Premessa
Si fa qui il punto sulle proposte pendenti in merito di modifica dello spaccio di lieve entità (art. 73, 5° comma TU 309/1990), presentate le prime nel 2019, e una ulteriore nel 2021. Si indica l’importanza della modifica legislativa alla luce del concreto funzionamento della fattispecie di lieve entità, per come è emerso da alcune ricerche svolte nell’ultimo decennio. Nelle proposte è presente anche una norma volta alla legalizzazione della coltivazione domestica di cannabis per uso personale, che se approvata sarebbe un importante punto di arrivo per fare chiarezza sulla disciplina applicabile dopo la sentenza delle Sezioni Unite del 2020.
Verso un testo unificato per la modifica della fattispecie di lieve entità
Nelle recenti sedute della Commissione Giustizia della Camera del 12 e 20 aprile di quest’anno si è deciso l’abbinamento della proposta di legge Licatini (A.C. 2965) alle, già precedentemente abbinate, proposte di legge Molinari (A.C. 2160) e Magi (A.C. 2307). È stato altresì conferito l’incarico al relatore on. Morrone di individuare un testo base per il proseguimento dell’esame in sede referente, senza la necessità di effettuare un ulteriore ciclo di audizioni, poiché la proposta Licatini riguarda materia già compresa nelle precedenti proposte.
Le tre proposte hanno come obiettivo la modifica della regolamentazione della fattispecie di lieve entità e la sistematizzazione della coltivazione di marijuana per uso esclusivamente personale come comportamento legittimo, alla luce della sentenza SS.UU. Cassazione n. 12348/2020.
La norma attualmente in vigore sulla lieve entità (art. 73, 5° comma del DPR 309/1990) prevede un’unica fattispecie, senza distinzione tra “droghe leggere” e “droghe pesanti”, punita con la reclusione da sei mesi a quattro anni e la multa da euro 1.032 a 10.329, e le proposte Magi e Molinari intendono modificarla.
La proposta di legge Magi prevede l’introduzione di una fattispecie di lieve entità collocata in un articolo distinto, il nuovo art. 73-bis, co. 1, rispetto alla fattispecie ordinaria, nonché la differenziazione del regime sanzionatorio a seconda della sostanza, inserendo pene con intervalli differenti per “droghe leggere” e “droghe pesanti” (proposte la pena della reclusione da tre a due anni e multa fino a 10.000 per droghe pesanti e reclusione da un mese a un anno e multa fino a 2.000 euro per droghe leggere). La proposta Magi ha ripreso in parte una proposta più ampia di modifica della Legge sulle droghe, perché è stata presentata allo scopo di essere abbinata e discussa insieme alla proposta Molinari, presentata dalla Lega, e infatti le due proposte sono state abbinate già lo scorso anno.
La proposta Molinari ha lo scopo di criminalizzare maggiormente lo spaccio di lieve entità, prevedendo l’aumento delle pene minima e massima, che verrebbero modificate nella reclusione da tre a sei anni e della multa da 5.000 a 20.000. Permetterebbe poi l’arresto in flagranza in ogni caso, senza necessità di giustificazione, tramite l’eliminazione dell’eccezione del 5° comma dalla specifica fattispecie di arresto in flagranza prevista dall’art. 380, comma 2, lett. h. Inoltre, ammetterebbe in via generale la misura cautelare della custodia in carcere per fatti di lieve entità, come conseguenza dell’innalzamento della pena edittale massima a sei anni, visto che per i reati puniti con la pena non inferiore nel massimo a cinque anni l’art. 280 c.p.p. permette la custodia in carcere.
La proposta Magi va dunque in direzione opposta alla proposta Molinari. Se dovessero essere approvate le modifiche proposte da quest’ultima, ci si può aspettare un notevole incremento degli ingressi e delle presenze in carcere, con conseguenze disastrose sul sovraffollamento.
La proposta Licatini prevede un unico articolo da introdurre, il 75-ter, che disciplinerebbe l’attività di coltivazione di cannabis, di minime dimensioni e svolta in forma domestica per l’uso esclusivamente personale del coltivatore, come fattispecie permessa, a cui non si applicherebbero né le sanzioni penali (art. 73) né quelle amministrative (art. 75). Già la proposta Magi aveva previsto l’introduzione della non punibilità per la coltivazione di un numero limitato di piante, finalizzate all’uso esclusivamente personale.
Pur partendo da approcci politici e culturali opposti, le proposte trovano un punto comune nella volontà di contrastare il traffico illecito di stupefacenti, soprattutto nelle sue forme più gravi e dannose, come evidenziato dall’on. Magi nel dibattito in Commissione giustizia, da cui si può partire per la redazione di un testo condiviso (verbale seduta 20 aprile, p. 74), sul quale aprire il dibattito parlamentare.
Nelle parole dello stesso on. Magi, a cui abbiamo chiesto una dichiarazione: “L’esame in commissione Giustizia alla Camera di una proposta a mia prima firma ma sottoscritta da circa trenta deputati di diversi gruppi, è un’occasione per tentare di apportare una modifica puntuale e urgente all’art. 73 del Testo unico dedicando un articolo autonomo alle fattispecie di lieve entità con contestuale significativa depenalizzazione delle stesse e distinzione tra le varie sostanze. Contestualmente si propone di sancire la non punibilità della coltivazione domestica di cannabis per uso personale. L’esame in commissione – che vede trattate congiuntamente questa proposta con altra di segno opposto (presentata dalla Lega) e cioè volta a punire ancor più pesantemente i fatti di lieve entità – è attualmente sospeso in attesa che il relatore depositi un testo base”.
Di seguito si ripercorrono le ragioni per cui è importante modificare la fattispecie dello spaccio di lieve entità nel senso della proposta Magi, con uno sguardo alla giurisprudenza sulla distinzione tra “droghe pensanti” e “droghe leggere”, e sulla coltivazione personale di marijuana.
Un po’ di storia della fattispecie di lieve entità
L’art. 73, comma 5, fattispecie di lieve entità è stata introdotta nel Testo Unico D.P.R. n. 309 del 1990 sin dalla sua emanazione, con lo scopo di attenuare il regime sanzionatorio molto severo stabilito dai commi precedenti del medesimo articolo. Nel caso in cui «per i mezzi, per le modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze» i fatti siano di «lieve entità» anche la pena è più lieve.
Già la precedente legge in materia di sostanze stupefacenti (Legge 685 del 1975) prevedeva una fattispecie, autonoma, di minore gravità (art. 72), relativa alle stesse condotte previste nel precedente art. 71, ma punite meno rigidamente perché riferite a «modiche quantità» di stupefacente, destinate allo «uso personale non terapeutico di terzi».
La fattispecie di lieve entità introdotta nel TU del 1990 era stata invece qualificata dalla giurisprudenza come circostanza attenuante. E la pena originariamente stabilita era differenziata per tipologia di sostanza: da sei mesi a quattro anni di reclusione, con multa da due milioni a venti milioni di lire, per il caso di condotte aventi ad oggetto sostanze inserite nelle tabelle di classificazione degli stupefacenti II e IV (“droghe leggere”), e da uno a sei anni di reclusione, con multa da cinque milioni a cinquanta milioni di lire, per sostanze inserite nelle tabelle I e III (“droghe pesanti”).
Con la Legge Fini-Giovanardi il Testo Unico è stato radicalmente modificato nel 2006, eliminando la distinzione tra “droghe leggere” e “droghe pesanti”, che proveniva dalla Legge del 1975 e che il Testo Unico del 1990 aveva mantenuto. Anche l’attenuante prevista dall’art. 73, comma 5 è stata modificata in questo senso, con l’introduzione di un’unica fattispecie sanzionata con la reclusione da uno a sei anni e la multa da euro 3.000 ad euro 26.000.
La Legge Fini Giovanardi è stata dichiarata incostituzionale nel 2014, e la Corte Costituzionale ha precisato che dovevano trovare nuovamente applicazione il testo dell’art. 73 e le tabelle previgenti alle modifiche del 2006, perché mai validamente abrogati. Si è tornati così alla distinzione sanzionatoria tra “droghe leggere” e “droghe pesati”, ma non nel caso della fattispecie di lieve entità. Il comma 5 infatti non è stato toccato dall’intervento della Corte Costituzionale (come espressamente chiarito nella stessa sentenza n. 32 del 2014 e nella successiva n. 179 del 2017) in quanto, poco prima della sua pronunzia tale disposizione era stata nuovamente modificata dal decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10), con lo scopo dichiarato di trasformare la disposizione in una fattispecie autonoma di reato. Il decreto-legge aveva la funzione di deflazione della popolazione penitenziaria, a cui la qualificazione come fattispecie autonoma poteva contribuire, sottraendo la lieve entità del reato al giudizio di bilanciamento con eventuali aggravanti. Con la stessa norma era stata inoltre rimodulata la pena nella reclusione da uno a cinque anni.
Con un ulteriore intervento legislativo sono stati ridisegnati i cataloghi delle sostanze stupefacenti, poiché quelli fatti rivivere dalla Corte – e cioè quelli antecedenti alla riforma del 2006 – non comprendevano le integrazioni fatte negli anni successivi. A questo scopo è stato emanato il decreto-legge 20 marzo 2014, n. 36, nella cui legge di conversione (16 maggio 2014, n. 79) è stata inserita anche una nuova modifica del comma 5 dell’art. 73: il trattamento sanzionatorio, rimodulato in senso più favorevole entro la forbice edittale della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da 1.032 a 10.329 (che corrisponde alla medesima pena stabilita nel 1990 per l’attenuante nel caso il fatto di lieve entità avesse avuto ad oggetto droghe “leggere”).
Il funzionamento concreto della sanzione per i fatti di lieve entità: ingressi in carcere ed estensione dello spazio sanzionatorio
Per comprendere la necessità di operare una modifica legislativa nel senso indicato dall’on. Magi, è utile guardare a qual è il funzionamento concreto del comma 5° dell’art. 73. Qual è lo scarto che esiste tra la fattispecie ideale e quella che emerge dall’applicazione effettiva della norma?
Lo scopo della norma è quello di penalizzare in modo più lieve i fatti considerati di minore intensità criminale, innanzitutto attraverso l’applicazione di una pena più bassa. Ma non solo, attraverso una pena più bassa, si tende anche a ridurre al minimo l’ingresso in carcere, in fase cautelare, processuale ed esecutiva.
In fase cautelare, non è obbligatorio procedere all’arresto in flagranza per la fattispecie di lieve entità (art. 380, co. 2, lett h) c.p.p.), anche se è possibile l’arresto facoltativo nei casi in cui si riscontrino gli elementi della gravità del fatto o della pericolosità del soggetto, desunta dalla sua personalità o dalle circostanze del fatto (art. 381 c.p.p.), ma la sussistenza di tali elementi dovrà essere giustificata in fase di convalida davanti al giudice dalla polizia giudiziaria che ha proceduto all’arresto. Inoltre, non è possibile disporre la custodia cautelare in carcere per chi sia imputato di un delitto ex art. 73, 5°, perché la custodia in carcere può essere applicata solo per i delitti puniti con pena non inferiore nel massimo a cinque anni (art. 280, 2° co. c.p.p.).
In fase processuale è possibile applicare la messa alla prova (art. 464‐bis c.c.p.), e sostituire il procedimento penale con un periodo di lavoro di pubblica utilità, poiché il limite di pena edittale massimo per l’accesso a questa misura è di quattro anni, e dunque il reato previsto dal 5° comma vi rientra. Oppure, come sanzione sostitutiva della pena, può essere applicato il lavoro di pubblica utilità previsto dal co. 5 bis del medesimo art. 73, nel caso si tratti di persona tossicodipendente o assuntore di sostanze stupefacenti.
In fase esecutiva è possibile non entrare in carcere e richiedere subito una misura alternativa alla detenzione, se la pena comminata è inferiore a tre, quattro o sei anni a seconda della misura richiesta (art. 656 c.p.p.), oppure uscire in misura alternativa dopo un periodo di detenzione con la detenzione domiciliare, l’affidamento in prova ordinario o l’affidamento terapeutico.
Fin qui, quanto previsto dalle norme nei codici e nelle leggi.
Alcune ricerche svolte negli ultimi dieci anni hanno cercato di mostrare il funzionamento concreto di queste norme. Ne sono emerse le dinamiche reali nell’applicazione delle disposizioni sui fatti di lieve entità, che portano a risultati divergenti, a volte opposti, rispetto a quelli voluti dalla legge. L’indice più evidente di questa discrasia è la presenza, non occasionale, in carcere di imputati e condannati per art. 73, 5°. Vi sono certamente cause riconducibili a condizioni strutturali, da cui viene riprodotta e intensificata la diseguaglianza sociale: quando per esempio la gran parte dei detenuti per art. 73 non può accedere agli arresti domiciliari, se imputato, o alle misure alternative, se condannato, per la mancanza di un domicilio presso il quale concedere la misura.
Ma vi sono anche modalità applicative della legislazione antidroga che ne favoriscono l’utilizzo ampio, come una cultura diffusa tra le forze dell’ordine e le Procure, e che sembrerebbe essere presente nell’interpretare i parametri di legge, volta a ritenere in generale preferibili l’arresto e la custodia cautelare in carcere, piuttosto che denunce a piede libero e arresti domiciliari. Un risultato è evidenziato da tutte le ricerche condotte: la casistica mostra come le forze dell’ordine procedano all’arresto obbligatorio dei soggetti colti in flagranza, nell’atto di commettere una cessione di sostanze stupefacenti o psicotrope, o nel possesso di elementi connessi a tale delitto, anche quando i quantitativi delle sostanze suddette siano modesti; agli arrestati viene contestata la violazione di cui all’art. 73, co. 1 o 4, perché a questa è collegato l’arresto obbligatorio, del quale la polizia giudiziaria non deve giustificare l’applicazione al giudice per le indagini preliminari; nel caso invece di imputazione ex art. 73, 5° co. sarebbe necessario dare giustificazioni dell’arresto facoltativo, motivando in base alla gravità del fatto o alla pericolosità dell’autore. Una volta sottoposto ad arresto per le fattispecie più gravi, e convalidato l’arresto da parte del giudice per le indagini preliminari, sarà facoltà del giudice stesso anche applicare la custodia cautelare in carcere, che, con un’imputazione ex art. 73, 1° e/o 4° comma, è decisamente possibile.
Il risultato a cui porta l’utilizzo di queste prassi è “un ingresso massiccio nel circuito penitenziario di soggetti che si rendono responsabili di delitti di scarsa pericolosità sociale”, contrariamente a quanto le norme in materia di lieve entità vorrebbero ottenere.
Un altro risultato importante emerso dalle ricerche, e approfondito nell’intervento di Massimo Urzi nell’XI Libro Bianco, riguarda l’estensione dello spazio sanzionatorio a cui si assiste con l’utilizzo della lieve entità. Guardando alle serie storiche delle condanne comminate dal Tribunale di Firenze per art. 73, suddivise nelle fattispecie previste dai vari commi, quindi a seconda della gravità del reato, si osserva che i dati nella serie storica 2013-2017 mostrano un uso sempre più intenso dell’art. 73, co. 5° come parametro di accertamento del reato: dalle 145 condanne del 2013 si sale, con un aumento progressivo e costante negli anni, alle 463 del 2017. Accanto a questo dato resta però sostanzialmente costante quello delle condanne per i delitti previsti dagli altri commi dell’art. 73, cioè per tutti i fatti di non lieve entità: si passa dalle 424 condanne del 2013, attraverso oscillazioni poco importanti, alle 480 condanne del 2017.
Ne emerge che l’uso della fattispecie di lieve entità, soprattutto nella sua configurazione come ipotesi autonoma di reato, sembra aver portato a un aumento della quantità dei comportamenti penalizzati: alle condanne per reati ordinari, che sono rimaste sostanzialmente costanti (aumentate di poco), si sono sommate le condanne per fatti di lieve entità, che sono più che triplicate. L’auspicio era piuttosto che la fattispecie di lieve entità, soprattutto declinata in forma di fattispecie autonoma, servisse a ridurre l’impatto delle più importanti sanzioni comminate per la fattispecie non lieve. Dal dato numerico si può invece ipotizzare che le condanne per fatti di lieve entità non siano andate a qualificare in modo meno grave fatti che prima erano qualificati come non lievi, ma piuttosto che abbiano qualificato come fatti di lieve entità, quindi come reati, comportamenti che precedentemente restavano fuori dell’area penale, con l’effetto di un’estensione complessiva dell’area sottoposta a controllo penale.
Si tratta di un dato parziale e ipotetico, che richiederebbe un approfondimento della ricerca. Sarebbe utile estendere l’indagine sia spazialmente, a livello nazionale, o a livello di alcune Regioni più significative, che temporalmente, per raccogliere i dati relativi agli anni più recenti. Nonché, attraverso l’esame dei fascicoli, verificare se l’ipotesi ha un suo riscontro effettivo.
Tuttavia, questi risultati ci danno tre indicazioni importanti, per andare sulla strada tracciata dalla proposta di legge Magi.
La prima è che il cambiamento della qualificazione del comma 5° da attenuante a fattispecie autonoma non è stato sufficiente ad ottenere l’effetto desiderato, perché non ha influito sulla cultura degli attori che danno vita alle prassi applicative. In questo senso la modifica legislativa dell’art. 73, 5° comma, porta con sé l’auspicio che un maggior rigore testuale sia d’aiuto nell’applicazione della legge. In particolare, la previsione di spostare la fattispecie contenuta nel 5° comma dell’art. 73 in un nuovo articolo 73-bis, crede che la collocazione separata, anche dal punto di vista sistemico aiuti a percepirla come fattispecie autonoma. Dovrebbe così essere più difficile procedere a classificazioni generiche di art. 73, nel momento in cui si procede all’arresto o si formula l’imputazione.
La seconda riguarda l’arresto in flagranza di reato: la proposta Magi mantiene la facoltatività dell’arresto in flagranza, che applicato su una fattispecie prevista da un articolo separato dovrebbe comportare un’applicazione più aderente ai requisiti di legge. La proposta Molinari va invece nella direzione opposta, prevedendo l’arresto obbligatorio in flagranza anche per lo spaccio di lieve entità, legittimando così le diffuse prassi esecutive che, come si è visto, portano in carcere più di quanto la norma vorrebbe.
La terza: nella prospettiva di ridurre l’ingresso e la permanenza in carcere di soggetti che sono anche dipendenti o assuntori di sostanze, è importante dare più ampia attuazione alle opzioni di affidamento all’esterno previste dai commi 5-bis e 5-ter dell’art. 73, che invece, la proposta Molinari prevede di abrogare. Il comma 5-bis prevede che, nel caso il fatto di lieve entità sia commesso da chi è tossicodipendente o assuntore, il giudice possa sostituire la pena con il lavoro di pubblica utilità. E il comma 5-ter prevede che lo stesso trattamento possa essere applicato al tossicodipendente/assuntore anche nel caso in cui abbia commesso un reato diverso e gli sia stata comminata una pena non superiore ad un anno di detenzione. Queste norme hanno lo scopo di offrire concrete opportunità di reinserimento, e piuttosto che abrogarle si dovrebbe lavorare per far sì che ricevessero un’applicazione più diffusa e sistematica di quella attuale, cercando di individuare quali sono gli ostacoli. Infatti, dai dati degli Uffici esecuzione penale esterna emerge che sono una minima parte, tra i provvedimenti di lavori di pubblica utilità, quelli motivati in base agli artt. 5-bis e 5-ter dell’art. 73: a livello nazionale erano in corso alla fine del 2018 in tutto 7429 lavori di pubblica utilità, dei quali solo 470 trovavano la loro giustificazione nel comma 5-bis, o nel 5-ter). L’abrogazione di questi articoli avrebbe inoltre l’effetto non secondario di incrementare ulteriormente gli ingressi e le presenze in carcere.
Sulla differenziazione della pena a seconda delle sostanze
Nella proposta di legge Magi si prevede di differenziare le pene a seconda dell’appartenenza tabellare delle sostanze rinvenute, per mettere in evidenza la diversa gravità del comportamento, che si fonda sul diverso grado di pericolosità per la salute delle sostanze vietate. Si pensa sia importante sottolineare il minor disvalore riconosciuto alla condotta volta solo allo spaccio di “droghe leggere”, in virtù del danno minore o inesistente per la salute che queste provocano. A questo si aggiunge il dato di fatto che spesso la vendita di sole droghe leggere è una pratica svolta anche dagli stessi consumatori, che per potersi approvvigionare in modo costante comprano quantità più elevate rispetto a quelle consumate quotidianamente, anche facendo acquisti di gruppo e poi dividendo le quote. Questo gruppo di autori di reato, i consumatori, è tale solo a causa delle scelte repressive in materia di droghe, ovvero non entrerebbe affatto nel sistema penale se l’acquisto di “droghe leggere” fosse permesso legalmente, ma andrebbe dal tabaccaio come fanno i consumatori di tabacco, oppure potrebbe coltivare marijuana liberamente, in modo autonomo o associato.
Merita ricordare che la distinzione tra “droghe leggere” e “droghe pesanti” dal punto di vista sanzionatorio nasce con la Legge del 1975, viene mantenuta nel Testo unico del 1990, e resta in vigore fino al 2006. In quell’anno la Legge Fini-Giovanardi cambia l’impostazione, abolendo la distinzione per tutte le fattispecie, ordinarie e attenuate. Fino al 2014, quando con la sentenza della Corte Costituzionale e gli interventi normativi concomitanti viene ripristinata la distinzione tra “droghe leggere” e “droghe pesanti”. Ma ciò accade solo per le fattispecie ordinarie, mentre la fattispecie di lieve entità resta indistinta riguardo alla tipologia delle sostanze e viene ridisegnata come un reato autonomo e non più una circostanza attenuante.
Su questo quadro si è espressa la Corte Costituzionale nel 2016. La Corte era stata investita della questione di legittimità del 5° comma dell’art. 73, che veniva censurato per la mancata distinzione di pena a seconda del tipo di sostanza, che invece è presente, a seguito della Sentenza 32/2014, nella fattispecie ordinaria.
La Corte Costituzionale, con la sentenza 23/2016, dichiara la questione inammissibile, in base alla considerazione che con essa si chiede alla Corte un intervento additivo in materia penale, in assenza di soluzioni costituzionalmente obbligate, richiesta che, esorbita dai poteri spettanti al giudice delle leggi.
La Corte afferma che non è necessario rispettare una simmetria sanzionatoria tra fatti non di lieve entità e fatti di lieve entità, visto che il 5° comma dell’art. 73 consiste in una fattispecie autonoma. E “dunque non vi è necessità di riprodurre la medesima distinzione tra pene differenti a seconda delle sostanze, come avviene nella fattispecie non lieve, mantenendo una simmetria sanzionatoria tra fatti di lieve entità e quelli non lievi, ma può la fattispecie di lieve entità essere unica e venire modulata in intensità punitiva dal giudice, anche tenendo conto del tipo di sostanza”. Dunque, l’autonomia della fattispecie e la possibilità del giudice di modulare nel caso concreto la pena anche a seconda della sostanza sono le argomentazioni utilizzate dalla Corte per salvare la costituzionalità del 5° comma come fattispecie indistinta.
Nell’applicazione della norma si è posto il caso concreto di come inquadrare la pluralità di sostanze detenute. Si è posta la questione dell’applicazione o meno della fattispecie di lieve entità, sulla quale si sono espresse le Sezioni Unite della Cassazione, che nel 2018 hanno risposto al quesito “se la diversità di sostanze stupefacenti, a prescindere dal dato quantitativo, osti alla configurabilità dell’ipotesi di lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990 e, in caso negativo, se tale reato possa concorrere con le fattispecie previste ai commi 1 e 4 del medesimo art. 73 d.P.R. cit.”.
Vi era il contrasto tra due orientamenti giurisprudenziali. Il primo, che riteneva la pluralità di sostanze rinvenute un indice, di per sé, di fatti di non lieve entità: “la diversità qualitativa dello stupefacente è circostanza che, da sola, esclude la minima offensività del fatto, perché esprime l’attitudine della condotta a rivolgersi ad un cospicuo e variegato numero di consumatori e la sua capacità di penetrazione nel mercato” (considerato in diritto 4.1.). Il secondo, che non riteneva necessariamente esclusa l’applicabilità del 5° comma in caso di pluralità di sostanze, ma rimetteva a una valutazione nel caso concreto dell’effettiva portata criminale del fatto: “la diversa tipologia di sostanze detenute o cedute non sarebbe un dato necessariamente ostativo alla configurabilità della fattispecie di lieve entità, qualora le peculiarità del caso concreto risultino indicative di una complessiva minore portata dell’attività svolta, essendo l’elemento della diversità tipologica idoneo ad escludere l’ipotesi del fatto lieve soltanto qualora sia dimostrativo di una significativa potenzialità offensiva” (considerato in diritto 4.2.).
Le Sezioni Unite hanno fatto proprio il secondo orientamento, considerandolo più aderente alla lettera e alla ratio dell’art. 73, 5° comma. Un elemento fondante della decisione è la considerazione della funzione della fattispecie di lieve entità, che è quella di mitigare la durezza repressiva delle fattispecie ordinarie (considerato in diritto 5). Altro elemento è quello della valutazione globale del fatto commesso, e non del solo dato ponderale (considerato in diritto 6).
Sulla prima parte del quesito le Sezioni Unite enunciano quindi il principio per cui la diversità di sostanze stupefacenti oggetto della condotta non è di per sé ostativa alla configurabilità del reato di cui all’art. 73, comma 5, dovendosi piuttosto procedere a una valutazione complessiva degli elementi della fattispecie concreta in relazione a tutti i parametri previsti nella disposizione, per determinare la lieve entità del fatto.
Le Sezioni Unite ripercorrono la giurisprudenza relativa al concorso di reati in tema di sostanze stupefacenti eterogenee. Poiché il Testo Unico si basa sulla nozione legale di stupefacente, cioè una droga è illegale se è inserita nelle tabelle, la catalogazione assume un ruolo definitorio della fattispecie legale. E nell’ipotesi in cui le sostanze siano catalogate in tabelle differenti, si ha una fattispecie legale differente. Invece, quando le sostanze, pur essendo naturalisticamente differenti, appartengono alla stessa tabella, o al medesimo gruppo omogeneo di tabelle, integrano un unico fatto reato.
La configurazione di fattispecie legali differenti ha aperto la strada alla configurazione del concorso di reati nel caso di detenzione di sostanze appartenenti a tabelle diverse. Ciò è accaduto durante la vigenza del Testo Unico dal 1990 al 2006. Durante il vigore della Legge Fini-Giovanardi non vi era concorso di reati, ma un unico fatto reato anche in caso di detenzione di sostanze diverse, stante l’inclusione di tutte le sostanze in un’unica tabella. Mentre con la revivescenza della precedente disciplina anche la giurisprudenza di legittimità ha recuperato il precedente orientamento, affermando la configurabilità del concorso di reati nel caso di violazioni legate a sostanze incluse in differenti tabelle.
Le Sezioni Unite si mantengono fedeli a tale impostazione, specificando che “nel caso in cui la condotta si riveli unica, il concorso di reati deve essere qualificato come formale, trovando conseguentemente la sua disciplina nella previsione di cui all’art. 81, primo comma, cod. pen.” (considerato 11), ovvero l’applicazione della pena prevista per la violazione più grave aumentata fino al triplo.
La Cassazione conclude ritenendo possibile, in astratto, ma difficilmente integrabile in concreto a seguito di una valutazione globale del fatto, il concorso tra comma 5 e uno dei commi 1 e 4. E conclude ribadendo (considerato 14) la configurazione unitaria della fattispecie del 5° comma, anche nel caso in cui per il complesso degli elementi del fatto si potrebbe ipotizzare la concorrenza di due reati di lieve entità relativi a sostanze inserite in tabelle differenti. Le Sezioni Unite concludono sottolineando che l’ultima modifica della sanzione inserita nel 5° comma, rivela “l’intenzione del legislatore di considerare comunque il fatto, se di lieve entità, in maniera unitaria, anche quando ha ad oggetto sostanze eterogenee” (considerato 14).
Alla luce di tale giurisprudenza, è importante che la discussione parlamentare su come riconfigurare la fattispecie di lieve entità, tenga conto delle possibili conseguenze a livello di interpretazione e concreta applicazione della fattispecie. Se da un lato la differenziazione delle pene a seconda della tipologia delle sostanze ha un valore politico e culturale, nonché giuridico, di concreto riconoscimento di un minore disvalore per le “droghe leggere”, è però anche importante considerare che la modifica legislativa andrebbe ad inserirsi nell’interpretazione della giurisprudenza, considerato l’attuale punto d’arrivo interpretativo segnato dalla Cassazione del 2018. La concreta formulazione della norma sarà quindi fondamentale e dovrà tenerne conto.
La lettura unitaria della fattispecie data dalle Sezioni Unite della Cassazione nel 2018 offre infatti la possibilità di non procedere all’applicazione del concorso formale di reati, nel caso non raro dei piccoli spacciatori che hanno la detenzione a fini di spaccio di più tipologie di sostanze, spesso in minime quantità: questo può essere utile per non moltiplicare e aumentare le pene. La previsione unitaria della fattispecie permette di poter condannare questi fatti come un unico reato, portando il vantaggio di ridurre l’entità complessiva della pena e di conseguenza il numero degli ingressi e delle presenze in carcere. Sarebbe importante poter mantenere questo effetto deflattivo, e conciliarlo con la distinzione sanzionatoria tra “droghe leggere” e “droghe pesanti”. Forse si potrebbe pensare a una fattispecie unitaria con annessa riduzione di pena nel caso di fatti relativi esclusivamente alle “droghe leggere”, ma questo sta al dibattito e agli eventuali emendamenti.
Sulla coltivazione domestica di cannabis
Ancora la giurisprudenza ha aperto la strada per una svolta con la sentenza SS.UU. 12348/2020 che ha enunciato il principio di diritto per cui se da un lato il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità del principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficiente l’attitudine della pianta a produrre sostanza stupefacente, dall’altro sono però escluse dall’ambito di applicazione della norma penale, per mancanza di tipicità, le attività riconducibili alla coltivazione domestica a fini di autoconsumo. Più specificamente, nelle parole della Corte, quelle “attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore” (punto 7 sentenza).
L’apertura, seppur minima, è importante, perché mai prima vi era stata. E tuttavia non si può ancora parlare di piena liceità della condotta, ma solo di mancata rilevanza penale, perché restano in vigore le sanzioni amministrative, previste dall’art. 75 TU 309/90.
La Cassazione, fondandosi sulla nuova distinzione tra coltivazione tecnico-agraria e coltivazione domestica di minime dimensioni, arriva a ritenere quest’ultima di per sé non idonea a ledere o a mettere in pericolo il bene giuridico salute, e quindi ritiene sia da considerare penalmente irrilevante, quando rivesta alcune caratteristiche:
- la minima dimensione della coltivazione;
- il suo svolgimento in forma domestica e non industriale;
- le rudimentali tecniche utilizzate;
- lo scarso numero di piante;
- il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile;
- la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, che la facciano apparire come destinata in via esclusiva all’uso personale del coltivatore.
Si tratta di condizioni che, pur avendo aperto una strada, necessitano di chiarimenti e ampliamenti, come l’eliminazione della sanzionabilità ex art. 75, e l’indicazione di criteri univoci ed oggettivi, che possano dare certezza delle regole da seguire a chi intende coltivare per l’utilizzo a fini personali nel rispetto della legge.
In questo senso sono importanti le proposte Magi e Licatini perché prevedono di introdurre la piena liceità dell’attività di coltivazione per finalità di uso personale, introducendo criteri che ne mantengano la “domesticità”, ma che siano nello stesso tempo utili a definire in modo chiaro la liceità del comportamento.
Conclusioni
Nei prossimi mesi si attende il testo unificato delle tre proposte di legge, che l’on. Morrone ha avuto l’incarico di elaborare. Si auspica che nel dibattito parlamentare che dovrà discutere sul testo unificato, si tenga conto dei numerosi interessi in gioco. A cominciare da quello di evitare che le carceri siano sempre più riempite di piccoli spacciatori, spesso dipendenti da sostanze, e si prevedano invece per questi percorsi di recupero sociale. E proseguendo con la considerazione che le forze dell’ordine possano smettere di impegnare tempo ed energia nel perseguire comportamenti di scarsa rilevanza criminale. E poi, con il passaggio all’ambito della liceità, definita in modo chiaro, per la coltivazione domestica di cannabis a fini di uso personale, eliminando tutta questa area di comportamenti dall’ambito penitenziario e più ampiamente penale.
L’ampliamento del campo delle attività chiaramente disciplinate dalla legge, sia nel senso di una loro liceità come la coltivazione per uso personale, sia nel senso di una disciplina meno dura ma più precisa, come nel caso dello spaccio di lieve entità, è uno strumento fondamentale per ridurre il traffico illecito di stupefacenti.