qualsiasi sostegno, e della comunità chiusa come unica soluzione valida per tutti. Insomma, per la sottrazione di ogni diritto e per la sciagurata filosofia del “fare toccare il fondo” portata avanti dai padrini dell’ideologia punitiva e tradotta nella legislazione.
Le testimonianze omesse
Chi entrava nella comunità di San Patrignano trovava non la morte ma la mortificazione, in particolare se di genere femminile. Come ben racconta ancora Gianluca Neri: «Un’altra cosa che mi è dispiaciuto non mettere nel documentario è sempre in quell’intervista al figlio di Villaggio, in cui lui a un certo punto dice “Avevo un capogruppo che la notte entrava nelle camerate, ne sceglieva sempre una e la violentava”».
Il produttore cita anche l’altra parte del racconto di Villaggio che è stata omessa e che è altrettanto significativa: «C’era un filmato in cui ospite di Red Ronnie criticava alcune cose di San Patrignano, Red Ronnie replicava che quelle erano un po’ le strategie di San Patrignano e lui rispondeva: “Sì, ma queste strategie mi hanno lussato la spalla”».
Sono numerose e dettagliate le testimonianze di violenze sistematiche che non vengono citate e riprese nel documentario e che sono invece facilmente reperibili sul sito https://www.lamappaperduta.com, promosso e gestito da persone che così si definiscono: «Alcuni di noi sono stati rinchiusi nelle strutture di cui si parla. Altri sono parenti di chi vi ha passato qualche anno e poi è tornato a casa. E poi ci sono i parenti di chi a casa non è mai tornato, perché ucciso o suicidato in seguito al “trattamento rieducativo” che gli era stato somministrato».
Uccisi e suicidati, morti dopo essere stati mortificati.
SanPa ricostruisce i suicidi di Gabriele Di Paola e di Natalia Berla accaduti a un giorno di distanza uno dall’altro nel marzo 1989, ma non si addentra su una successiva e tragica vicenda, quella di Fioralba Petrucci, anche lei precipitata da una finestra della comunità “satellite” di Civitaquana nel giugno 1992. Per inciso: quasi un anno prima che venisse alla luce l’omicidio di Roberto Maranzano, avvenuto il 3 maggio 1989 ma rivelato solo nel marzo 1993 – dunque successivamente alla morte di Fioralba – grazie alle rivelazioni di un ex ospite, Franco Grizzardi. Secondo testimonianze, Fioralba è rimasta uccisa il giorno prima di essere riportata a San Patrignano, dove non voleva tornare e dopo essere stata ripetutamente picchiata. “La Repubblica” del 12 novembre 1994, ricostruendo l’episodio, titolò «Fioralba sapeva troppo» e riferì le dichiarazioni della madre Antonietta: «Mi ha confidato di un omicidio avvenuto a Sanpa».
Da parte degli autori sono state dunque operate selezioni e scelte tanto più discutibili in un filmato che dura complessivamente ben cinque ore. Sono stati sacrificati materiali che avrebbero spostato in modo probabilmente significativo la percezione e la complessiva immagine che di Muccioli e del sistema San Patrignano si sono potuti fare quanti, specie se giovani, hanno visto e vedranno la serie di Netflix. In Italia e ancor più all’estero: SanPa è uscito in 190 paesi ed è stato tradotto in una trentina di lingue. Una grande operazione commerciale con investimenti impegnativi, che sicuramente hanno consigliato grande prudenza. Fatto sta che talune importanti “ombre” non sono state portate a conoscenza del pubblico.
Il prodotto cinematografico è sicuramente efficace: lascerà segni duraturi sull’immaginario e sedimenterà informazioni; che però, come stiamo vedendo, sono parziali e decontestualizzate.
Muccioli contro Basaglia, coazione contro libertà
Contestualizzare vuol dire anche ricordare il dibattito sociale, culturale, politico e scientifico dell’epoca. Il progressivo rafforzamento di San Patrignano, grazie al legame con alcuni partiti e uomini di governo e, ancor di più, per la fortissima sponsorizzazione da parte di quasi tutti i media, ebbe da subito il dichiarato obiettivo di cancellare la normativa sulle droghe del 1975. Di porsi come modello alternativo a quella e ad altre leggi varate negli anni Settanta o subito dopo: dalla legge 13 maggio 1978 n.180, detta Basaglia, sui trattamenti sanitari, alla legge 22 maggio 1978 n. 194 sull’interruzione di gravidanza; dalla legge 23 dicembre 1978 n. 833, che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale, alla legge 4 maggio 1983 n. 184 sui minori.
La rivoluzione basagliana aveva dato concretezza a un approccio sintetizzabile nell’affermazione programmatica: «La libertà è terapeutica». La chiusura dei manicomi fu una potente esemplificazione di quell’approccio, che non era ideologico o astratto ma scientifico e sociale; che aveva trovato radici e implementazione nell’esperienza psichiatrica di Gorizia e Trieste, ma che influenzava pure il campo delle tossicodipendenze e di ogni altro ambito delle istituzioni totalizzanti.
La legge del 1975 era stato l’esito di un percorso di sollecitazione e di battaglie che avevano visto tra i soggetti trainanti il Gruppo Abele di Torino e il suo intervento pionieristico di sostegno e cura delle persone tossicodipendenti. Quell’associazione, sorta già nel 1965, vale a dire 13 anni prima di San Patrignano, aveva aperto un “Centro-Droga”, aperto 24 ore al giorno, già nel 1973, vigente la legge sugli stupefacenti n. 1041 del 1954, che prevedeva per i tossicomani il carcere e l’ospedale psichiatrico, quando non l’elettrochoc. La lotta contro di essa, con scioperi della fame, tende in piazza, manifestazioni, incontri con le commissioni parlamentari portò infine alla legge n. 685, improntata a una filosofia diversa, non incentrata sulla risposta penale e psichiatrica ma su quella medica e sociale, educativa e solidaristica.
È contro quella filosofia che Muccioli da subito si scagliò, divenendo in breve l’alfiere, la testa di ponte e lo strumento delle forze politiche più retrive e conservatrici che volevano restaurare la risposta repressiva e contenitiva al consumo di droghe ma anche al disagio psichico e in generale alla devianza sociale. I suoi attacchi, che trovavano sempre ampia e compiacente accoglienza e rilancio da parte dei media, non riguardavano solo la presunta tolleranza verso i consumatori di droghe («con l’assistenzialismo e il permissivismo degli anni passati abbiamo fatto troppe volte il gioco del tossicodipendente», ANSA, 12 settembre 1990), ma pure la legge Basaglia («Si tratta di fare una legge che non sfoci nell’immoralità come la 180. Basta con la liceità di bucarsi, basta con il compiangere il tossicodipendente e concedergli la modica quantità», “Corriere della Sera”, 16 novembre 1988) e persino – si può dire coerentemente con quell’impianto di pensiero – la «cultura garantista ancora presente tra i giudici e tra gli insegnanti» (ANSA, 24 giugno 1991).
In evidenza, a dispetto delle semplificazioni mediatiche, si trattò allora non già della santificazione o demonizzazione di un uomo, ma di una complessiva battaglia politico-culturale, di una resa dei conti delle destre verso i lasciti progressisti e i diritti civili conquistati negli anni Settanta. E anche verso le differenti metodologie terapeutiche e riabilitative praticate dalla gran parte delle altre comunità (di cui nel documentario manca ogni pur minimo riferimento!) intese come ambito educativo e non come contenimento. Che valenza educativa ci poteva mai essere nella giustificazione dello stupro da parte di Muccioli, correttamente ricordata in SanPa?
Iniziò così in quegli anni una restaurazione autoritaria e disciplinare, che ora è da tempo compiuta. E che è ancora dominante, anche perché ha via via trovato sempre meno oppositori, convincendo e coinvolgendo nel corso dei quattro decenni trascorsi pezzi crescenti delle sinistre dell’epoca, convertiti all’ideologia securitaria e law & order di cui Muccioli fu indubbiamente un precursore. L’ordine sociale e la sicurezza dei cittadini, così intesi, presuppongono l’esclusione e il contenimento dei “nemici perfetti”, per dirla con Nils Christie, siano essi matti, tossici, senza tetto, mendicanti, prostitute di strada, giovani delle periferie, sovversivi.
Oggi quell’ordine regna sovrano. Un motivo in più per tornare, anche grazie a questa docu-serie, non già a dividersi tra demolitori ed estimatori di una figura che appartiene al passato bensì a ragionare su come riaprire una stagione di conquiste civili, dove libertà, diritti e dignità siano riconosciuti a tutti e vengano posti a fondamento del vivere collettivo.