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Il 30 marzo abbiamo celebrato 60 anni di fallimenti del sistema di controllo delle droghe incardinato sulle convenzioni dell’ONU. Di anni ne sono passati infatti più di 60 dalla firma della convenzione unica dell’ONU sulle droghe, e più di 50 dalla famosa dichiarazione di Richard Nixon rispetto all’abuso di droghe “public enemy number one”, e dunque dall’avvio ufficiale della war on drugs.

Il fallimento del proibizionismo

Una guerra che ben presto è divenuta una guerra alle persone che le usano, che non si è mai avvicinata a nessuno dei risultati che si prefiggeva. In primis la piena disponibilità delle sostanze psicoattive per fini medici, che rimangono un miraggio in particolare nei paesi poveri. Ma, ricordiamolo, uno degli obbiettivi espliciti della prima convenzione era l’eliminazione totale delle produzioni illegali di oppio entro il 1984 e di quelle di coca e cannabis entro il 1989. Non soddisfatti del fallimento conclamato, nel 1998 i capi di stato riuniti all’Assemblea Generale dell’ONU di New York hanno rilanciato: “un mondo senza droghe in 10 anni”. Siamo nel 2021: partendo dal ’98 (per il quale abbiamo dati un minimo confrontabili) le persone che usano droghe sono aumentate ad un ritmo esattamente doppio rispetto all’aumento della popolazione mondiale: 54% a 27%. Nessun risultato dal lato della riduzione della domanda, con prevenzione e riduzione del danno che continuano ad essere sovrastati dall’insensata repressione del consumo. Pessimi i risultati rispetto alla salute delle persone che usano droghe. Se il Covid 19 non avesse occupato la scena, oggi forse parleremmo dell’epidemia di overdose nel Nord America: nei soli USA 210.000 morti negli ultimi tre anni, con tragici protagonisti gli oppioidi sintetici. Oltre ai morti, sono innumerevoli le violazioni dei diritti umani perpetrate nel nome della war on drugs che periodicamente la Società Civile denuncia((Vedi per esempio l’ultimo shadow report di IDPC: Marie Nougier, Adri Cots Fernndez, Dania Putri, TAKING STOCK OF HALF A DECADE OF DRUG POLICY. AN EVALUATION OF UNGASS IMPLEMENTATION https://idpc.net/publications/2021/04/taking-stock-of-half-a-decade-of-drug-policy-an-evaluation-of-ungass-implementation)). Risultati altrettanto catastrofici dal lato della riduzione dell’offerta: interi subcontinenti sono stati teatro di carneficine, solo in Messico 300.000 morti e 80.000 scomparsi, mentre la penetrazione di corruzione e crimine ha minato al cuore intere democrazie, anche a noi vicine. Le droghe sono il bancomat del crimine organizzato e solo l’1% del denaro riciclato viene intercettato. È una guerra potenzialmente infinita: tra il 2009 e il 2017, oltre 800 nuove sostanze psicoattive (NPS) hanno fatto capolino nel mercato globale della droga. Queste nuove sostanze, nella quasi totalità di sintesi, vanno a sostituire, per gli effetti attesi – ma con pericoli estremamente maggiori per chi le consuma – le sostanze naturali proibite dalle convenzioni. Una volta inserite nelle tabelle, esse vengono sostituite nel mercato da altre, simili per effetti, ma sempre più rischiose. Il sistema di controllo globale non controlla nulla, e appare sempre più un cane che si morde la coda.

Il vento cambia

Proprio sulla scorta di questi fallimenti, e grazie anche all’azione della Società Civile, il vento da alcuni anni ha cominciato a cambiare. Hanno iniziato i paesi più colpiti dagli orrori della guerra militare alle droghe: Messico, Colombia e Guatemala hanno imposto la convocazione in anticipo di tre anni della sessione speciale sulle droghe dell’assemblea generale dell’ONU nel 2016. UNGASS 2016 è stato un momento determinante, in cui per la prima volta si è messo nero su bianco il principio della flessibilità delle convenzioni sulle droghe, con il placet degli Stati Uniti dell’allora Presidente Obama. Nonostante i venti contrari spirino ancora forti, con Cina e Russia imperterrite a soffiare, quello della riforma pare essere al momento più forte. Dal 2013, con la legalizzazione della cannabis in Uruguay, si è aperto un fronte sulla cannabis che al momento pare difficilmente arrestabile. Dopo l’Uruguay è stato il turno di molti stati USA (siamo arrivati a 18(( Ad oggi diciotto dei cinquanta Stati federati hanno legalizzato l’uso non terapeutico della marijuana per gli adulti. La maggior parte di questi tramite referendum: Colorado e Washington nel 2012; Alaska e Oregon nel 2014; California, Maine, Massachusetts e Nevada nel 2016; Michigan nel 2018; Arizona, Montana, New Jersey e Sud Dakota nel 2020. A questi si sono aggiunti, con un provvedimento votato dai congressi statali, Vermont, Illinois, New York, New Mexico e Virginia. Inoltre, la cannabis è stata legalizzata tramite referendum nel distretto della capitale Washington nel 2014 e, tramite leggi promulgate dai Governatori, in due dei territori USA nell’Oceano Pacifico: nelle isole Marianne Settentrionali nel 2018 e sull’isola di Guam nel 2019.))), che a partire da Washington e Colorado hanno dipinto di verde la cartina degli Stati Uniti. Nel 2018 è stato poi il turno del Canada, primo paese dei G7.
È significativo che proprio la culla del proibizionismo, gli Stati Uniti d’America del movimento della temperanza sull’alcol, della marijuana assassina di Anslinger, della war on drugs di Nixon, del Just say no di Nancy e Ronald Reagan e del Plan Colombia di Clinton siano diventati il motore principale della riforma. Oggi l’intera costa pacifica dell’America, dall’Alaska alla California è considerata marijuana friendly (con il Messico ormai sulla soglia dell’approvazione finale), mentre oltre il 40% della popolazione statunitense vive in uno stato che ha legalizzato la cannabis. A livello federale, dopo il voto positivo al MOREact nello scorso dicembre alla Camera dei Rappresentanti, la riconquista democratica del Senato ha dato nuove chance alla rimozione della cannabis dalle tabelle delle sostanze vietate. Addirittura, lo speaker democratico del Senato Chuck Schumer ha annunciato di voler approvare la legalizzazione entro l’anno, forzando anche la posizione del Presidente Biden, che sinora non è mai andato oltre alla depenalizzazione.

La grande mela verde

È oltremodo simbolico il voto che, in nemmeno 24 ore, ha portato lo Stato di New York a regolamentare la cannabis il 30 marzo scorso. Simbolico perché lo skyline più famoso del mondo si tinge di verde, e perché lo fa esattamente 60 anni dopo la firma, proprio a New York, della convenzione unica sulle droghe che introdusse il divieto assoluto dell’uso di cannabis.
New York è il terzo stato per popolazione e PIL della Nazione, ma è stato anche il luogo dove la War on Drugs ha colpito molto duro. Dalle Rockefeller drug laws(( Introdotte nel 1973 dal governatore Nelson Rockefeller, le Rockefeller Drug Laws limitarono molto la possibilità dei giudici di decidere le pene per detenzione e spaccio di droghe, prevedendo pene da 15 anni di prigione all’ergastolo per spaccio di più di due once (57 grammi) di eroina, cocaina o cannabis e da 25 anni all’ergastolo per possesso di più di quattro once (114gr.). Nel 1977 il governatore democratico Hugh Carey rimosse la cannabis dalle sostanze oggetto di queste norme. A partire dai primi anni Duemila si ebbero ulteriori modifiche sino alla completa riforma, ma solo nel 2009.)), alla “tolleranza zero” di Giuliani(( Basata sulla teoria della “finestra rotta” dei sociologi James Q. Wilson e George Kelling, ovvero che alla presenza di degrado si sommi ulteriore degrado, la zero tolerance lanciata dal sindaco di New York Rudolph Giuliani del 1994 prevedeva l’intervento della polizia e l’arresto anche per violazioni minori, come il mancato pagamento del biglietto in metropolitana, i graffiti o il mendicare ai semafori. In effetti il numero dei reati cominciò a declinare, seguendo, però, un trend già in essere negli interi USA da alcuni anni. Le accuse, invece, di soprusi e violenze da parte della polizia aumentarono in modo decisivo.)), New York è stata uno dei teatri di applicazione più pesante delle leggi sulle droghe: ancora nel 2018 quasi 60.000 newyorkesi sono stati arrestati per violazioni della legge sulla marijuana, mentre anche dopo la decriminalizzazione del 2019, neri e ispanici rappresentavano oltre il 93% degli arrestati per violazioni riguardanti marijuana. ((V. The Legal Aid Society, “NYPD Data: People of Color Subject to More Than 94% of Marijuana Arrests” in https://legalaidnyc.org/news/nypd-data-people-of-color-94-percent-marijuana-arrests/.))
Significativa anche la scelta politica del governatore Cuomo, in difficoltà nei sondaggi e alla ricerca di una “issue” popolare (il 64% dei newyorchesi è favorevole alla legalizzazione). “Non saremo i primi, ma il nostro programma sarà il migliore” aveva dichiarato Cuomo, presentando la cannabis come priorità assoluta del suo governo per il 2021. Il testo, di ben 128 pagine, è stato approvato letteralmente dalla mattina alla sera e firmato il giorno dopo. Vale la pena dilungarsi un attimo sulla presentazione delle norme perché, al momento in cui scriviamo, è la legge che più raccoglie le sollecitazioni giunte dai movimenti rispetto a equità sociale e risarcimento delle comunità. La legalizzazione del mercato di cannabis partirà nel 2022, ma la decriminalizzazione del possesso sarà efficace immediatamente: si possono detenere in pubblico sino a ottantacinque grammi (o ventiquattro grammi di concentrati), mentre in casa si possono conservare circa 2,2 kg di cannabis. La coltivazione domestica sarà possibile solo dopo l’approvazione di un apposito regolamento. Saranno cancellate automaticamente dalle fedine penali le condanne legate alle attività rese legali con la nuova legge, mentre coloro che consumano cannabis o lavorano nell’industria saranno protetti contro le discriminazioni in materia di alloggi, accesso all’istruzione e diritti genitoriali. La polizia, inoltre, non potrà più usare l’odore della cannabis come giustificazione per le perquisizioni. Il sistema di licenze prevede una distinzione fra quelle per coltivatori, trasformatori, distributori, rivenditori, cooperative e vivai. Vi sarà, onde evitare concentrazioni e per favorire i piccoli produttori locali, un divieto di integrazione verticale, ad eccezione delle microimprese e degli operatori esistenti già nel programma della cannabis medica. Saranno consentiti luoghi di consumo sociale della cannabis, per ora presenti solo in Alaska. Sarà inoltre possibile il servizio di consegna a domicilio. Per quel che riguarda invece l’equità sociale e la riparazione dei danni del proibizionismo, la legge stabilisce l’obiettivo di avere almeno il 50% delle licenze commerciali rilasciate a richiedenti provenienti da “comunità colpite in modo sproporzionato dall’applicazione del divieto della cannabis”, nonché imprese di proprietà di minoranze e donne, veterani disabili e agricoltori in difficoltà finanziaria. Le norme fiscali prevedono che i prodotti a base di cannabis siano soggetti a una tassa statale del 9%, più un’ulteriore tassa locale del 4% che sarebbe divisa tra contee e municipalità: 75% ai comuni e il 25% alle contee. I distributori di marijuana dovranno anche versare un’accisa sul THC in base al tipo di prodotto, parametrata in questo modo: 0,5 centesimi di dollaro per milligrammo di fiori, 0,8 centesimi per milligrammo di concentrati di cannabis e tre centesimi per milligrammo nei prodotti edibili. Le entrate fiscali andranno a coprire in primis i costi di amministrazione del programma, le rimanenti saranno ripartite in questo modo: il 40% ad un fondo di reinvestimento sulle comunità, il 40% a sostegno delle scuole pubbliche statali e il restante 20% alle strutture per il trattamento degli usi problematici di droghe e per campagne e programmi di educazione pubblica. Guidare sotto effetto di cannabis rimane un reato, mentre il Dipartimento della Salute statale avrà l’incarico di supervisionare uno studio sulle tecnologie utili a rilevare la guida in stato alterato, al fine ultimo di certificare un test efficace.

Un processo alla ricerca della maturità

A conferma di quanto sia stato significativo il voto newyorkese, sia New Mexico che lo Stato della Virginia hanno legalizzato la cannabis nel giro di poche settimane. Da segnalare come all’interno della serie di emendamenti votati dal parlamento della Virginia vi siano anche norme che prevedono la possibilità di revocare la licenza in caso di mancato rispetto dei diritti dei lavoratori per attività antisindacale o se impiegano più del 10% dei lavoratori come “appaltatori indipendenti”. Siamo di fronte ad un processo riformatore che è alla ricerca della maturità: per approssimazioni successive, pur partendo da modelli diversi, si stanno delineando alcuni principi cardine per una regolamentazione legale che sia responsabile, equa e sostenibile. Così FAAAT, Knowmad Institute ed altre realtà internazionali hanno prodotto un approfondimento((V. K. Riboulet-Zemouli, S. Anderfuhren-Biget, M.Díaz Velásquez and M.Krawitz.“Cannabis & Sustainable Development: Paving the way for the next decade” in Cannabis and hemp policies, FAAAT Editions, 2019.)) su come adeguare le politiche sulla cannabis agli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’ONU, mentre IDCP ha messo a sistema i 20 principi per una regolamentazione responsabile della cannabis(( V. IDCP, “Principles for the responsible legal regulation of cannabis”, Settembre 2020.)).

Il resto del mondo

Vi sono ulteriori processi legislativi e movimenti popolari che lasciano ben sperare per qualche novità ulteriore già entro l’anno. Sia negli Stati Uniti, ma anche più vicino a noi, nel Mediterraneo. A partire dalla recentissima apertura alla cannabis terapeutica del Marocco, uno dei più grandi produttori mondiali di derivati dalla cannabis per il mercato nero, sino all’ipotesi di legalizzazione dell’uso ricreativo in Israele. All’interno dell’Unione europea sono i piccoli Stati a fare da apripista. Il Lussemburgo sta ragionando oramai da un paio d’anni sulla possibilità di regolamentare l’uso di cannabis per i residenti, mentre a Malta si è recentemente aperto un processo di consultazione pubblica sulla legalizzazione della cannabis proposta dal governo laburista. Certo, in Spagna l’esperienza dei cannabis social club – affermatasi nei pertugi della legge ed ora messa in crisi dall’intervento della magistratura – pare arrivata ad uno stallo((V. A. Oria, “Spagna, l’anno zero della cannabis”, in Fuoriluogo.it, 1° marzo 2021, https://www.fuoriluogo.it/mappamondo/spagna-lanno-zero-della-cannabis/)), pur essendo un modello interessantissimo di gestione sociale della regolamentazione legale((V. De Corte, Tom; Regulating cannabis. A detailed scenario for a nonprofit cannabis market, Archway Publishing, 2018)). Ma addirittura la Francia, uno dei Paesi storicamente più proibizionisti d’Europa, ha aperto una consultazione istituzionale pubblica sulla cannabis. Più a nord si attendono i risultati della sperimentazione sul back door in Olanda((V. L. Fiorentini, “Legalizzazione cannabis in Olanda: l’esperimento parte zoppo”, in Fuoriluogo 15 giugno 2019. https://www.fuoriluogo.it/mappamondo/legalizzazione-cannabis-in-olanda-lesperimento-zoppo.)). Il governo di coalizione del premier Rutte ha avviato una sperimentazione della legalizzazione della produzione e distribuzione della cannabis ai coffeshop. Oggi, infatti, pur essendoci la convinzione che in Olanda la cannabis sia legale, ne è invece solo tollerata la vendita di massimo cinque grammi all’interno dei coffeeshop. Produzione e distribuzione, ovvero il back door, sono quindi illegali e in mano al mercato nero. Pur essendo stata ampiamente criticata per la sua limitatezza e scarsa flessibilità, potrebbe essere il primo timido passo per arrivare alla legalizzazione completa anche nei Paesi Bassi. La Svizzera, invece, nel 2021 dovrebbe veder nascere le prime sperimentazioni pilota di fornitura legale di cannabis per uso ricreativo((V. C. Schindler, “GREA – Groupement Romand d’Etudes des Addictions, Switzerland set to launch cannabis pilot projects 2021” in IDPC.net, 8 ottobre 2020. https://idpc.net/blog/2020/10/switzerland-set-to-launch-cannabis-pilots-in-2021.)).
In questo quadro internazionale, il ritardo dell’Italia sia in termini di dibattito pubblico nella società che politico nelle sedi istituzionali è davvero sempre più imbarazzante.