Le fiction Rai prima della serie Netflix.
Alberto Abruzzese, in un’intervista della fine degli anni ‘80(( Cancrini, Corazzieri, Lombardo e Montanari, La morte apparente, drogati e spacciatori nella fiction televisiva, Edizioni RAI- VQPT, Torino, 1989.)), rispondendo alla domanda sull’effetto delle fiction che trattano il tema della “droga” sul pubblico televisivo, sosteneva l’importanza di tali trasmissioni nel fare uscire il tema dal ristretto ambito del giudizio morale: “se non ci fosse stata la finzione narrativa, probabilmente il pubblico non avrebbe mai colto la dimensione del fenomeno in termini sociali, al di fuori insomma dalla semplice questione morale.”(( Ibidem, pag. 69)). Abruzzese probabilmente fa riferimento sia alle serie poliziesche italiane e straniere, dove droghe e spacciatori abbondano (dalla Piovra all’Ispettore Derrick), sia agli sceneggiati televisivi (oggi diremmo miniserie) dedicate specificatamente al tema, e in particolare a Storia di Anna, del 1981, e Se un giorno busserai alla mia porta del 1986. Vediamone breve sinossi del primo.
Storia di Anna si svolge a Milano, la protagonista è una giovane borghese con una dipendenza da eroina e, nello sceneggiato, fa tutto quello che lo stereotipo dice facciano i “tossici”: tenta uno scippo ai danni di Roberto, studente, figlio di un primario e giocatore di rugby, che s’innamora della tentata scippatrice. Il mondo di Anna è fatto, tra gli altri, da un pittore che la mantiene e che muore di overdose e uno spacciatore di mezza età. Anna e Roberto tentano la convivenza ma si separano, Anna si prostituisce, torna incinta e con l’intenzione di smettere, ma un attacco cardiaco durante l’astinenza la uccide, nonostante l’intervento del padre di Roberto, primario.
Riassumendo: droga (eroina), tunnel, overdose, spacciatori, astinenza e morte; questa la filiera che attende chi usa “la droga”. Certamente la dimensione sociale, per dirla con le parole di Abruzzese, irrompe negli schermi, ma l’approccio morale permane eccome. Quindi, se questa è la narrazione (mass-mediologica, politica e sociale), tutto è consentito per salvare il drogato, tutto è consentito a chi vuole salvare il drogato.
La vigilia della Legge Vassalli-Russo Jervolino. Nell’audizione del 14 marzo 1990, di fronte alle Commissioni riunite seconda e dodicesima, dove si discute del testo che diventerà la legge 309 nell’ottobre dello stesso anno, Vincenzo Muccioli afferma: “Dobbiamo infatti considerare che nel tossicodipendente sono particolarmente potenziati alcuni elementi del carattere: la protervia, l’arroganza, la convinzione che tutto sia lecito e tutto sia dovuto”. E più avanti: “Non credo si possa imporre al tossicodipendente un sistema terapeutico; possiamo però determinare il tossicodipendente a chiedere un servizio; non si tratta di un espediente subdolo per convincerlo al recupero, ma di uno strumento per portare il giovane, caduto nella irresponsabilità più profonda, alla responsabilizzazione”.
Anna è proterva e arrogante, considera tutto lecito e che tutto le sia dovuto, anche rubare e prostituirsi: cosa fare? Certamente non imporre un sistema terapeutico, ma portare la giovane Anna alla responsabilizzazione, determinarla a chiedere un servizio. Insomma, non imporre, ma cambiare la legge per imporlo. Non so se, per usare le parole di Muccioli, si tratti di un espediente subdolo, ma ci assomiglia.
Nella stessa sede è ascoltato anche Giovanni Cordova, del MUVLAD, che si esprime sulla legge 685/75 e su ciò che definisce “convivenza con la droga”: “la legge n. 685 del 1975, ispirata ad una chiara filosofia di «convivenza» con la droga, non è riuscita nell’intento di attenuare gli effetti negativi del fenomeno della tossicodipendenza. In sostanza, si è introdotta una filosofia priva di efficacia, alla quale, tuttavia, si sono ispirati il mercato, il servizio pubblico e le stesse comunità terapeutiche”. Molti di noi non l’avevano percepito, ma negli anni ’80 e ’90 in Italia si era scelta la via della convivenza con la droga. Singolare affermazione quella del rappresentante del MUVLAD, alla luce dei tanti morti provocati dalla politica di guerra alla droga, quella sì la vera filosofia ispiratrice delle politiche sul tema, come anche della stampa e della televisione, pubblica e privata.
La gran parte dei media italiani, non solo televisivi, consciamente o inconsciamente, hanno adottato da sempre la filosofia della war on drugs, scegliendo spesso uno stile “combat”, “embedded” e rinunciando troppo frequentemente a quel ruolo critico che dovrebbe appartenergli. Titoli e corredi iconografici che hanno accompagnato gli articoli della carta stampata e le immagini dei servizi televisivi, rendono evidente tale scelta, con poche, sparute eccezioni.
Ma nonostante una comunicazione pubblica tutta impegnata a condannare e stigmatizzare le droghe e i consumatori, per il campione italiano della proibizione ancora non basta: “Un’ulteriore esigenza è quella di disporre di una corretta informazione, dal momento che l’uso di droghe leggere è riconducibile ad intendimenti culturali diversi rispetto a quelli che inducono ad assumere droghe pesanti. Occorre considerare, tuttavia, che nel nostro sistema le prime non sono addirittura considerate droghe e che le cosiddette droghe pesanti possono essere assunte periodicamente, se, opportunamente «gestite». Questa situazione di lassismo e di permissivismo contribuisce ad ingigantire il problema, privandoci gradualmente degli strumenti più efficaci per condurre una lotta adeguata” (Audizione Muccioli 1990).
No, le foto no.
La storia narrata nella serie di Netflix “SanPa: luci e tenebre di San Patrignano”, si incarica di ricordare quali siano stati gli strumenti più efficaci per condurre la lotta alla droga, secondo la visione di Muccioli. Una serie di successo che, per un periodo, ha riportato al centro dell’interesse del grande pubblico la vicenda della comunità terapeutica più grande d’Europa, ri-tribalizzando gli italiani tra coloro che “le catene sono meglio della morte” e chi crede ancora nello stato di diritto, tra coloro che “i tossicodipendenti hanno la facoltà di intendere ma non di volere” e chi reputa una tale affermazione un mostro del pensiero. Non è questa la sede per ripercorrere la vicenda giudiziaria, né vale la pena fare l’elenco dei giornalisti e personaggi famosi che si definivano “soldati di Muccioli”, anche davanti al corpo martoriato di Roberto Maranzano, avvolto in una coperta della comunità e scaricato come immondizia a Terzigno. San Patrignano ha goduto sempre di ottima stampa, a partire dal foglio del decano dei giornalisti italiani, Indro Montanelli. Una stampa che, in modo innaturale e omissivo, non usa le fotografie scattate dai carabinieri durante un’irruzione del 1983, immagini che, se si fosse trattato di altro soggetto, sarebbero state riproposte per settimane sui media cartacei e televisivi. Come scrive Enrico Deaglio su DopoDomani, fotografie scioccanti, di “ragazzi incatenati alle caviglie e abbandonati in piccionaie, magazzini, tinozze, depositi di animali morti; sporchi, smagriti con segni di ferite, gli occhi chiusi o spalancati, non più abituati alla luce…”. Queste testimonianze visive vengono semplicemente ignorate, rimosse, censurate, da il Giornale come da la Repubblica o dal Corriere della Sera. Fotografie che testimoniano episodi di cui Muccioli non sembra vergognarsi, anzi, metodi da rivendicare. In un instant book((AA.VV., Droga, un nemico che si può vincere, un’inchiesta dell’Avanti, supplemento al n. 3 di “Argomenti Socialisti”, Sugarco, 1989.)) del marzo 1989, con la presentazione di Bettino Craxi, Muccioli scrive: “Il tossicodipendente non è qualcuno da soccorrere con la carità, non è uno da compatire. È un individuo da assistere per consentirgli di vincere una battaglia che da solo non è in grado di vincere. Per farlo non serve la teoria, ci vogliono dei programmi. Non importa quali, purché si tratti di programmi concreti, ed abbiano tutti come base comune la difesa dell’uomo e della vita”. E l’estensore del capitolo aggiunge: “E’ una battaglia immane, che comporta delle durezze”. E in effetti, le catene sono, a loro modo, una forma di programma concreto.
Ma a prescindere dal “metodo” terapeutico della San Patrignano di Muccioli Padre, le responsabilità del fondatore vanno ben oltre le violenze praticate sulla collina. Interpellato da Peter Gomez, Gad Lerner esprime un giudizio condiviso da buona parte della policy community sulle droghe: “Muccioli? Da condannare: ispirò una legge che riempì le carceri di tossicodipendenti”. E basta leggere questo e i precedenti libri bianchi per trovarne conferma. Di più: il suo ostracismo verso l’uso del metadone a mantenimento, verso le politiche di riduzione del danno, l’insofferenza e i giudizi di inefficacia dei Ser.T., la sua visione delle donne e degli uomini che usano droghe, hanno influenzato il decisore politico, impedendo lo sviluppo di un network organizzativo plurale in grado di affrontare un fenomeno complesso, ostacolando la nascita di una cultura libera dall’approccio morale e perpetrando lo stigma verso i consumatori di droghe e le persone dipendenti. Il mantra ripetuto sino alla noia è “Muccioli ha salvato centinaia di ragazzi!”: la realtà è che il suo approccio ne ha condannato decine di migliaia al carcere e li ha esposti a rischi legali e sanitari imponenti; soprattutto, non ha aiutato questo Paese a fare i conti, seriamente e laicamente, con un fenomeno non affrontabile con l’ideologia, con l’approssimazione e con la negazione del rispetto verso coloro che oggi, con un acronimo, chiamiamo Pud, Persone che usano droghe.
Una storia di dipendenti in una fabbrica senza dipendenti (retribuiti).
La monumentale ricerca di Guidicini e Pieretti su San Patrignano((P. Guidicini G. Pieretti, San Patrignano tra Comunità e Società, Franco Angeli, Milano, 1994)), su 750 pagine ben 76 sono dedicate al lavoro, in tre diversi capitoli e 56 tabelle: Cap. 2, “Il soggetto e l’impatto con la Comunità” (5 paragrafi), Cap. 6, “La dimensione del “lavoro” nel nuovo rapporto con la società” e Cap. 8, “Comunità e Società: una dicotomia irriducibile” (3 paragrafi). Il fatto che, nel titolo del capitolo 6, il lemma lavoro sia indicato tra virgolette, viene da pensare che sia un estremo tentativo di difendere la dignità dei ricercatori; ma ho i miei dubbi. Quello su cui possiamo essere certi, è che in 76 pagine non compare neanche velatamente il lemma retribuzione, con o senza virgolette. Compaiono però i “laboratori”: restauro, fotolito, vinificazione, viticoltura, allevamento cani, pellicceria, panificazione, caseificio, allevamento conigli, bovini, suini, ovini, vitelli, ortoflorovivaistica, fabbri, tessitura, mangimificio, falegnameria, allevamento gatti, lavanderia, ceramica, scuderia…eccetera.
Vale la pena di ricordare che i prodotti di SanPa non venivano venduti nei mercatini rionali, ma nella grande distribuzione a prezzi concorrenziali, potendo contare su una manodopera non retribuita. Guidicini e Pieretti, evidentemente, non erano interessati a indagare questa specifica area problematica, anche quando, rispondendo alla domanda: “Quali sono le cose che quando è entrato a S. Patrignano l’hanno colpita di più in negativo?”, qualcuno risponde “si lavorava troppo”, oppure “il ritmo di lavoro”, o ancora “turni troppo pesanti”. Preferiscono, gli autori, tematizzare il lavoro a SanPa “…come fatto morale (e dunque coesivo)…”((Ibidem, pag.255.)), e “che esso appare non in termini di ergoterapia, di Arbeit mach frei, di fine ultimo. È una regola morale, il lavoro, nell’immagine che i ragazzi hanno della Comunità, non una regola tecnica. È un mezzo e non un fine”((Ibidem, pag 273.)). Fine.
Post-scriptum
Dello sceneggiato Storia di Anna se ne fece un remake, Storia di Laura, che andò in onda nel 2011: siamo nel nuovo secolo, la protagonista è madre e gioielliera, insoddisfatta e depressa, la droga non è più l’eroina ma la cocaina, lo spacciatore è anche violentatore; Laura ha un incidente automobilistico con i due figli a bordo e i successivi esami tossicologici rivelano il suo consumo di coca e motiva la cacciata di casa da parte del marito. Centro di disintossicazione, rinascita, redenzione, nuova vita. Dal 2008 Serpelloni e Giovanardi dirigono il Dipartimento Politiche Antidroga, osteggiano la riduzione del danno, nel Paese imperversa la legge n. 49 del 2006 (c.d. “Fini-Giovanardi”), le droghe leggere sono trattate come quelle pesanti, Stefano Cucchi muore assassinato a Roma il 22 ottobre 2009; grazie alle foto scattate con grande coraggio e alla determinazione della sorella Ilaria, il 7 maggio 2021 La Corte d’Assise d’appello di Roma ha condannato a 13 anni di carcere per omicidio preterintenzionale due carabinieri. Giovanni Serpelloni, già a Capo del Dipartimento Nazionale Antidroga, il 13 febbraio 2020 viene condannato a 7 anni e 6 mesi di carcere, per tentata concussione.