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Quest’anno ricorrono i 60 anni dall’adozione della Convenzione Unica sulle droghe delle Nazioni Unite. È perciò il momento giusto per riflettere sul ruolo di questo strumento di governo internazionale del problema droga.
Intanto, sono da registrare alcune peculiarità di queste Convenzioni: generalmente, gli accordi internazionali procedono ad armonizzare le politiche e le legislazioni degli stati che partecipano alla elaborazione degli accordi stessi. In altri termini, il processo di messa a punto degli strumenti di indirizzo e coordinamento internazionale procede dalla dimensione locale/nazionale a quella transnazionale, e non viceversa: peraltro in accordo con lo “strumentario” democratico, poiché le procedure democratiche interessano la dimensione statale, per non dire che la partecipazione – elemento chiave del buon funzionamento della democrazia – è tanto più agibile quanto più i livelli istituzionali sono alla portata dei cittadini.((E infatti a livello transnazionale si può osservare come sia difficile attivare gli strumenti democratici: basti l’esempio dell’Europa, dove i membri del Parlamento Europeo eletti direttamente dai cittadini non riescono ad esercitare alcun potere reale in merito alle scelte politiche, di fatto affidate alla commissione Europea, composta attraverso nomina dei governi)) Al contrario a livello internazionale la partita si gioca “fra le grandi potenze”, come si dice in termini popolari con espressione sintetica ed efficace. Mai come per le droghe la percezione popolare coglie nel segno: le fondamenta delle politiche internazionali sulla droga furono gettate oltre cento anni fa, nel 1909, ben prima dell’adozione della Convenzione Unica sulle droghe. Le dodici grandi potenze mondiali del tempo si riunirono a Shanghai e dettero vita alla prima Commissione Internazionale sull’Oppio, sulla spinta di precisi interessi geopolitici.

Uno sguardo alla storia: la geopolitica della “epidemia da oppio”

L’iniziativa per il controllo di alcune sostanze psicoattive, che passo dopo passo si concretizzerà in norme sempre più cogenti di proibizione, viene dall’America. Sono gli Stati Uniti che nel 1909, a Shanghai, promuovono il summit ad alto livello fra i rappresentanti di Cina, Gran Bretagna, Francia, Giappone, Germania, Russia, Portogallo, Olanda, Italia, Impero Austro Ungarico, Persia, Siam e ovviamente degli Stati Uniti stessi: l’obiettivo è di frenare “l’epidemia dell’oppio” in Cina.
Molteplici sono le ragioni che spingono gli americani ad affrontare a livello globale la questione oppio. In primo luogo, gli interessi economici e commerciali: dietro l’allarme oppio sta il tentativo degli Stati Uniti di inserirsi nel conflitto economico fra l’Impero britannico e la Cina, per aprirsi uno spazio nei mercati cinesi a scapito degli Inglesi. Nel corso dei due secoli precedenti, la Gran Bretagna aveva intrapreso un lucroso commercio verso la Cina dell’oppio, coltivato in India sotto monopolio della Corona.
In Cina, l’oppio era al tempo legale e l’usanza del fumo d’oppio era ben radicata nel tessuto sociale e culturale del paese. Nonostante esistesse un certo equilibrio di import-export fra i due paesi (gli Inglesi esportavano l’oppio ma in compenso importavano dalla Cina grandi quantità di tè), la Cina era poco propensa a questo esborso economico. La volontà cinese di porre un limite alle importazioni di oppio britannico si incontra con le pulsioni “moralizzatrici” americane, dietro l’influenza dei potenti movimenti della Temperanza: quelli che nel 1920 riusciranno a imporre per ben dodici anni la proibizione dell’alcol in tutti gli stati americani. Nonostante il bersaglio principale del movimento della Temperanza fosse l’alcol, l’idea che il “male” fosse insito nelle sostanze (di piacere e di “corruzione”) conduceva “naturalmente” a estendere il biasimo a tutte le sostanze psicoattive. Ed infatti, nell’emergere del “flagello oppio”, un ruolo di rilievo fu svolto dai missionari americani in Cina, instancabili predicatori contro la “distruzione morale” indotta dalle sostanze psicoattive. L’imperativo di “temperanza” dei missionari americani calzava a pennello con gli interessi nazionali americani, alla ricerca di rapporti economici e politici con la Cina.
Il meeting di Shanghai non portò alla stesura di un quadro normativo cogente per gli Stati partecipanti. Tuttavia, tracciò la cornice politica che nel corso del Novecento porterà all’attuale sistema di controllo globale: il testo uscito dalla Commissione stabilì infatti che “l’oppio doveva essere proibito o regolato attentamente”.
A quel tempo, l’obiettivo era di regolamentare piuttosto che di proibire. Sia la Convenzione dell’Oppio dell’Aia del 1912 (che rappresentò lo sbocco della Commissione di Shanghai), sia i trattati in seguito negoziati in sede di Società delle Nazioni miravano a controllare gli eccessi di un regime di libero mercato. Le regole riguardavano sostanzialmente l’oppio: venivano imposte restrizioni alle esportazioni verso i paesi che avevano adottato leggi contro l’uso non medico degli oppiacei, ma non era previsto alcun obbligo di dichiarare illeciti il consumo o la coltivazione, tanto meno di applicare sanzioni penali a queste condotte.
I primi testi delle convenzioni stabilivano cioè regole di import/export per gli oppiacei, che successivamente furono estese alla cocaina, e, dopo il 1925, alla cannabis: senza però criminalizzare le sostanze, i consumatori o i coltivatori delle materie prime. Non a caso, la Cina e gli Stati Uniti, che invece miravano a proibire, si ritirarono dai negoziati preparatori della Convenzione Internazionale sull’Oppio del 1925, a loro avviso non sufficientemente restrittiva (Jelsma, 2010).
La Convenzione del 1936, per la “soppressione del traffico illecito delle droghe pericolose”, getta le fondamenta della proibizione, poiché alcuni reati diventano crimini a livello internazionale. Va detto però che la convenzione fu firmata solo da tredici paesi. Solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, con la creazione delle Nazioni Unite e il nuovo ruolo statunitense di leadership in campo economico, politico e militare, si creano le condizioni per il regime di proibizione totale, che troverà il suo assetto nella Convenzione Unica sulle droghe del 1961.

Alle radici della proibizione: l’individuo sovrano, di se stesso e del mondo

Nonostante la retorica invalsa più di recente in sede Onu circa il consenso unanime globale alle politiche di proibizione, i conflitti e le resistenze erano ben presenti sin dall’origine. Innanzitutto, la messa al bando dell’uso non medico delle sostanze psicoattive confliggeva con gli interessi di altre potenze coloniali, oltre la Gran Bretagna: anche la Francia, il Portogallo e l’Olanda coltivavano nei loro possedimenti d’oltremare piante psicotrope, che servivano per la preparazione di medicinali. Morfina, eroina e cocaina erano al tempo molto usate nella medicina occidentale. Per fare un esempio: durante la Prima guerra mondiale, la cocaina era impiegata fra i soldati sia come anestetico locale sia come farmaco psicoattivo, per meglio sopportare la durezza e l’orrore della guerra di trincea. La materia prima dei preparati proveniva dalle coltivazioni olandesi di coca a Giava e in parte anche dal Perù, e riforniva le industrie farmaceutiche presenti in Olanda, Germania e Gran Bretagna.
Anche se l’utilizzo in medicina di alcune di queste sostanze – in particolare della cocaina e della cannabis- declinerà col tempo, gli oppiacei manterranno una posizione importante nella farmacopea ufficiale. La necessità di approvvigionamento a fine medico delle sostanze proibite a fine ludico rimarrà come uno dei più scottanti e irrisolti problemi del sistema di controllo, fino ai giorni nostri: si vedano le difficoltà, in termini procedurali e culturali, all’utilizzo della morfina nella terapia del dolore.((Si veda l’esempio di paesi avanzati dal punto di vista sanitario come l’Italia, dove la terapia del dolore rimane ancora molto al di sotto delle necessità.))
Oltre agli interessi economici, anche le culture separavano le grandi potenze occidentali: la gran parte dell’Europa non condivideva la tradizione di fondamentalismo cristiano e puritano, alla base del movimento della Temperanza in America.
Per capire come cento anni fa la comunità mondiale abbia scelto la via ardua della proibizione, bisogna guardare al grande scenario sociopolitico dell’epoca, all’economia politica della globalizzazione a cavallo della Prima guerra mondiale e nel dopo guerra. Né gli interessi commerciali degli Stati Uniti, né la loro volontà egemonica, né l’attivismo del Movimento della Temperanza sono da soli sufficienti a spiegare l’affermazione di un regime così rigido, quale quello della droga, fondato sulla legge penale. Tutti questi elementi però si intrecciano e ricavano impulso dai grandi fenomeni di globalizzazione dei mercati del lavoro, a seguito della crescita del capitalismo industriale, con i flussi di migrazione da diversi continenti verso l’Occidente e le tensioni sociali e culturali conseguenti.
Come l’alcol è additato quale causa della miseria, sociale e umana, della classe lavoratrice nelle città industriali sul finire del XIX secolo e agli inizi del XX, così l’oppio è esecrato quale origine della miseria e del degrado delle masse povere cinesi. In realtà, sono soprattutto le condizioni socioeconomiche spaventose in cui versano le classi lavoratrici agli albori della rivoluzione industriale alle radici della “miseria” e degradazione: piuttosto, alcol e oppio sono i facili rimedi per avere qualche briciola di piacere e di sollievo in una vita a malapena degna di chiamarsi tale. L’agitazione sociale del Movimento della Temperanza contro la sostanza-demonio ha il vantaggio di rappresentare un’alternativa “depoliticizzata” all’attivismo politico, assai più radicale e pericoloso, del movimento operaio per il miglioramento delle condizioni delle classi lavoratrici (Klein, 2008).
A ciò si aggiunga la questione etnica e razziale: con le grandi migrazioni, che tendono a “mescolare” razze, usanze, modi di vivere e di consumare droghe (diverse da popolo a popolo), la questione droga assurge a minaccia verso un insieme di “valori” rappresentati come la “tradizione occidentale”. Quando inizia la diaspora dei lavoratori cinesi che sbarcano nei porti d’America e d’Europa portando con sé l’usanza del fumo dell’oppio, il paventato degrado della dipendenza si somma al paventato degrado della promiscuità sessuale (che si ritiene indotta dalla droga), per di più aggravata dalla promiscuità razziale. La minaccia si trasforma in allarme ed emergenza. In tempi di guerra, già di per sé favorevole al governo emergenziale, è facile che si imponga l’intrusione dello stato in sfere di vita dei cittadini, sino a quel momento appannaggio di scelte individuali e governate dalle consuetudini sociali.
Una notazione è d’obbligo circa il movimento della Temperanza, che tanta parte ha avuto nel sostegno alla proibizione. E’ un movimento impegnato per il riscatto sociale delle classi povere, con rapporti col movimento femminista e col movimento abolizionista della schiavitù. Tuttavia, buona parte della sua fortuna in tema di droghe deriva proprio dalle tensioni razziali: la saldatura nell’immaginario sociale fra i cinesi e il “vizio” dell’oppio (così come fra i messicani e la peccaminosa cannabis) è alimentata dall’ostilità razziale verso le minoranze; a sua volta la propaganda di “amoralità” dell’uso di sostanze psicoattive tiene vive le discriminazioni. Al fondo, il valore della società occidentale da difendere, che ha costituito il collante ideologico del sistema internazionale di controllo delle droghe, è quello dell’individuo “responsabile”, in grado di mantenere il controllo di se stesso, quale premessa del controllo sul mondo che lo circonda: le sostanze che “fanno perdere il controllo” costituiscono una minaccia a questo pilastro morale della cultura occidentale. Questa paura originaria, particolarmente potente poiché evoca la perdita dell’identità (individuale e collettiva) ha alimentato l’ostilità verso le sostanze psicoattive fino ad accettarne la proibizione (Cohen, 2007).

Salute e proibizione, moderazione versus temperanza

Nel sistema di controllo fondato sulla proibizione, ci sono alcuni aspetti che sono giunti irrisolti fino ai giorni nostri (e intorno ai quali, come vedremo, si svilupperanno le differenze fra paesi e paesi e fra aree del mondo). Il più importante di questi è la scelta dello strumento penale per difendere la salute pubblica dal “flagello” della droga e della dipendenza. Si noti che nella tradizione di gran parte dei paesi europei, rispetto alle sostanze psicoattive la difesa della salute passa attraverso la distinzione fra uso moderato e abuso (sia in termini di intossicazione acuta che cronica). Ciò è evidente per l’alcol, la sostanza più usata e ben inserita nella socialità quotidiana del Vecchio Continente. Dunque, l’obiettivo di salute pubblica non è (e non è mai stato) “la riduzione fino all’eliminazione” dell’uso di alcol (com’è invece per le sostanze illegali); bensì la promozione dei modelli più moderati di consumo, nell’intento di prevenire l’abuso e la dipendenza, che si concretizza nell’educazione all’uso sicuro. E’ un approccio non fondamentalista, che non condanna il piacere e il conforto delle sostanze di per sé, ma cerca di controllarne l’eccesso. Si può definire come la cultura della “moderazione”, ben differente dalla “temperanza” di cui si è detto.
Un’eco della cultura della moderazione è presente anche per le droghe diverse dall’alcol, al sorgere della “questione oppio”. Dietro pressioni internazionali, il governo britannico insediò una commissione d’inchiesta sull’uso dell’oppio in India e in Cina, la Royal Opium Commission (Roc), che concluse i suoi lavori nel 1895. Secondo la maggioranza dei medici e dei funzionari governativi ascoltati dalla Commissione, il consumo di oppio era perlopiù moderato. Oggi si direbbe che nell’insieme era un consumo “non problematico”.
Anche di fronte al fenomeno dell’uso intensivo, la cultura europea inclinava piuttosto alla responsabilizzazione sociale, attraverso la presa in carico sanitaria delle persone con problemi di dipendenza: si vedano in Gran Bretagna i lavori della commissione Rolleston, chiamata nel 1926 dal governo a suggerire soluzioni al problema della dipendenza da oppiacei, all’indomani del varo delle restrizioni sull’approvvigionamento di queste sostanze, decretate dalla Convenzione dell’Oppio del 1925.
Il rapporto stilato dalla commissione Rolleston definisce il consumo di oppiacei “un problema di competenza medica, non criminale”: su questa premessa, propone di affidare ai medici inglesi la prescrizione di morfina in dosaggi e per periodi decisi solo in base al loro giudizio professionale. Il Rolleston Report è accettato dal governo e diventerà la base del cosiddetto British System. Il “sistema britannico” rappresenta la risposta di Public Health al problema dell’uso di oppiacei, nello sforzo di “bilanciare” la proibizione. I consumatori “problematici” di droga potevano così registrarsi ad un “albo” e ricevere la sostanza dal proprio medico di base. Con qualche differenza, il modello della prescrizione medica di oppiacei a mantenimento sarà seguito da molti paesi europei, compresa l’Italia, nello sforzo di offrire una risposta sociosanitaria ai rischi del consumo di droga.
Si noti che il concetto stesso di “Public Health” (sanità pubblica) richiama la salute come diritto di cittadinanza, che lo stato è tenuto ad assicurare predisponendo un sistema (pubblico) di erogazione di prestazioni. Quest’idea, del valore sociale e pubblico della salute, è ben radicata in Europa: sull’esempio del National Health Service britannico varato all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, la gran parte dei paesi europei procederanno nella seconda metà del secolo alla costruzione di un sistema di welfare con al centro la costruzione di un Sistema Socio sanitario pubblico, di cui la salute come bene pubblico costituisce un pilastro.
La risposta penale alla diffusione della droga procede da un alveo culturale del tutto diverso: l’enfasi sulla sostanza rappresentata come il Male (di per sé) conduce alla “messa al bando” (morale e legale) della sostanza stessa: proprio in quanto Male, si ritiene che essa non sia “domabile” coi meccanismi di controllo sociale. In mancanza di una tradizione di responsabilizzazione sociale rispetto alle problematiche di salute, la risposta alla minaccia droga fa appello alla responsabilità dell’individuo, attraverso l’imperativo dell’astinenza. Sul piano sociale, nell’America imbevuta dello “spirito di frontiera” (che scommette sulle risorse individuali) e lontana dalla cultura sociale dello welfare, il ruolo dello stato è confinato alla “legge e ordine”. Da un lato la proibizione asseconda il “rigore” morale, confermando la funzione tradizionale penale dello stato; dall’altro, nella dimensione geopolitica, si rivela uno strumento formidabile di penetrazione dell’egemonia americana nel mondo, nei confronti dei paesi più poveri (ribattezzati- nel linguaggio del contrasto alle droghe- i “paesi produttori”).
Gli Stati Uniti hanno sempre rivendicato il loro ruolo decisivo nel promuovere il sistema globale di controllo: così si esprimeva orgogliosamente il rappresentante americano ai negoziati della Convenzione Unica delle droghe del 1961: “Per più di mezzo secolo, gli Stati Uniti si sono battuti per il controllo internazionale delle droghe. Per iniziativa degli Stati Uniti si è tenuta la Commissione Internazionale sull’oppio del 1909, cui si deve la prima Convenzione Internazionale sull’Oppio, firmata all’Aia tre anni più tardi… anche l’idea di una Convenzione Unica si deve all’iniziativa degli Stati Uniti” (Jelsma, 2010).

L’ombra lunga della proibizione dell’alcol

Lo sguardo alle origini del sistema globale di controllo delle droghe ci permette di cogliere alcuni aspetti particolarmente utili per comprendere gli sviluppi successivi. In primo luogo, la centralità della questione droga, spesso considerata periferica nel dibattito sociale e politico e più in generale nella storia delle culture dei popoli. Al contrario, il tema dell’alterazione del corpo tramite le sostanze psicoattive, della liceità/illiceità/limiti del piacere ad esse connesse, ha echi profondi nell’immaginario umano ed è soggetto a codificazioni culturali potenti in ogni società. Basti pensare al conflitto simbolico intorno ai valori oriente/occidente, fra i fumi d’oppio cinesi che evocano il sogno e la tazza di tè inglese, che riscalda e ridà la carica. Anche le forme di governo sociale di un tema con echi così profondi dipendono da concezioni basilari circa la convivenza civile, la tolleranza delle minoranze, il rapporto fra lo stato e la sfera delle libertà/responsabilità individuali.
Secondariamente, per capire la storia e l’evoluzione della questione droghe, bisogna avere presente la questione alcol. Non solo perché le prime pietre del sistema di controllo dei narcotici furono gettate negli anni del proibizionismo americano dell’alcol; ma anche perché proprio la fine di quell’esperimento fu l’occasione per riversare sulle altre sostanze l’apparato concettuale elaborato per l’alcol.
Ad esempio, alcune argomentazioni “scientifiche” a sostegno della proibizione della cannabis provengono dal Movimento della Temperanza dell’alcol: come quella della “droga di passaggio”, dalla cannabis alle sostanze “pesanti” (originariamente dalla birra allo whiskey); o come quella della “storia naturale” di evoluzione del consumo moderato verso il consumo intensivo, per le caratteristiche chimiche “additive” delle droghe.
Ed è straordinario che questi argomenti abbiano travalicato, sostanzialmente identici, oltre un secolo di storia.

Le Convenzione Unica sui narcotici del 1961

Tornando alla Convenzione Unica sui Narcotici del 1961, già citata: essa sostituisce i precedenti accordi internazionali, inserendo norme più cogenti. La novità più importante è la proibizione della coltivazione delle piante da cui le sostanze narcotiche sono ricavate: in tal modo, i costi del law enforcement (dell’applicazione della legge penale) ricadevano sui paesi che tradizionalmente avevano prodotto le sostanze. Da notare che in quei paesi la produzione era destinata anche all’uso tradizionale: il papavero da oppio, la pianta di coca e la cannabis erano al tempo largamente coltivate in Asia, America Latina e Africa per l’uso tradizionale (si veda la masticazione della foglia di coca in gran parte dell’America Latina), compreso l’impiego nella medicina tradizionale. La Convenzione Unica del 1961 fissa però l’obiettivo di eliminare l’oppio entro quindici anni, e la coca e la cannabis entro venticinque.
L’idea guida della Convenzione del 1961- ancora oggi l’ossatura del sistema internazionale di controllo- è di riservare la coltivazione, produzione, distribuzione e l’impiego di oppio, coca e cannabis unicamente a finalità mediche e scientifiche, punendo l’uso non medico anche nei paesi in cui esisteva una tradizione secolare di utilizzo di queste sostanze.
Le sostanze sono classificate in tabelle, distinte per grado di pericolosità. La classificazione risulta arbitraria e controversa: si veda la collocazione della foglia di coca nella Tabella I e quella della cannabis sia nella Tabella I che nella Tabella IV, fra le sostanze più pericolose.

La convenzione sulle sostanze psicotrope del 1971

La successiva Convenzione del 1971 ha il compito di aggiornare la Convenzione Unica del 1961, per allargare il controllo ad altre sostanze: cambia così il titolo, da “sostanze narcotiche” a “sostanze psicotrope”, estendendo le previsioni penali a più di cento nuove sostanze (amfetamine, barbiturici, benzodiazepine, psichedelici).
Rimane la classificazione in quattro tabelle, secondo il grado di indurre dipendenza. L’idea è di distinguere fra gli psichedelici, usati come droga di strada, sottoposti al più rigido controllo (nella Tabella I), e le altre sostanze chimiche, usate dall’industria farmaceutica e collocate nelle altre Tabelle, sotto limitazioni meno stringenti.
Nell’insieme, le due Convenzioni, del 1961 e del 1971, mirano principalmente a sradicare gli usi tradizionali di coca, oppio e cannabis nei paesi laddove erano sempre esistiti, limitando la produzione di queste sostanze alle quantità strettamente necessarie all’industria farmaceutica.

L’evoluzione geopolitica delle droghe: paesi “consumatori” versus “paesi produttori”

Il sistema entra a regime negli anni Settanta. Le due convenzioni internazionali costituiscono gli strumenti per azzerare i consumi principalmente nei paesi dove esisteva una consuetudine e una ritualizzazione di oppio, coca e cannabis, come si è detto. Fino a quel momento infatti, il consumo di queste sostanze nei paesi occidentali era limitato. Ma proprio nel corso degli anni Settanta, nonostante la morsa della repressione penale, esplode in Occidente la domanda di cannabis, e iniziano i consumi di eroina e cocaina. Negli stessi decenni, comincia la produzione illecita su larga scala di quelle stesse sostanze nei paesi che fino a quel momento le avevano coltivate legalmente.
Prende così corpo il “problema droga” così come oggi lo conosciamo: con una larga platea di consumatori, in crescita a livello mondiale, e con un’economia illegale anch’essa in crescita.
Il sistema, così come costruito, si fonda sul conflitto di interessi fra i paesi leader, Stati Uniti in testa, che sono anche i principali “consumatori”, e i paesi economicamente e politicamente deboli, i paesi “produttori”. Questi ultimi, non solo vedono derubricati allo status di attività criminali settori dell’economia che avevano avuto fino alla proibizione un certo rilievo; ma devono sopportare di vedere bandite usanze tradizionali secolari: senza contare il peso, economico, sociale, politico dell’applicazione della legge penale, condotta su scala internazionale oltre che nazionale (attraverso l’obbligo di emanare leggi nazionali di proibizione in accordo con le Convenzioni).
Come si vede, la questione droga conserva la dimensione geopolitica che aveva assunto fino dal conflitto commerciale sull’oppio, seppure in termini diversi. La rappresentazione dei paesi ricchi “consumatori” e paesi poveri “produttori” – unita agli strumenti penali contro la coltivazione – offre l’opportunità di forme di controllo politico, e perfino militare, pervasivo di questi ultimi: si pensi ad esempio all’America Latina, il “cortile di casa” dei potenti vicini statunitensi.
Non si può comprendere la politica delle droghe senza tenere conto degli squilibri di potere fra aree del mondo e soggetti politici, poiché essa è in gran parte figlia di questi squilibri e al tempo stesso è strumento per rafforzarli.

L’escalation della war on drugs…

Con lo stabilirsi definitivo del sistema di controllo basato sulle Convenzioni, che obbliga i paesi ad adottare un quadro di norme penali ben definite e sostanzialmente simili, sono stabilite le basi per la repressione su scala mondiale.
Così gli Stati Uniti possono lanciare la war on drugs. Il presidente Richard Nixon, nel 1971, bolla l’abuso di droga il “nemico pubblico numero uno”. La “guerra alla droga” significava in primo luogo la guerra ai paesi produttori di sostanze. L’obiettivo principale fu inizialmente il Messico, da cui proveniva la gran parte della cannabis consumata negli Stati Uniti. La fumigazione aerea dei campi di cannabis e di oppio messicani iniziò nel 1976, coi fondi americani. Negli anni Ottanta, la pressione si allarga alla regione Andina: nel 1986, il presidente Reagan dichiara il traffico di droga una “minaccia letale” alla sicurezza degli Stati Uniti. Parte da lì la prima operazione militare antidroga degli Stati Uniti su suolo straniero, in appoggio alle forze locali: truppe ed elicotteri furono inviati in Bolivia per distruggere i laboratori di produzione della cocaina. Seguirono poi molte altre operazioni di quel tipo.
Alla pressione militare si accompagna la pressione politica. Sempre nel 1986, il congresso degli Stati Uniti vara il meccanismo di “certificazione antidroga”: i paesi considerati validi esecutori delle politiche antidroga ottengono la certificazione, non concessa invece a quelli che non cooperano sufficientemente.((Non ottenere la “certificazione” americana comporta conseguenze pesanti, come il mancato accesso agli aiuti economici e perfino il vedersi negati i prestiti riservati ai paesi in via di sviluppo in sede internazionale in virtù dell’opposizione americana. D’altro lato, per ottenere la certificazione bisogna sottostare a condizioni pesanti, come l’impegno all’eradicazione forzata di un certo numero di ettari di coltivazioni illegali; l’inasprimento delle leggi antidroga e perfino l’obbligo all’estradizione di propri cittadini verso gli Stati Uniti. In altri casi, bisogna rinunciare a riformare le leggi in senso meno repressivo (è questo il caso della Giamaica, che voleva aprire alla decriminalizzazione della cannabis).))
I fondi per le missioni militari di interdizione antidroga quasi quadruplicarono, dal 1989 al 1993. In alcuni di questi teatri militari la strategia antidroga si unisce a quella antinsurrezionale, come nella Colombia in preda ad una guerra civile: si veda il Plan Colombia, steso direttamente dal dipartimento di stato americano, senza neanche consultare il parlamento colombiano. Gli Stati Uniti hanno investito in Colombia ben sei miliardi di dollari, partecipando anche direttamente alla fumigazione di ettari ed ettari di coltivazioni di coca e di oppio. Inoltre, negli anni duemila, la retorica antidroga cerca collegamenti con la “guerra al terrore”, per spezzare quella che viene chiamata la “minaccia terroristica” del narcotraffico.

La Convenzione ONU contro il traffico illecito del 1988

In questo clima di militarizzazione della questione droga, è promossa una nuova Convenzione Internazionale, nel 1988, la Convenzione Onu contro il traffico illecito di sostanze stupefacenti e psicotrope: essa stabilisce strumenti di cooperazione fra i paesi per la repressione, dai sequestri dei proventi del traffico illecito alle estradizioni dei trafficanti. Le previsioni penali si precisano e si ampliano: per la prima volta si fa esplicito riferimento al possesso per uso personale, da considerarsi reato penale (criminal offence).
E’ un giro di vite rispetto ai precedenti trattati, poiché le due precedenti Convenzioni erano concentrate sulla repressione dell’offerta di droga, mentre la Convenzione del 1988 impone di criminalizzare anche il versante della domanda. La campagna Just say no lanciata da Nancy Reagan costituisce il potente apparato ideologico a sostegno della criminalizzazione dell’uso personale. La “stretta” sulle droghe corona la svolta neoconservatrice, restringendo ulteriormente la spesa federale in campo sociale.
Ancora una volta, l’egemonia americana si rivela cruciale per esportare il modello del “pugno duro” (tough on drugs) anche nell’Europa del Welfare: nel corso degli anni Ottanta, pressoché tutti i paesi europei varano leggi che estendono la pressione penale al consumo personale di droga, mentre l’imperativo del “Consumo zero” (Just say no) restringe il ventaglio terapeutico della dipendenza ai soli trattamenti finalizzati all’astinenza.

La de-escalation: la riduzione del danno e il “rimpatrio” della politica della droga

Sarebbe stato lecito supporre che norme penali internazionali così cogenti avrebbero reso difficile, se non impossibile una differenziazione delle politiche. Non è così. Sul finire degli anni Ottanta e inizi Novanta, inizia in Europa un movimento di riforma per le “mild policies”, ispirate al modello di riduzione del danno, come reazione all’escalation repressiva della war on drugs. Le “politiche miti” eserciteranno un’influenza anche al di fuori dell’Europa, come in Canada e in Australia.
La de escalation prende avvio dall’epidemia di Hiv negli anni Ottanta fra i consumatori di eroina per via iniettiva (attraverso l’uso di materiale da iniezione infetto). Nell’Europa culla del modello di Public Health si evidenzia l’incongruenza fra lo strumento penale, che relega i consumatori nella clandestinità, e l’obiettivo di difesa della salute, che necessita della massima adesione e collaborazione dei cittadini alle misure preventive.
Per contrastare l’emergenza Hiv/Aids occorreva un “cambio di passo”, dunque. Ma la crisi degli anni Ottanta/Novanta è sociale, non solo sanitaria. Gli effetti della war on drugs, uniti al vento neoliberista, si riversano in Europa in termini di ampliamento delle disuguaglianze, caduta della coesione sociale, disgregazione urbana. Alcune fra le più importanti e ricche città del Nord Europa assistono al fenomeno delle drug scenes, le “scene di droga di strada”, con i parchi cittadini abitati di giorno e di notte da giovani dediti all’uso intensivo di droghe.
In quel difficile clima, nasce la strategia di “riduzione del danno” droga-correlato, che si presenta come una proposta comprensiva di “governo” della questione droga, alternativa alla proibizione nella versione inasprita degli anni Ottanta. Essa prende avvio nel Nord Europa, per iniziativa delle città (Francoforte, Zurigo, Amsterdam le più importanti).
C’è un’altra novità politica significativa: la riduzione del danno nasce “dal basso”, dalle esperienze di auto aiuto dei consumatori stessi per prevenire l’infezione da Hiv (in particolare in Olanda); e dai livelli di governo locale, i comuni in testa, che rivendicano un ruolo di decisione nelle politiche, a partire dalla conoscenza diretta dei problemi che si riverberano nei territori. Ciò rappresenta una rottura rispetto al percorso di imposizione dall’alto del modello internazionale di controllo delle droghe, rappresentato dalle Convenzioni Onu.
La riduzione del danno è dunque un modello alternativo alla war on drugs e insieme all’approccio top-down del sistema internazionale di proibizione. In tal modo questa strategia ha aperto la strada al cosiddetto “rimpatrio” delle politiche della droga, proponendo un processo di costruzione pragmatica di strategie di contrasto a livello locale e, a salire, nazionale. Per questa ragione, l’iniziativa delle città e la loro contestazione alla dimensione globale-ideologica delle Convenzioni non ha niente di localistico. Al contrario, la riduzione del danno ha sin dall’inizio un respiro internazionale, come si vede dalla rapidità con cui si espande, dal Nord Europa ai paesi mediterranei, dal Canada all’Australia, fino all’America Latina, il continente che più ha subito l’impatto devastante della war on drugs.

Le Convenzioni e i margini per le politiche di riforma

Il tema della compatibilità delle Convenzioni con le politiche di riforma è sul tappeto da molto tempo nell’ambito del movimento di riforma della politica della droga. Si pensi al dibattito fra esperti internazionali sul prestigioso International Journal of Drug Policy (Aprile 2003), alla vigilia della importante riunione della Commission On Narcotic Drugs- CND, in cui si sarebbero dovuti valutare i risultati delle politiche decise all’Assemblea Generale Onu del 1998 (all’insegna dello evocativo slogan A drug free world, we can do it). Uno degli articoli più importanti, del sociologo Peter Cohen, intitolato “La chiesa della proibizione della droga e l’avventura della riforma”, cominciava così: “Quale che sia l’origine dei trattati Onu sulle droghe e la retorica ufficiale sulla loro funzione, occorre guardare a questi come a testi religiosi”. In quanto testi sacri non riformabili, questa la tesi sostenuta, sia per il carattere intrinseco della sacralità dell’astinenza, sia per la complessità delle procedure di revisione previste nelle Convenzioni, che non a caso sembrano fatte apposta per impedire il cambiamento.
E’ ben vero che alcuni spazi di flessibilità esistono, o comunque interpretazioni delle Convenzioni per dare spazio a esperienze innovative sono state sostenute, aprendo un conflitto in merito. Ciò è avvenuto in tema di detenzione di droga a uso personale: nonostante l’opposizione del International Narcotics Control Board -INCB((Lo INCB è l’organismo che sovrintende all’applicazione delle convenzioni Onu.)), diversi paesi hanno proceduto alla depenalizzazione del possesso a uso personale, seppur accompagnata da sanzioni alternative, sotto forma di sanzione amministrative (come in Italia) e/o di invio ai servizi per le dipendenze (come in Portogallo).((Non va però dimenticato l’ostacolo rappresentato dalla norma fondante il divieto nelle Convenzioni, che equipara la detenzione alle altre condotte più gravi come il traffico (vedi l’art.73 della legge italiana, ricalcato sulle Convenzioni, che così recita: chiunque importa, esporta… o comunque detiene..).))
Per ciò che riguarda la cannabis, le esperienze più importanti sono i coffeeshop olandesi e i Cannabis Social Club-CSC, che dalla Spagna si sono ormai estesi in altre parti d’Europa. In particolare, i coffeeshop si avvalgono della flessibilità in merito alla persecuzione penale del consumo, la quale è soggetta “ai principi costituzionali e alle concezioni fondamentali del sistema legale” nazionale. I CSC (consorzi di piccoli coltivatori che utilizzano il raccolto per uso personale) si avvalgono delle norme nazionali di equiparazione fra possesso a uso personale e coltivazione a uso personale, che è possibile depenalizzare facendo riferimento alla stessa formula di cui sopra. I sistemi di distribuzione di cannabis ad uso medico rientrano invece nelle finalità mediche previste dalle Convenzioni (nell’interpretazione degli stati che li permettono, sempre però in conflitto con lo International Narcotics Control Board, l’organismo preposto all’applicazione delle Convenzioni).
Il problema dei margini di riforma in presenza delle Convenzioni si è fatto più pressante quando alcuni paesi, inizialmente dell’America Latina, hanno introdotto cambiamenti in aperto contrasto con la proibizione. Nel 2009, la Bolivia rilegittima la masticazione della foglia di coca inserendola nella costituzione come uso tradizionale, patrimonio culturale degli indigeni. Per superare l’ostacolo del divieto internazionale, la Bolivia utilizza una procedura prevista dalle Convenzioni: l’adesione con riserva. Perciò nel 2013, la Bolivia esce dalla Convenzione del 1961, chiedendo di nuovo l’accesso con deroga per ciò che riguarda il divieto di uso di foglia di coca.
Le defezioni più importanti dalle Convenzioni si consumano sulla cannabis, sottoposta a divieto “se non per scopi medici o scientifici”.
Negli Stati Uniti, nel 2012, in seguito ai referendum popolari, Colorado, Washington, Alaska e Oregon aprono la strada ai mercati legali regolamentati della cannabis anche a uso ricreativo. A oggi sono saliti a diciotto gli stati USA in cui la marijuana è completamente legale (fra cui la California).((Ai diciotto stati in cui la marijuana è completamente legale se ne aggiungono poi 16 in cui essa è legale per scopi terapeutici ma non per uso ricreativo))
In Uruguay, dal dicembre 2013, la produzione, coltivazione, distribuzione della cannabis è passata sotto controllo statale, tramite lo Institute for the Regulation and Control of Cannabis – IRCCA. Ci si aspetta che anche il Canada segua quella strada, come annunciato dal nuovo governo.
Nel 2018, anche il Canada ha legalizzato la cannabis.
Né gli Stati Uniti, né l’Uruguay o il Canada hanno denunciato le Convenzioni, o hanno intrapreso strade formali, come quella di recesso con successiva richiesta di nuova adesione con deroga (la via della Bolivia).
Tutti questi paesi, in una forma o nell’altra, si sono appellati alla “flessibilità” delle Convenzioni. Gli Stati Uniti ritengono la legalizzazione nei suddetti stati compatibile con le Convenzioni, poiché non è stata cambiata la legge federale che mantiene la proibizione.
Quanto a l’Uruguay, si rivendica la compatibilità della regolamentazione della cannabis, poiché conforme all’obiettivo ultimo delle Convenzioni stesse di tutela della salute e promozione dei diritti umani. Il Canada argomenta in maniera simile.

Cambiare le Convenzioni o rivendicare la “flessibilità”?
Un dilemma politico e giuridico

Due sono le strade possibili: cambiare le Convenzioni prendendo in considerazione diverse opzioni procedurali, oppure ritenere che i Trattati non vadano cambiati, sfruttando la “sufficiente flessibilità” delle Convenzioni stesse. Questa seconda ipotesi è stata caldeggiata soprattutto dagli Stati Uniti ed è quella che si è per il momento affermata al più recente appuntamento internazionale, l’Assemblea Speciale ONU sulle droghe di New York (Ungass 2016). Per la verità, ce ne sarebbe una terza, quella del “deperimento” delle Convenzioni: che in una prima fase potrebbe avvalersi della “flessibilità” per indebolire l’approccio proibizionista; senza escludere in futuro convenzioni non più imperniate sul penale, ma di indirizzo a politiche di promozione dei diritti umani.
La tesi secondo cui la legalizzazione della cannabis sarebbe in contrasto con le Convenzioni è sostenuta da parte del movimento riformatore (vedi TNI) che propone la modifica.
Le vie per modificare i trattati sono certamente impervie. Le elenchiamo brevemente:
1) Modifica dei trattati con approvazione di tutti gli stati membri. L’emendamento diviene valido solo se nessun stato fa obiezione nel termine di 18 mesi. La procedura andrebbe ripetuta per tutte le tre convenzioni.
2) Eliminazione della cannabis dalle tabelle. La nuova classificazione (o eliminazione dalle tabelle) deve essere proposta dalla Oms e approvata dalla Cnd. La decisione è a maggioranza. ((Il processo è complicato dal fatto che la cannabis è compresa sia nella Convenzione del 1961, che del 1971, che del 1988, dunque la riclassificazione o l’uscita della cannabis dalle tabelle può non essere sufficiente per permettere una completa regolamentazione dei mercati.))
3) Riforma dei trattati che si applica a un gruppo di stati. La Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati (Vclt) del 1969 permette di modificare i trattati con accordi solo fra alcune parti, con una formula legale, peraltro poco praticata. Nel caso della cannabis, un gruppo di paesi di orientamento simile (like-minded), ad esempio Uruguay e Canada e altri, potrebbero scegliere di firmare un accordo valido solo fra di loro, modificando o annullando le norme di controllo previste nelle Convenzioni per la cannabis.
4) Ritiro dai Trattati. In teoria si può fare, ma non è politicamente agibile per molte ragioni. In primo luogo, il sistema assicura anche l’approvvigionamento di sostanze per l’uso medico. Inoltre, per i paesi che ricevono aiuti allo sviluppo o benefici simili, la denuncia potrebbe comportare sanzioni economiche. ((Inoltre, l’adesione alle tre Convenzioni è condizione per un numero di accordi di commercio preferenziali o per l’accesso all’Unione Europea. Gli Usa mantengono ancora il proprio meccanismo della certificazione antidroga e la denuncia da parte di un paese porterebbe alla sua de-certificazione.))
5) Denuncia seguita da nuova adesione con riserva (la via della Bolivia). Va ricordato che ben quindici paesi, inclusi tutti quelli del G8, obiettarono formalmente all’adesione con riserva della Bolivia. Ma poiché non si raggiunse il quorum di paesi contrari per bloccare l’adesione (62), all’inizio del 2013 la Bolivia fu riaccolta.
Chi si oppone alla teoria della “flessibilità” delle Convenzioni si appella al fatto che questa si presta a interpretazioni molto diverse. Soprattutto, si teme l’impatto della parola d’ordine “flessibilità” sui paesi tough on drugs, fra cui la Cina e la Russia: questi paesi potrebbero avvalersi dell’art.39 della Convenzione Unica che “non preclude agli stati membri di adottare misure di controllo più strette e severe di quelle presenti nella Convenzione”. In altri termini, la “flessibilità”, al di là del problema normativo, avrebbe il risultato politico di dare giustificazione e impulso a questi paesi per continuare coi trattamenti forzati e con l’applicazione della pena di morte, tanto per fare esempi. C’è poi una motivazione di fondo: non indebolire il sistema dei trattati internazionali, in generale orientato alla difesa dei diritti umani.
Chi è restio ad intraprendere la via della modifica ha però diverse argomentazioni a suo favore. A parere unanime, l’unica via praticabile anche se difficile, sarebbe quella della riforma dei trattati sottoscritta da un gruppo di paesi like-minded (opzione 3). Ma questa riforma parziale non escluderebbe l’effetto politico paventato di irrigidimento in interpretazioni repressive delle Convenzioni da parte dei paesi tough on drugs. Anzi, gli emendamenti alle Convenzioni validi solo per alcuni paesi e non condivisi da altri non farebbero che allargare -simbolicamente e politicamente- il divario fra paesi riformatori e paesi ancorati alla proibizione più rigida.
C’è anche un’altra obiezione. Rimettere mano alle Convenzioni avrebbe l’effetto di rafforzarle, il che è un rischio per uno strumento di approccio unilateralmente penale come le Convenzioni. E ciò dovrebbe far riflettere coloro che si preoccupano del deperimento delle Convenzioni sulle droghe, per le conseguenze che potrebbe avere di indebolimento di altri campi del diritto internazionale. La questione dei trattati internazionali va affrontata nel suo insieme, senza “irrigidire” l’ortodossia dell’interpretazione delle Convenzioni. In altri termini: non sarebbe opportuna una lettura dei trattati internazionali che ne salvaguardi la “flessibilità”, nel rispetto delle differenze sociali e culturali fra i paesi?
Infine: se si guarda all’origine storica delle Convenzioni sulle droghe, si comprende come la non-riformabilità dei trattati sia un problema non solo normativo, ma innanzitutto ideologico e politico. Alla fine, la “flessibilità” dei trattati si presenta come una strada squisitamente pragmatica per arrivare al deperimento delle stesse Convenzioni, come accennato. Magari per sostituirle a tempo debito con altre convenzioni, non più imperniate sulla proibizione.

Bibliografia

Cohen, P. (2007), La religione laica dell’individuo indipendente, in Fuoriluogo, anno 9, n.4 (aprile)
Corleone F. e Zuffa G. (a cura di) (2005), La guerra infinita. Le droghe nell’era globale e la svolta punitiva in Italia, Edizioni Menabò, Ortona
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Jelsma, M., N. Boister, D. Bewley-Taylor, M. Fitzmaurice, J. Walsh (2018), Balancing Treaty Stability and Change: Inter se modification of the UN drug control conventions to facilitate cannabis regulation, Global Drug Policy Observatory, Swansea University
Klein, A. (2008), Drugs and the world, Reaktion Books, London
Zuffa, G. (2014), Le politiche internazionali, introduzione, in Grosso, L., Rascazzo (a cura di), Atlante delle Dipendenze, Edizioni Gruppo Abele, Torino

Immagine: Closer U.S.-Canada Marihuana (Marijuana) control discussed. Washington, D.C., March 24. Closer cooperation in the control of the use of marihuana weed is expected to be the outcome of a meeting today between the Canadian Narcotic Control Chief and U.S. Treasury officials. In the photograph, left to right: Col. C.H.L. Sharman, Chief of Canadian Narcotic Control; Harry Anslinger, U.S. Commissioner of Narcotics; and Assistant Secretary of Treasury Stephen B. Gibbons, 3/24/37. Fonte Library of Congress.