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Dal 2 dicembre 2020 la cannabis non è più tra le sostanze contenute nella quarta tabella della Convenzione Onu sulle sostanze stupefacenti del 1961.
Cos’è cambiato da allora nel mondo? Per il momento poco, ma in potenza siamo di fronte a una rivoluzione. Una decisione presa da un organo delle Nazioni Unite in merito a un documento che è stato implementato a livello nazionale non è automaticamente applicabile, indica però la strada che può essere seguita nel nuovo mutato quadro normativo – specie da chi ha votato a favore delle modifiche.
La decisione presa in seno alla Commissione Droghe delle Nazioni Unite (CND) da una parte ha confermato i possibili impieghi terapeutici della pianta, dall’altra ha escluso che per questo motivo la cannabis debba continuare a essere ritenuta una pianta talmente pericolosa da dover sottostare alle stringenti norme del controllo internazionale sugli stupefacenti.
La decisione della CND parte da lontano ed è stata conquistata con un margine stretto (27 sì, 25 no e un’astensione) ma è molto importante per almeno tre ordini di motivi:
i) per la prima volta nella storia delle Nazioni Unite si esclude una sostanza dalle tabelle;
ii) si dà finalmente seguito ai motivi per cui le Convenzioni internazionali erano state proposte: migliorare la “salute dell’umanità” favorendo l’accesso a piante medicinali e loro derivati;
iii) si è dato ascolto a un accurato studio della più recente letteratura scientifica in materia.
Hanno votato a favore della raccomandazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità tutti gli Stati europei membri della CND, con l’eccezione dell’Ungheria. Per il “sì” anche USA e India, la più vecchia e la più grande democrazia del mondo. Russia e Cina restano contro qualsiasi rilassamento così come l’Asia centrale, il mondo arabo, con l’eccezione del Marocco. Contraria anche l’Africa sub-sahariana, con l’eccezione del Sudafrica, mentre nelle Americhe gli schieramenti sono stati equamente divisi tra progressisti a favore e populisti contrari.
Alla luce di questa decisione, chi per esempio produce cannabis per finalità medico-scientifiche, o ne consente la prescrizione, potrà più facilmente coltivarla o farla coltivare – naturalmente seguendo le buone pratiche di produzione e gli standard previsti per i principi attivi farmaceutici – potrà inoltre semplificarne i meccanismi di importazione oppure liberalizzare il commercio e le modalità di acquisto dei prodotti sul territorio nazionale.
A quasi 60 anni da decisioni prese senza alcun confronto con la comunità scientifica o conforto di studi farmacologici o tossicologici si è finalmente arrivati al riconoscimento ufficiale delle proprietà terapeutiche della cannabis grazie a evidenze scientifiche! Anche se negli anni erano stati commissionati più studi per dimostrare la pericolosità della cannabis piuttosto che per esplorarne l’impiego terapeutico, da una decina di anni le evidenze scientifiche delle potenzialità della pianta erano state prodotte in gran quantità da centri di ricerca universitari e indipendenti.
Solo grazie all’insistenza del Comitato di esperti per le droghe e le dipendenze dell’OMS, e ad alcune associazioni (tra cui molte di quelle che compilano questo Libro Bianco), si è riusciti a far sì che nella preparazione della raccomandazione tecnica e poi nella sua ratifica politica venisse tenuto in considerazione il progresso scientifico in materia.
Il voto della CND è definitivo: d’ora in avanti chi produce, commercia, prescrive e riceve cannabis terapeutica non dovrà più sottostare allo stretto controllo imposto alle sostanze con potenziale psicoattivo a livello internazionale.
L’Italia è stata tra i primi stati in Europa a dotarsi di leggi ad hoc sul tema: la prescrizione della cannabis è consentita dalla fine del 2006, da 13 anni è in vigore un accordo col Ministero della Sanità olandese per l’importazione privilegiata di diversi prodotti dai Paesi bassi, dal 2015 la pianta viene coltivata per fini terapeutici dallo Stabilimento farmaceutico militare di Firenze e dal 2017 sono stati previsti accantonamenti significativi per l’acquisto di prodotti previa gara d’appalto. Nel 2019 all’Università di Modena e Reggio Emilia sono stati scoperti nuovi principi attivi della cannabis. Restano però enormi problemi di produzione o approvvigionamento di cannabinoidi e le risorse destinate allo studio della pianta restano irrisorie.
A dimostrazione del fatto che la decisione del 2020 è molto più significativa di quanto non si voglia ammettere, chi resta affezionato all’impossibilità di rilassare il controllo internazionale a cui devono sottostare le piante presenti nelle tabelle delle Convenzioni ha iniziato ad agitarsi. Il 22 gennaio 2021, e poi nuovamente a marzo, la Giunta internazionale sugli stupefacenti (INCB) ha convocato una serie di riunioni e seminari per discutere al proprio interno, e successivamente con le autorità nazionali, i requisiti di controllo e monitoraggio della cannabis e delle sostanze correlate con il fine di “aiutare gli Stati membri a migliorare le loro capacità di controllo e comunicazione sulla materia”. All’incontro di gennaio hanno partecipato 16 esperti di tutto il mondo, ai seminari successivi un centinaio di paesi. Secondo quanto recuperabile online, la discussione di merito ha passato in rassegna i problemi di controllo e conformità internazionale relativi alla cannabis nonché “le buone pratiche di coltivazione della pianta e la sua produzione e commercio internazionale e quella di prodotti ad essa correlati”. È stata evidenziata l’importanza di garantire la disponibilità di sostanze a base di cannabis per scopi medici, sottolineando che la raccolta dei dati che la interessano dovrebbe migliorare per riflettere adeguatamente le esigenze dei sistemi sanitari. Grande attenzione è stata data anche alle “disparità nelle capacità di controllo e monitoraggio dei paesi in diverse regioni del mondo”.
Sono state elaborate delle linee-guida perché l’INCB possa “sostenere gli Stati membri nel miglioramento delle capacità di controllo e segnalazione” della produzione, assicurando “la disponibilità di cannabis e suoi derivati per scopi medici e scientifici prevenendo la deviazione verso canali illeciti e abusi”.
La cancellazione della cannabis dalla IV Tabella della Convenzione del 1961, desta preoccupazione in seno all’organo deputato al monitoraggio dell’applicazione delle Convenzioni sulle droghe, talmente tanto che si insiste con la promozione dell’interpretazione più conservatrice dei documenti internazionali; un approccio che ha messo fuori legge consumi e produzioni personali, anche in minima quantità, creando danni collaterali e ostacoli alla ricerca scientifica e uso terapeutico di piante e derivati che le convenzioni dovevano promuovere.
All’interno dell’INCB, composto da 13 esperti che supervisionano l’applicazione delle Convenzioni del ‘61, ‘71 e ‘88, ci sono orientamenti diversi, non dettano legge ma possono condizionare il dibattito con documenti tecnici che creano scuse e alibi politico-istituzionali per i proibizionisti di tutto il mondo. L’INCB è noto per essere geloso del proprio ruolo e particolarmente impermeabile all’interazione con altre agenzie del sistema delle Nazioni Unite.
Tra le motivazioni iniziali proposte dall’OMS a sostegno della raccomandazione di cancellare la cannabis c’era anche un’esplicita menzione al fatto che nel mondo molte giurisdizioni stessero allentando la pressione penale in merito alla cannabis. Argomenti particolarmente invisi all’INCB che annualmente stigmatizza chi regolamenta quanto proibito. La raccomandazione dell’OMS ha inoltre anticipato di un paio d’anni i chiarimenti sul “principio di precauzione” che il Comitato Onu sui diritti economici, sociali e culturali ha articolato nel Commento Generale n. 25 dell’aprile 2020 (e di cui abbiamo scritto nello scorso Libro Bianco). Le evidenze scientifiche prodotte dovunque nel mondo obbligano gli stati ad adeguare le proprie leggi e politiche al progresso delle ricerche e loro applicazioni, obblighi che si fanno ancor più stringenti se si tratta di norme adottate arbitrariamente e/o senza una costante valutazione dell’impatto che hanno sulle persone e la società. Il processo decisionale che ha istruito il percorso che ha portato al voto del 2 dicembre 2020 è un ulteriore stimolo a rispettare il diritto internazionale.
Prima che la CND torni a votare sulle Convenzioni passeranno anni, nel frattempo gli stati che vorranno aggiornare le proprie norme non dovranno più sentirsi agitare contro lo spauracchio della necessità di rispettare le Convenzioni. Scuse e alibi non ci sono più. Per nessuno.