L’ultima Conferenza nazionale istituzionale sulle droghe, quella prevista ogni tre anni dalla legge 309/90, si è tenuta nel 2009 a Trieste. Tuttavia, nell’area della società civile e dei movimenti che sono attivi per una riforma delle attuali norme e politiche sulle droghe in Italia, nonché in un’area maggioritaria del Terzo settore e in un settore significativo degli operatori del pubblico, si considera come ultima Conferenza nazionale quella tenuta a Genova, nel 2000.
Da dove arriviamo
Perché? Perché Trieste era stata organizzata come claque e bacino di consenso per una legge e per un Piano nazionale droghe di stampo iperproibizionista e neo-bio-determinista, del tutto contro quanto quel composito movimento sociale, professionale e scientifico chiedeva, e del tutto in controtendenza con quanto stava accadendo in Europa((Cippitelli C. (2009), Droghe. A Trieste è di scena l’anacronismo ideologico, https://www.fuoriluogo.it/mappamondo/droga_a_trieste_di_scena/#.YLPJX6gzbIU )). Tanto che – a differenza di quanto accaduto nel 2000 – movimenti, centri sociali (che all’epoca, è bene ricordarlo, rappresentavano bene una quota importante anche se non esaustiva delle persone che usano droghe, e pertanto titolati), associazioni come Forum Droghe e San Benedetto, rimasero “fuori e contro”, con una Conferenza alternativa, contemporanea e organizzata nella stessa città. E altre realtà e reti (dalla CGIL al CNCA) si posizionarono “dentro e contro”, partecipando alla Conferenza con contributi critici e insieme restando in dialogo con il movimento di contestazione. Ciò che conta è che quella scelta critica e di radicale estraneità non era mero schieramento aprioristico contro la compagine di destra che guidava allora le droghe, giusto perché non si poteva che contrapporsi alla triade Giovanardi-Fini-Serpelloni. Le ragioni erano serie, razionali, e fondate.
Un breve elenco può aiutare a ricordare: una legge repressiva che riempiva le galere, equiparava tutte le sostanze e rendeva semplice trasformare un consumatore in uno spacciatore, era stata approvata senza un minuto di discussione, nel 2006, peggiorando la stessa 309/90 e vanificando i risultati del referendum che nel 1993 l’aveva almeno addolcita (solo nel 2014 la Corte costituzionale l’ha abrogata, anche grazie a una forte azione delle associazioni); il lavoro partecipato avviato dal Ministero del Welfare nel 2006-2008, allora titolare delle politiche nazionali sulle droghe (il Dipartimento Politiche Antidroga, DPA verrà subito dopo con Serpelloni), sparito e smantellato, portandosi dietro le sedi del confronto e di una collaborazione scientifica plurale e multidisciplinare (Conferenza delle associazioni, dei servizi e degli operatori e Comitato Scientifico) e ignorate le Linee guida sulla Riduzione del Danno (RdD) appena aggiornate dal Comitato rispetto a quelle del 2000; l’ostracismo totale della RdD, che non solo ha voluto dire escluderla come pilastro delle politiche nazionali – mentre il mondo si muoveva in questa direzione – ma anche impedire l’uso del termine stesso ed escludere, in un memorabile addendum, le misure più innovative che anche in Italia si candidavano a fare i conti con le sfide di vecchi e nuovi consumi, mirando a promuovere e tutelare la salute dei consumatori (l’Italia non avrebbe mai, si diceva, permesso l’eroina medica, le stanze del consumo e il drug checking), e poco importa se la tanta retorica sull’evidence-based circolata in quegli anni sulla bocca dell’allora neonato DPA chiudeva gli occhi di fronte a queste, di evidenze; la crisi, mai risolta davvero, dell’intesa con le Regioni, che infatti non sigleranno il Piano nazionale del 2010, lasciandolo di fatto mai implementato (per altro, è questo non-Piano del 2010 – frutto predigerito di quella Conferenza – che ancora oggi il DPA si ostina a segnalare all’EMCDDA come vigente e di anno in anno riconfermato, compiendo un clamoroso falso); una virata iper proibizionista, con il posizionamento internazionale dell’Italia che fa fallire alla Commission on Narcotics Drugs (CND) di Vienna l’introduzione formale della RdD nelle politiche globali. E non è da lasciar fuori da questo elenco il diffuso e criminale effetto-stigma che è ricaduto sui consumatori, stretto tra patologizzazione e criminalizzazione; l’abbraccio che stava già alla base della 309 e che quegli anni hanno fossilizzato nel senso comune e, ahimè, anche in parte di quello “esperto”, in una dittatura paradigmatica stringente come una morsa.
Dunque, diciamo che “qualche buona ragione” per quella contro-conferenza c’era, e dunque anche per datare l’ultima conferenza vera (cioè plurale, partecipata, certo grazie anche alla spinta dei movimenti, ma comunque così è stata, aperta all’innovazione) all’anno 2000.
Intanto è successo che…
21 anni sono tanti. Il nulla della politica sulle droghe in questo lungo arco di tempo non cade certo solo sulle spalle della destra. Ciò che si è innovato, nelle politiche sulle droghe, è stato un processo bottom up, non certo top-down: è un fare, uno sperimentare, un assumersi responsabilità a livello dell’operatività e delle amministrazioni locali (alcune) e di una advocacy mai venuta meno da parte della società civile, degli operatori, dei consumatori, dei ricercatori indipendenti. Sono quelle le realtà che non hanno aspettato un qualche via libera governativo per cercare di stare al passo con un fenomeno in continuo, rapido e mai scontato cambiamento. Resta il fatto, però, che una politica sulle droghe priva di indirizzo e di responsabilità politica è una politica debole: perché esposta ad ogni soffio di vento politico-mediatico, perché se non ci sono obiettivi dichiarati nero su bianco non c’è poi alcuna possibilità di valutare le politiche che avrebbero dovuto perseguirli, di misurarne successi e insuccessi e soprattutto di modificarle(( È questo anche il risultato di una ricerca europea, coordinata da Forum Droghe per il Civili Society Forum on Drugs in 8 paesi membri, secondo cui opacità, indeterminatezza della politica nello stabilire gli obiettivi dei piani nazionali e scarsa accountability sono tra le prime cause dei fallimenti delle politiche locali e della scarsa implementazione della Strategia e dei piani europei a livello nazionale: Civil Society Forum on Drugs -CSFD Project II (2021), The European Action Plan on Drugs 2017-2020 and the national drug policies in 8 EU States. Divergences, convergences, gaps and areas for developments. Report by Susanna Ronconi and Antonella Camposeragna, in http://www.civilsocietyforumondrugs.eu/projects/)). Perché tutt* – chi consuma droghe, chi sul campo ci lavora, e le comunità locali – restano in balìa di cambiamenti dove la realtà dei fatti e le evidenze non entrano, ma entrano invece inadempimenti, mancanze, processi deresponsabilizzati e opachi, senza controllo e senza accountability, cioè senza la possibilità di chiedere di chi è la titolarità e la responsabilità, ricevendone una risposta, e come fare (e dove farlo) per adottare politiche più adeguate. Va detto – non possiamo qui dilungarci, ma non menzionare questa variabile farebbe perder il senso di questi processi – che dal 2008 si sono alternati molti governi di colore diverso, e che il centrosinistra non è stato migliore: la sua cifra – salvati poch* singol*- a livello di governi nazionali, è stata quella dell’insipienza, della distrazione, dell’inerzia condita di retoriche allarmistiche, dell’adozione di un pensiero mainstream mai sottoposto a verifica alcuna. Perché? Certo anche perché il discorso politico dominante è nel solco del pensiero della semplificazione, quello che dovrebbe essere adottato sta in quello della complessità, e in tempi di populismo e crisi della democrazia((Interessante a questo proposito lo scenario e il dibattito in alcuni paesi dell’Est Europa, dove maggiore è l’impatto populista e lo sviluppo di “democrature”, e dove le politiche sulle droghe sono tornate iperproibizioniste, la RdD è stata cancellata o lasciata senza fondi e i fenomeni droga correlati in termini di danni sono aumentati. Vedi le analisi a cura di Drug Reporter, in https://drogriporter.hu/en/ )), non ce n’è, nemmeno per la sinistra pare dato sottrarsi alla legge del consenso al minor prezzo possibile e del governo “muscolare” dei fenomeni sociali. C’è anche da dire che questa latitanza, rispetto – nel bene e nel male- alle presenze bipartisan antecedenti, è iniziata con il “governo tecnico” di Mario Monti, e da lì non si è più ripresa: l’emergenza reiterata come cifra della politica e del governo della società dal 2011 del dopo crisi del finanz-capitalismo, a quella del 2020 della pandemia produce gerarchie tematiche e culture politiche da “stato di eccezione”. Le droghe ne pagano il fio in due diversi e sommati aspetti: da un lato, non sono importanti, non tanto da stare in una agenda politica dell’emergenza continua (insomma, si tratta solo della vita di un quarto della popolazione italiana e dell’impero della macrocriminalità …); e dall’altro, quando emergono, lo sono all’insegna di un discorso mainstream fatto di “panico sociale” (allarme sicurezza urbana, allarme giovani, allarme cocaina, ecc.) cui si risponde assai bene proprio con il discorso populista, muscolare e semplificatorio, per altro destinato solo ad amplificarlo, il panico ma anche il fenomeno, grazie ai noti effetti paradossali. Un cerchio perfetto che si chiude. A questi dispositivi da crisi della democrazia si aggiunge l’eredità della destra sul piano dell’architettura istituzionale: l’aver portato tutto in capo al DPA, che è un organismo della Presidenza del Consiglio, invece che dentro la sinergia tra Ministeri competenti, a causa dei citati processi ha significato lasciare le droghe fuori dall’agenda politica. Dal 2011 al 2021, a poche settimane fa, in maniera continuativa per dieci anni è mancata una delega politica sulle droghe, il che ha fatto del DPA al massimo un osservatorio e una sede di raccolta dati, che ha prodotto statistiche di processo e dati epidemiologici ma non ha potuto produrre analisi e valutazione dei risultati e soprattutto del rapporto costi/benefici e dell’ impatto delle politiche, e dunque non ha fornito ai decisori politici alcun input per l’innovazione (come ben dimostrano le Relazioni al Parlamento). Non sappiamo se, nello scenario descritto, il permanere della delega a uno o più ministeri in sinergia avrebbe dato migliori risultati; certo avrebbe ancorato le politiche sulle droghe a enti – i ministeri – che la delega politica ce l’hanno per definizione, e ne rispondono.
E mentre la politica era distratta… Quello che è cambiato (e che in una Conferenza ci deve essere)
In 21 anni, il fenomeno del consumo di droghe illegali ha fatto salti mortali: nei modelli di uso, nelle culture, nella percezione sociale, negli esiti e nei costi delle politiche, nel mercato, nello scenario globale. È cambiato tutto, ma proprio tutto.
Dalla rivoluzione permanente dei consumi di sostanze – di cui in un articolo non è certo possibile render conto, ma abbiamo dalla nostra una letteratura scientifica sconfinata cui ricorrere- selezioniamo quattro aree tematiche del cambiamento((Si omette qui il tema del sistema dei servizi e degli interventi, trattato da altri redattori)), che sono e dovrebbero essere alla base di una riflessione critica, di uno sforzo politico e programmatico e dei lavori di una Conferenza 2021-2022, sia essa autoconvocata o, a maggior ragione, istituzionale.
I consumi sono in un processo avanzato di normalizzazione. Ed è una buona notizia
Le droghe illegali vengono consumate da una ampia fascia di popolazione, con andamenti diversi nel tempo a seconda delle sostanze e delle classi di età((DPA, Relazioni al Parlamento, http://www.politicheantidroga.gov.it/it/attivita/relazioni-annuali-al-parlamento/ ; EMCDDA, Italy, https://www.emcdda.europa.eu/about/partners/reitox/italy )). Negli ultimi due decenni il trend dei consumi è stato altalenante, certo non in generale decremento, e sono comparse via via nuove sostanze, fino alla proliferazione delle designed drugs di cui si perde ormai il conto e che solo in parte si riesce a monitorare. Ciò che si osserva ormai in modo consolidato non è solo o tanto che l’uso è di massa – e lo è, e il dato quantitativo è pure importante – ma soprattutto che aumentano i modelli di consumo normalizzati, con questo intendendo le modalità di uso che convivono con le strutture di vita di chi consuma, restando nella stragrande maggioranza dei casi al di sotto di danni conclamati, sociali e sanitari, e che, al contempo e in modo non scindibile, muta la percezione sociale circa questi consumi, che sono sì sporadicamente esposti all’allarme sociale e massmediatico, ma che nella realtà convivono con la quotidianità di milioni di persone. Questo non significa che “normalizzare” equivalga a perdere obiettivi e significati dell’uso: chi usa una sostanza psicoattiva ne cerca gli effetti di alterazione (si usano per questo), quali che siano gli esiti attesi (piacere, autocura, performance, conoscenza di sé, socializzazione e via elencando). E però via via che i consumi sono andati uscendo dalle nicchie e dalle minoranze, per altro stigmatizzate e criminalizzate, questa ricerca di alterazione si è fatta cultura sociale, e con questo ha cominciato a socializzare le sue norme e i suoi rituali, proprio come nei millenni è accaduto per l’alcool, almeno nelle nostre culture “bagnate”, mediterranee. E’ quello che ha dimostrato, in maniera insuperata e dando vita a un importante filone di ricerca, analisi e prospettiva politica, Norman Zinberg, dicendo che, in questo che è un processo di apprendimento sociale e di spostamento dell’asticella circa cosa sia legittimo socialmente e cosa no, i consumatori progressivamente si liberano dell’identità di “devianti” e anche di “malati”, e assumono quella sociale e culturale di persone che adottano un certo comportamento, che ha certi scopi e che sta dentro una cultura sociale, spesso non più minoritaria, oppure anche minoritaria ma non più etichettata come devianza dalla norma. Questo è avvenuto in tutta evidenza per la cannabis: per la quale si ragiona oggi in tutto il mondo di legalizzazione non solo, come spesso si pensa, perché è una “droga leggera” – termine per altro scientificamente discutibile – o “solo” per i costi umani ed economici troppo elevati della criminalizzazione, ma soprattutto perché è ormai evidente come sia matura l’alternativa culturale e sociale di governo del fenomeno, il consolidarsi e il socializzarsi di quei “controlli sociali informali” – sempre con Zinberg – che ne orientano un uso sociale a basso rischio e ad alta compatibilità con le vite dei singoli e con quella sociale nel suo complesso. Un processo, questo, inarrestabile da decenni, nonostante il sistema proibizionista che domina le politiche globali e che fa da barriera ai processi di social learning: ma, come ci ha insegnato Peter Cohen nella sua nota ricerca tra Amsterdam, San Francisco e Brema, allora ai poli estremi delle politiche sulle droghe, questi processi sociali e culturali sono, alla fin fine, indifferenti alle politiche e vanno per i fatti loro (le politiche possono se mai, con le loro scelte, massimizzare o viceversa minimizzare potenziali danni e rischi). Un processo simile si è avviato nei primi anni ’90 anche per le droghe stimolanti del divertimento e, sebbene con una dimensione meno eclatante, anche per limiti quantitativi, è in corso anche per la cocaina. Questo non significa che siano scomparsi rischi e danni, correlati soprattutto ai modelli di consumo più intensivi o, nelle biografie dei singoli, ai periodi di minor controllo nella propria traiettoria, ed è la ragione per cui servono delle politiche anche formali e dei servizi di sostegno e aiuto; ma vuol dire che – all’esatto opposto di quanto proclama l’approccio del “panico sociale” – abbiamo un’arma molto più potente di tutte quelle, spuntate, della war on drugs: abbiamo una cultura delle droghe e un sistema di norme sociali che si stanno affermando. Il drug-set-setting di Zinberg porta sulla scena un setting che è trama socio- culturale per il governo del fenomeno, e rappresenta la possibilità per un diffuso “uso controllato delle sostanze”. Ad oggi abbiamo indicatori quantitativi di questo fenomeno (la bassa percentuale dell’uso problematico rispetto all’uso nel suo complesso, per esempio, o il progressivo diminuire delle percentuali di chi consuma man mano che si passi dall’arco della vita, all’ultimo anno, all’ultimo mese); abbiamo meno conoscenza delle percezioni, delle culture sociali e delle strategie individuali di controllo che fondano i controlli sociali informali: fatta salva una ricerca d’avanguardia, ormai vasta ma da subito, dagli anni ’70, boicottata e resa ancillare, la ricerca non esce dal tunnel dello studio delle popolazioni (assolutamente minoritarie) istituzionalizzate, vedendo così quello che si vuol vedere. Se le norme e le politiche servono a governare un fenomeno di massa, sfaccettato e plurale, non possono non saperne le dinamiche di base, ignorarne i processi, e non possono nemmeno occuparsene in modo solo riparativo, ma devono agire in maniera proattiva. Cosa sia “auto-regolazione” e normalizzazione, del resto, lo abbiamo verificato anche nel momento più duro della pandemia: le ricerche che anche in Italia son state effettuate interrogando proprio la soggettività di chi usa, hanno rivelato chiare capacità di ri-orientamento, controllo e tenuta, contro ogni immagine stereotipata di un consumatore in balia delle droghe e degli eventi. Dunque, criminalizzare e patologizzare è una risposta inerziale, automatica, retorica, a fronte dei fenomeni reali. E, paradossalmente, è anche un approccio che rinuncia alla più grande risorsa che si avrebbe a disposizione: le culture e i processi sociali, le persone che usano droghe e le loro strategie, i saperi e le relazioni sociali cui restituire soggettività e competenze, dopo averle espropriate in nome dei paradigmi dominanti.
Allora: ciò che deve esserci in una conferenza è questo cambio di sguardo e di passo, dal panico morale dell’allarme droghe alla competenza sociale regolatrice il fenomeno del consumo di droghe. Una analisi fondata sulla ricerca dei processi di apprendimento sociale e di formazione delle norme e dei controlli sociali, e un ragionamento su come questi processi entrino – possano e debbano entrare – in una strategia di governo, debbano e possano suggerire la costruzione di contesti (normativi, sociali, istituzionali a vari livelli) proattivi, di promozione della salute di chi consuma e di minimizzazione dei rischi potenziali.
La RdD non è “solo un pilastro”, è la strategia per il nuovo scenario
Nel nostro paese, la RdD non ha mai avuto vita facile, come si sa, e si è a lungo dovuto chiamarla in altro modo senza andare al nocciolo: e il nocciolo è che vi sono politiche, strategie e interventi che facilitano il tenere bassa la temperatura dei rischi e dei danni, e di convivere con le droghe a costi umanamente, individualmente e socialmente compatibili. L’aggancio dell’AIDS, negli anni ’80, e poi delle overdose, che falcidiavano migliaia di consumatori ogni anno, a causa di politiche con l’obiettivo unico dell’astensione dall’uso, ha sdoganato la RdD su un piano che sarebbe stato difficile contestare, quello sanitario (anche se gli inizi non sono stati certo facili, scambiati per istigazione all’uso. Ne abbiamo passate delle belle, sulle strade delle nostre città…). Le maggiori difficoltà sono cominciate però soprattutto dopo, quando si è aperto il campo delle allora cosiddette “nuove droghe” (che per la politica sono rimaste “nuove” per vent’anni…), consumate per ragioni ludiche e di piacere da una vasta platea di giovani e meno giovani, che, pur mantenendo obiettivi di limitazione dei rischi, in realtà hanno cominciato a far virare l’approccio in senso proattivo, aprendo il campo al concetto di “uso sicuro” (safer use) che è qualcosa di più e di diverso – anche culturalmente – dall’evitamento di rischi e danni. Ciò è avvenuto in ragione delle culture espresse da chi usava le droghe, e l’aver virato interventi e approcci in quella direzione ha consentito non solo di conoscere e interagire con i consumatori più giovani, e di sostenerli nell’obiettivo di consumare meglio e in sicurezza, ma soprattutto di vedere nelle loro dimensioni culturali e nelle loro reti una formidabile opportunità. Questo è merito degli operatori e dei consumatori e poi, ma spesso dopo, dei servizi formali e delle amministrazioni che ne hanno via via compreso la portata strategica. Quel passaggio ha detto con chiarezza che la priorità andava all’usare bene, in sicurezza, in modo funzionale, e che non c’era sul piatto la questione di negoziare obiettivi altri: quei consumatori volevano usare bene e con piacere. È stato lì che si è meglio capito che la prospettiva vincente era quella proattiva, che assumesse su di sé (su di noi, sui servizi, sulle politiche) la responsabilità di un setting sociale dove si potesse usare privilegiando la sicurezza dei consumatori stessi su ogni altro obiettivo. Questo passaggio, che abbiamo chiamato secondo modello della RdD italiana , ha preparato in quei secondi anni ’90, primi 2000, ciò che Serpelloni e Giovanardi hanno in tutti i modi voluto bloccare: il fatto che la sicurezza del consumo fosse in prima battuta nelle mani di chi consuma, anche quando facilitato da servizi e operatori. La storia tormentata del drug-checking, solo ora in Italia arrivata a una svolta e uscita, dopo anni di pratica dal basso, formalmente dalla clandestinità, è emblematica: bandita dall’editto del 2010, portava su di sé proprio il segno delle capacità e delle responsabilità dei consumatori, che una volta edotti su ciò che avevano in tasca, così superando almeno in parte i gap da mercato illegale, potevano prendere le loro decisioni consapevolmente. Ed è questo che ha preparato il terzo modello della RdD verso cui siamo avviati: quello del passaggio maturo dalla riduzione di danni e rischi alla promozione di un uso sicuro, funzionale e coerente con i propri obiettivi. Lo ha detto bene Carl Hart, lamentando la inadeguatezza, ormai, della stessa espressione “riduzione dei danni”, che appare sempre riparativa e enfatizza i danni delle droghe e mai gli intenti, legittimi e anche positivi, per cui vengono usate. Hart suggerisce espressioni quali “Felicità e sicurezza” o “Salute e felicità”. Al di là della suggestione dei termini, il concetto è condivisibile, se l’orizzonte è quello tratteggiato sopra; noi potremmo dire, forse meno poeticamente, “Promozione dell’uso sicuro e della salute delle persone che consumano”. E sempre poco poeticamente, forse noi non possiamo liberarci ora, in senso evolutivo, del termine “riduzione del danno”, rischieremmo l’inganno di andare oltre a ciò che in realtà non è stato ancora davvero compreso, elaborato, acquisito, e ciò sarebbe un viatico alla restaurazione e al fraintendimento. Però quello che possiamo fare è adottare la RdD, nella sua terza età, come prospettiva strategica: se l’orizzonte è, come non può non essere, quello di governare la normalizzazione, l’alternativa a uno sterile e isterico “panico morale” è solo questa. Va per altro notato che le politiche europee, dentro il cui orizzonte siamo e dobbiamo essere, questo slittamento lo hanno già fatto: da alcuni anni il Rapporto annuale dell’EMCDDA evidenzia il capitolo “Danni correlati e risposte politiche”, che enfatizza questa dimensione come strategica, e la nuova Strategia europea sulle droghe 2021-2025, approvata a dicembre 2020 dal Consiglio d’Europa, ha trattato la riduzione del danno a sé, come ambito strategico, fuori dalla cornice generale della riduzione della domanda, e lo ha fatto su pressioni della società civile, che richiedeva un chiaro indirizzo in questo senso.
Si dirà: ma ancora non abbiamo i LEA della RdD-pilastro davvero operativi! È vero, e ne scrivono qui altri. Ma non c’è contraddizione: la RdD è fin dal suo nascere paradigma, politica e interventi, solo la declinazione italiana, timida, poco coraggiosa sul piano politico e anche su quello teorico, ha fatto sì che ce ne dimenticassimo, mentre grazie alla RdD nel mondo, e in Europa soprattutto, si rovesciavano radicalmente le gerarchie degli obiettivi delle politiche, si governavano le città secondo un’idea di negoziazione e mediazione, e si assumeva che la RdD si facesse carico anche dei danni correlati alle politiche inadeguate, lasciando così sempre aperta la porta al dibattito sulla decriminalizzazione, che da noi, invece e purtroppo, ancora oggi tocca sentir definire “ideologica” e non compito e responsabilità (anche) di chi opera nel settore.
E allora: ciò che deve esserci in una conferenza è il pieno riconoscimento della RdD nella sua triplice natura di paradigma, politica e interventi, attraverso un confronto critico che si basi su analisi, ricerche ed evidenze, che ci sono su tutti e tre i fronti.
L’obiettivo non può essere nulla di meno che quello della piena assunzione di responsabilità di tutti gli attori e della politica in questa direzione, con l’impegno di redigere un Piano d’azione che la includa e un piano straordinario per la definizione, la implementazione e la copertura finanziaria dei LEA. Questo aggiornamento deve avvenire sia sulla base dello stato dell’arte del dibattito e delle esperienze in Italia quanto dello sviluppo del dibattito e della ricerca internazionali.
Sempre sulla base del dibattito e delle ricerche internazionali va avviato un confronto serrato su in che misura e con quali obiettivi la RdD debba fare suo l’obiettivo di occuparsi anche dei danni correlati alle politiche: già lo fa, in parte, per la salute dei consumatori, ma restano gli ambiti del sociale, della stigmatizzazione e della criminalizzazione che aspettano chi se ne prenda cura.
Gli esiti paradossali della 309/90 dopo 30 anni sono più che noti
Gli insuccessi sul piano della riduzione della domanda e dell’offerta, e gli effetti perversi della attuale normativa in termini di sofferenze individuali e sociali, costi e ricadute sui sistemi coinvolti (quello penale e quello penitenziario, di cui qui ci occupiamo), stigmatizzazione e produzione di una cultura emergenziale e lesiva di diritti fondamentali, l’arbitraria divisione del corpo sociale tra chi usa droghe e chi no, uno dei massimi effetti negativi della legislazione vigente, per altro così poco considerato e analizzato: tutto ciò è documentato e denunciato da molte analisi, di cui questo Libro Bianco è costante occasione e riferimento.
Al di fuori di alcuni contributi delle realtà della società civile, che operano spesso in collaborazione con reti internazionali e con uno sguardo alla dimensione globale, sul piano istituzionale non c’è una valutazione dell’impatto delle politiche e delle normative: impatto, non processo, cioè una analisi di come è cambiata la realtà – per i singoli, il contesto, la società e sotto diversi profili – a causa delle o grazie alle politiche adottate. È un limite che l’Italia condivide con molti altri paesi dell’Unione, a giudicare dai risultati segnalati dalla società civile europea, che sottolinea come la valutazione di outcome e di impatto appaia ai governi una minaccia più che una risorsa, perché porta con sé il “rischio” di dover registrare fallimenti e soprattutto di dover produrre innovazione basata sui dati. Questa ipocrisia è quella che porta a processi inerziali o a processi innovativi estemporanei, non guidati dalla razionalità e dell’esperienza, nel circolo vizioso di una inefficacia senza fine. Ma delle brecce vanno aperte, rispetto a tutte le parti della legge (criminalizzazione, sanzioni, sistema delle politiche, servizi): del resto è ciò che sta avvenendo anche nella granitica sede delle politiche globali sulle droghe, l’ONU, dove si è aperto, grazie alla società civile e a pochi stati, un percorso che possiamo chiamare “movimento degli indicatori”, nel tentativo di ampliare e aggiornare gli indicatori di successo o insuccesso delle politiche. Un movimento tutt’altro che tecnico, ma che ha dietro di sé cruciali domande politiche.
E allora: ciò che deve esserci in una conferenza è una sessione che metta all’ordine del giorno un “movimento degli indicatori”, che sulla base anche di quanto prodotto a livello internazionale nella pluralità delle sedi (società civile, operatori, istituzioni, enti sovranazionali, centri di ricerca, università) ponga e sviluppi il tema della valutazione di esito e di impatto delle politiche pubbliche sulle droghe – legislative, penali, sociali, e sanitarie – ed elabori un sistema che sappia andare oltre i dati di processo. L’obiettivo è dare ai decisori politici elementi solidi e esaurienti di valutazione e in grado di orientare l’innovazione necessaria, e alla società civile più solide e ampie ragioni per le proprie azioni di advocacy.
Lo scenario globale non è più quello di una volta…
Ultimo ma non meno importante, il grande cambiamento nello scenario globale delle politiche sulle droghe. Cambiamento che è entrato fin dentro le più nascoste fibre della “chiesa del proibizionismo”, per dirla con Peter Cohen, l’ONU, lo UNODC, la CND-Commission on Narcotic Drugs, dove si è reso evidente il contendere e si è rotta la fallace unanimità di un tempo, proprio attorno ai temi della criminalizzazione e a quelli della regolazione legale della cannabis, nonché alla riclassificazione della cannabis in base alle sue proprietà terapeutiche, tema che era rimasto intoccabile per 60 anni. Il documento finale UNGASS 2016, pur nella sua estrema prudenza, apre a un diverso bilanciamento tra politiche criminali e politiche socio sanitarie e pone l’accento sui diritti umani; e il documento ONU del 2018, noto come Common Position, fa entrare nelle politiche sulle droghe anche agenzie quali OMS, UNAIDS e UNDP, tradizionalmente più aperte sia ai diritti umani che alla valutazione obiettiva delle politiche stesse. Ma soprattutto in 21 anni il mondo ha rotto il tabù del proibizionismo come unica politica possibile nel quadro attuale del governo globale: il succedersi rapido degli stati che hanno deciso di regolare in maniera legale il mercato della cannabis, a partire dagli USA, da sempre cuore e motore della war on drugs, è un processo senza precedenti e inarrestabile. Le convenzioni internazionali restano intoccabili, ad oggi, ma è questo processo di cambiamento in atto che nei fatti sta ridisegnando le politiche globali.
E allora: ciò che deve esserci in una conferenza è l’analisi di quanto sta accadendo nel mondo, la messa all’ordine del giorno delle ipotesi di politiche alternative alla proibizione, anche sulla base dei primi dati di valutazione forniti dai paesi che hanno riformato le loro legislazioni. Va almeno istituita, in quella sede, una “commissione per le politiche alternative” che accompagni con conoscenza, analisi, evidenze l’iter della discussione – che va ripresa e rilanciata – dei progetti di legge sia per la riforma della 309 che per la legalizzazione della cannabis
Va discusso il posizionamento internazionale ed europeo dell’Italia, oggi ambito opaco di cui poco si sa circa sedi, ruoli e figure che sovrintendono alla formazione della linea politica tenuta dal paese in quelle sedi, e comunque processo sottratto alla partecipazione e al contributo degli attori sociali.
E allora, e concludendo
È cambiato tutto, ma proprio tutto. Il bello è che – nonostante i governi – su tutto ciò ci sono saperi, competenze, analisi, ricerche, evidenze, riflessioni e proposte. Abbiamo delle alternative. Ne abbiamo già parlato, nella latitanza dei governi e delle Conferenze triennali, nel 2014 a Genova e nel 2015 a Milano, e ne avremmo riparlato nel febbraio 2020, ancora a Milano, in una nuova conferenza autoconvocata, e già organizzata, se la pandemia non ci avesse bloccato. Ne possiamo riparlare anche nel 2021 o nel 2022, la materia non ci manca e nemmeno la determinazione. Ma preferiremmo parlarne, dopo 21 anni, in una Conferenza governativa, partecipata, aperta, plurale, preparata come si deve. Chissà se lo straordinario evento di avere oggi una delega politica sulle droghe, dopo dieci anni, sarà la volta buona.