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Pochi riflettono sul fatto che la ricerca sulle droghe sia stata, e continui a essere, indirizzata e condizionata dallo statuto di illegalità delle droghe e dal pensiero sulle droghe che tale statuto sottende. L’idea (tuttora) dominante è che le droghe siano sostanze “incontrollabili”, come tali bisognose di meccanismi di “controllo formale” esterno: rappresentati soprattutto dalle istituzioni penali e dalle istituzioni e agenzie di prevenzione e di trattamento. Si ritiene infatti che i “normali” meccanismi di “controllo informale”, ossia le regole sociali che la gran parte dei consumatori mette in opera per “controllare” il consumo e far sì che questo non interferisca con gli altri impegni di vita, non siano in grado di operare di fronte alla (onni)potenza della chimica delle sostanze.

Perché è difficile avere un quadro completo e articolato dei consumi

Questa rappresentazione, insieme allo statuto di illegalità, ha diverse conseguenze sugli indirizzi della ricerca: la prima è che la popolazione dei consumatori tende a nascondersi per ovvie ragioni ed è restia a farsi conoscere anche dai ricercatori. Conosciamo perlopiù solo la parte di consumatori che incappano nella rete di controllo formale (i destinatari di provvedimenti giudiziari oppure le persone registrate ai servizi per le dipendenze, volontariamente o inviati dalle agenzie penali). Come conseguenza, è difficile avere un quadro dei consumi nella comunità, e la conoscenza sui consumi di droghe illegali proviene in larga parte dalle cosiddette “popolazioni in cattività”, offrendo dunque un quadro parziale e distorto dei consumi[1].
In secondo luogo, gli scienziati stessi si sono concentrati eccessivamente sui “campioni in cattività”, sia perché è più facile e meno costoso intercettare questa tipologia di consumatori per le ragioni appena dette; sia perché influenzati anch’essi dalla rappresentazione della “droga incontrollabile”, come tale capace di indurre (prima, o poi) dipendenza. In altri termini, lo stretto legame nel pensiero dominante fra droga e dipendenza ha facilitato la generalizzazione dei modelli di consumo, perlopiù più intensivi, ricavati dai campioni in cattività all’intera popolazione di consumatori sul territorio. Con ciò rafforzando l’associazione droga-dipendenza e l’attitudine sociale anti-droga.
C’è poi il rapporto fra ricerca sulla droga e politiche, su cui già scriveva quaranta anni fa lo psichiatra americano Norman Zinberg. Se da allora l’universo dei consumi si è profondamente modificato, l’assunto politico culturale non ha subito molti cambiamenti: l’orientamento rigidamente “antidroga” (ribadito dalle politiche penali) fa sì che ancora oggi chi voglia illuminare uno spaccato di realtà diverso dai consumi dipendenti e dalla “nocività” della droga corra il rischio di essere classificato come “a favore della droga”.
Come lo stesso Zinberg spiega, non è tanto questione di “mancata oggettività” o di “distorsione della verità”; quanto del peso di una certa cornice di valori (la visione della droga come altamente nociva, perciò da combattere con ogni mezzo) nell’orientare lo sguardo del ricercatore e gli ambiti della ricerca: in tale clima culturale e ideologico, “la ricerca della verità tende a essere deduttiva piuttosto che induttiva”[2]. Ci si aspetta cioè che le domande del ricercatore, così come le risposte che emergono dal suo lavoro, siano in linea con le credenze culturali dominanti: credenze “ viste come sacrosante, perché si pensa che aiutino a prevenire il male, ossia un aumento dell’uso di droga”. Di contro, chi, a cominciare dallo stesso Zinberg, voglia ha indagare il consumo nei setting naturali, volendo verificare l’ipotesi che non tutto il consumo di droga si identifichi nel consumo problematico e nella dipendenza, corre il rischio di vedere il proprio lavoro presentato come “pro-droga” (e conseguentemente osteggiato).

La Brain Research e i suoi limiti

Nella cornice appena descritta, trova spiegazione l’attuale predominanza della ricerca sulla farmacologia delle sostanze, in stretta relazione all’importanza pressoché esclusiva che viene attribuita al fattore droga nella comprensione dei consumi. E’ il cosiddetto farmacocentrismo. L’enfasi sul fattore droga porta a sottovalutare altri fattori altrettanto importanti nello spiegare i consumi: il set (il ruolo del consumatore, le sue aspettative circa gli effetti della sostanza, la funzione che la sostanza ha per lui); e soprattutto il setting (l’ambiente del consumo, le credenze sociali circa le droghe, le culture del consumo).
E’ squisitamente “farmacocentrico” il modello interpretativo dominante, la addiction theory, che, come già visto, ruota proprio intorno alla “sostanza che induce la malattia della dipendenza”. Il set (le caratteristiche del consumatore) e il setting (le caratteristiche ambientali) sono al più prese in considerazione come “fattori di rischio di sviluppare la dipendenza”.
La centralità della sostanza, nei suoi effetti sull’organismo, ha portato al grande sviluppo della ricerca biologica e farmacologica, e soprattutto della brain research, sulla scia del generale sviluppo e popolarità delle neuroscienze. Le quali sembrano assecondare l’attuale tendenza sociale a etichettare come “malattie”, d’origine biologica/genetica, problematiche un tempo viste come difficoltà di adattamento psicosociale. Da qui l’attrazione esercitata dal brain imaging, per trovare conferma attraverso le nuove tecnologie alla “predisposizione genetica” alla dipendenza, o alla dipendenza come “malattia cronica del cervello”. Per queste ragioni, la ricerca sulla “malattia della dipendenza” e in particolare la ricerca neuroscientifica hanno negli ultimi tempi preso il sopravvento, a scapito della ricerca psicosociale. Di questo orientamento abbiamo conferma esaminando nell’arco di alcuni anni dal 2009 in poi i finanziamenti alla ricerca concessi dal Dipartimento Nazionale Italiano Antidroga, come si vede nella scheda che segue questo scritto. Si noti, tra l’altro, l’entità dei ripetuti finanziamenti agli studi circa gli effetti farmaco-tossicologici delle NPS (per circa un milione di euro), a fronte di nessun investimento sulla ricerca circa le motivazioni dei consumatori e i modelli di consumo, assai più utile al fine di intervenire per ridurre i rischi. Oppure l’enorme dispendio nella ricerca AQUA DRUGS (170.000 euro) circa la presenza di sostanze nei fiumi delle città, di cui non è chiara l’utilità se non a fini di puro allarme sociale e propaganda antidroga. Né sono mancati i ripetuti finanziamenti alle tecniche di stimolazione magnetica transcranica per soggetti non-responder ai trattamenti (30.000 più 70.000 euro): tecniche peraltro discutibili, ma che comunque non risultano essere diventate uno strumento utile per i servizi. Né infine poteva mancare il progetto italiano Brainsearch per l’identificazione dei danni cerebrali dei tossicodipendenti (90.000 euro).

Va sottolineato che la ricerca neuroscientifica nell’ambito delle droghe ha dei limiti, principalmente sotto due aspetti:

  • la brain research non ci porterà mai, da sola, a una spiegazione dei consumi di droga, perché il suo raggio di indagine è limitato. Non ci fornisce le ragioni per cui le persone usano droghe; non ci fornisce le ragioni per cui alcuni consumatori scelgono una droga invece di un’altra; non ci fornisce le ragioni per cui molti consumatori cambiano il loro modello di consumo nel tempo (da meno intensivo a più intensivo e viceversa); non ci spiega perché alcuni smettono di consumare; tanto meno ci spiega perché le stesse sostanze hanno regole informali di consumo così diverse a seconda delle diverse culture (come si evince dalle differenze nelle culture del bere, ad esempio). Per sapere tutto ciò, c’è bisogno di ricerca in campo antropologico, sociologico, economico;
  • la brain research, in particolare i risultati del brain imaging, sono spesso interpretati a sostegno della addiction theory, in maniera distorta e scarsamente scientifica.

Per sviluppare questo punto, fondamentale, utilizziamo un brano illuminante di uno studioso delle droghe, Jean Paul Grund, a conclusione di un suo saggio recente.

“Le scienze biomediche e la neuroscienza in particolare stanno offrendo conoscenze interessanti e utili alla nostra comprensione del cervello, non solo sul substrato biologico della dipendenza. Ciò nonostante, la comprensione reale del cervello è ancora nella fase infantile, come lo è la comprensione del ruolo della chimica nel cervello e degli impulsi nervosi o della genetica nel consumo di sostanze psicoattive. Un esame critico della base di evidenze del modello della dipendenza come malattia del cervello suggerisce che la neuroscienza o le scienze biomediche sono lontane dall’offrire una spiegazione conclusiva della dipendenza, con importanti carenze nell’affidabilità, nella validità e nella generalizzabilità. I ricercatori fuori e dentro le scienze biomediche hanno sottolineato la mancanza di rigore scientifico negli studi neuroscientifici sulla dipendenza (J. Davies, 2017; W. Hall et al., 2015; Hart, 2017; Lewis, 2013). Risultati discordanti, come quelli del corpo di studi socio-scientifici presi in esame in questo scritto, o spiegazioni alternative che mettono in discussione la spiegazione biomedica riduttiva/materialista della dipendenza, vengono normalmente ignorati. Molti studiosi del cervello si prendono molta libertà nell’interpretare i loro risultati e nel generalizzare quanto riscontrato in piccoli campioni di “cervelli dipendenti” a popolazioni più ampie di persone che usano sostanze psicoattive. La neuroscienza può descrivere la chimica e i circuiti coinvolti nella biologia dell’intossicazione, ma non le ragioni per le quali le persone fanno uso di sostanze, sia con moderazione sia in eccesso, o i motivi per cui smettono di farlo. Inoltre, gli investimenti mostruosi nella neuroscienza della dipendenza hanno restituito ben poco in termini di nuovi trattamenti per la dipendenza. Infatti, il trattamento di metadone a mantenimento e il principio della droga di sostituzione sono precedenti all’idea della dipendenza come malattia del cervello (Leshner, 1997) di tre decenni (W. Hall et al., 2015). Carter & Hall (2010) ha invocato “una maggiore umiltà esplicativa nella neurobiologia della dipendenza”. In effetti, i neuroscienziati dovrebbero essere molto più riservati nel comunicare i loro risultati a un pubblico più ampio (J. Davies, 2017, W. Hall Hall et al., 2015)
…Ma forse la domanda più rilevante riguarda il perché della dominanza di questa teoria nella scienza, nella politica e nei servizi sulla droga, a scapito di approcci diversi sull’uso di droga e sulla dipendenza delle scienze sociali, umanistiche, criminologiche o economiche e di altre discipline che hanno esaminato il fenomeno del consumo di sostanze nell’essere umano. L’enfasi sul cervello (malato), ad esempio, non ha molto impatto sui “tassi di dipendenza”, sulla domanda di droga o l’offerta di droga negli ultimi venti anni e ha fatto poco per rimuovere lo stigma associato all’uso di sostanze o alla dipendenza; al contrario, alimenta le malattie, i pregiudizi e l’ingiustizia sociale e, soprattutto, diminuisce i finanziamenti alle strategie sanitarie basate sulle evidenze (Csete et al., 2016; W. Hall et al., 2015; Hart, 2017). Ciò non ha impedito che molte delle affermazioni (non verificate) del modello biomedico divenissero senso comune , che, come spiega John Kenneth Galbraith, serve a mantenere lo status quo e gli interessi privati di chi ha potere (Galbraith, 1958). E, come nota Davies, il dominio del modello bio-medico non è (semplicemente) una questione di merito accademico, ma una lotta di potere sulle sovvenzioni, lo status e i vantaggi legati a queste; una “guerra” in cui, dal momento che l’idea è stata coniata (Leshner, 1997), il mezzo continua ad essere il messaggio (McLuhan & Fiore, 1967) ma “in termini di attrezzature, la guerra è asimmetrica”, scrive Davies (J Davies , 2017). Albert Einstein riferisce di aver prima scritto a matita molte delle sue teorie sul retro di una vecchia busta o di altri foglietti (Isaacson, 2007). Oggi, i celebri ricercatori del cervello esperti nell’utilizzo dei media stanno “strombazzando” risultati e interpretazioni ultra-semplificate attraverso video su YouTube sullo sfondo di grandi ronzanti e lampeggianti macchine e immagini grafiche in 3D del cervello colorate in maniera allettante (Hickman 2014). Con i loro complessi scritti accademici – come questo- con le loro “opinioni critiche” e presentazioni grafiche bidimensionali su PowerPoint nelle conferenze scientifiche o convegni di politica della droga, coloro che propongono prospettive differenti sono chiaramente sorpassati (J. Davies, 2017).”
Da Jean Paul Grund (2017) “Il controllo, lo possiamo esercitare? Verso una prospettiva transdisciplinare ecologica sul consumo di sostanze e sulla dipendenza”

[in Zuffa Grazia e Ronconi Susanna (a cura di), Droghe e autoregolazione. Note per consumatori e operatori, Ediesse, Roma, pp.78 sgg.]

La prospettiva dei “controlli” sui consumi: gli studi qualitativi nei setting “naturali”

Si è detto dei limiti della ricerca concentrata sui campioni di consumatori “in cattività”, ovvero sul cosiddetto “peggior scenario” dei consumi, avvalorando la concezione dominante della coincidenza fra consumo e dipendenza (o che l’uso si trasformi comunque in dipendenza). Per avere una visione non viziata dell’uso di droga (e delle differenti droghe), c’è bisogno della ricerca nei setting naturali, su campioni di consumatori reclutati sul territorio, ovvero sulle cosiddette “popolazioni nascoste” (di consumatori non in contatto coi servizi). E c’è bisogno di ricerca qualitativa, per apprendere il punto di vista del consumatore: il significato del consumo, come questo si incastoni nella vita quotidiana delle persone, quali siano le strategie “naturali” di “regolazione” del consumo; se, quando, perché queste strategie si indeboliscano facendo sì che i consumi siano meno “controllati”; e se, quando, perché, come le persone riescano a recuperare “naturalmente” il controllo indebolito.

Purtroppo questa ricerca non gode di molta popolarità. In parte perché, come si è detto, molti sembrano convinti che parlare di “uso controllato” significhi spingere le persone a consumare. In parte, perché l’accento sulla dipendenza vista come “malattia” induce una visione del “tutto o nulla” (o sei sano, o sei malato; o sei astinente, o sei dipendente). In altre parole, si ritiene che la conoscenza circa i consumatori “controllati” non aiuti ad affrontare i problemi dei consumatori “incontrollati/dipendenti”.

Eppure, è vero il contrario. La conoscenza dei meccanismi che permettono di tenere sotto controllo i consumi è preziosa proprio per chi è più carente nel controllo. In più, tali meccanismi attengono a “fattori altri dal potere della droga e dalla personalità del consumatore” (e cioè a fattori sociali e alle capacità di apprendimento degli individui), fattori più soggetti a evoluzione e modificazione. Si apre perciò una prospettiva più ottimistica circa il cambiamento, rispetto a quella della “malattia cronica recidivante” della addiction theory.

In questa luce, è fondamentale il sapere sul cosiddetto self recovery, proveniente dagli studi sulle persone che “naturalmente” recuperano il controllo (ovvero escono dalla dipendenza) senza l’aiuto dei servizi. Inutile dire che anche questi studi sono osteggiati e in genere ignorati, sulla base della visione della dipendenza come stato patologico da cui è difficile uscire e comunque impossibile senza aiuto esterno.

Nonostante gli impedimenti di cui si è detto, studi sui consumi nei setting naturali, alla ricerca dei controlli messi in atto dalle persone che usano droghe sono stati condotti per tutte le sostanze, negli Stati Uniti, nel Canada, nel Nord Europa. Negli ultimi anni anche in Italia, per iniziativa di Forum Droghe in collaborazione col CNCA, in particolare sui consumi di cocaina.

Non solo: sulla base di questi studi, si è sviluppato un percorso, per tappe e fasi, alla ricerca di un nuovo modello operativo dei servizi, ispirato ai risultati di questo tipo di ricerca. Si tratta del modello operativo di autoregolazione, illustrato e discusso in altra parte di questo Libro Bianco, nello scritto di Stefano Vecchio a confronto con Grazia Zuffa. Il modello si basa su una lettura “non patologica” dei consumi, proprio per questo in grado di attrarre una platea molto larga di consumatori, in una prospettiva di sostegno ai meccanismi “naturali”, individuali e sociali, di controllo e di riduzione del rischio/del danno.

Alla ricerca della conoscenza nascosta. Esiti della ricerca sull’uso controllato/non controllato di cocaina

Partendo da un approccio proattivo e da una prospettiva di supporto ai meccanismi di autoregolazione, le ricerche qualitative e gli studi etnografici, condotti al di fuori di schemi retorici sulle droghe, mostrano alcuni risultati che possono essere la base essenziale per lo sviluppo di interventi innovativi . In sintesi:
– Il controllo dell’uso di cocaina e di altre sostanze stimolanti esercitato dalle persone che consumano droghe si sviluppa lungo un continuum di apprendimento dall’esperienza, simile ai processi impiegati nell’apprendimento di qualsiasi altra attività umana. Si tratta di un processo per “ tentativi ed errori”: attraverso diversi momenti e fasi, i consumatori apprendono dalle proprie esperienze e sono perciò in grado di produrre cambiamenti nei loro comportamenti
– I consumatori adottano una vasta gamma di meccanismi informali di controllo sul loro consumo di droga in molteplici ambiti, quali: la scelta degli ambienti e delle situazione situazioni di consumo; la scelta delle persone con cui consumare e non consumare; il fissare un tetto di episodi di consumo in un dato periodo di tempo, la frequenza di uso; l’individuare gli stati d’animo adatti all’uso (e quelli inadatti), le combinazioni con altre sostanze idonee/non idonee, le modalità di assunzione, i dosaggi appropriati; come gestire le conseguenze economiche del consumo di cocaina, come evitare di attirare l’attenzione delle forze dell’ordine, ecc. Ognuno di questi elementi – e / o una combinazione degli stessi- può diventare una variabile del processo di autocontrollo e “campo d’azione” per una strategia personale di uso sicuro e regolato
– I consumatori adottano dei rituali, dei modelli di comportamento inerenti all’uso di sostanze, inclusi i metodi di acquisizione e somministrazione, la selezione dell’ambiente fisico e sociale per il consumo, le attività che si possono svolgere/non svolgere dopo l’assunzione, i metodi per evitare gli effetti indesiderati della sostanze. I rituali sono influenzati da variabili di tipo culturale, sociale e ambientale, il consumatore non è isolato dal contesto e l’ambiente socio- culturale è un fattore fondamentale in un processo di apprendimento sociale.
– Spesso il consumo di cocaina non è stabile nel tempo, ma i livelli variano verso il basso o verso l’alto. Tuttavia i livelli medi e alti non durano in genere nel tempo. Contrariamente a quanto suggerito dal modello patologico della addiction, la traiettoria prevalente è di tipo discendente, nel lungo termine . Al fine di riacquisire nuovamente il controllo dopo periodi di consumo più incontrollato, le strategie più usate dai consumatori sono la riduzione progressiva dei consumi e l’astinenza per periodi limitati.
– Contrariamente alla traiettoria lineare, “crescente verso la dipendenza”, ipotizzata dal modello addiction, le ricerche sui controlli indicano che le carriere dei consumatori di sostanze sono in realtà differenziate e dinamiche e che i pattern di consumo mutano nel tempo, a seconda del mutare delle situazioni e delle fasi e impegni di vita.
– In contrasto con la visione del consumo di droga come “tutto o niente” (astinenza o dipendenza),gli studi sui meccanismi di controllo dell’uso di sostanze mostrano come i pattern di consumo fluttuino lungo un continuum, variando da un scarsa capacità di controllo ad un aumento di controllo e viceversa . Se ne deduce che è improprio dividere i consumator in due tipologie contrapposte “consumatori controllati versus consumatori incontrollati”. Ciascun consumatore può sperimentare entrambe le situazioni e cambiare il proprio modello di consumo, passando da un uso intensivo ad uno più moderato .
– Queste ricerche mostrano discrepanze circa il ruolo del consumo controllato, tra la visione degli operatori delle dipendenze e dei consumatori,: per i primi il vero obiettivo è l’astinenza, per i consumatori il consumo controllato può essere un obiettivo valido.

[Da Grund JP, Ronconi S., Zuffa G. (2014) Oltre il modello “malattia”, nuove prospettive nella riduzione del danno: verso un modello di autoregolazione e autocontrollo, Progetto NADPI, col supporto del Drug Prevention and Information Programme dell’Unione Europea e de La Società della Ragione, p.11]

La ricerca valutativa delle drug policies

Per le droghe, la ricerca valutativa delle politiche è stata storicamente trascurata. Si pensi alle politiche globali, di applicazione delle Convenzioni Internazionali ONU sulle droghe. Teoricamente dovrebbero essere sottoposte a revisione (Review) ogni dieci anni dall’Assemblea Generale ONU Speciale sulle droghe (UNGASS), dopo un attento esame dei risultati ottenuti. A tal fine sarebbero necessari studi e rapporti tecnico-scientifici ad hoc. Ma l’appuntamento decennale di UNGASS non è mai stato inteso come “valutazione” degli indirizzi politici, bensì come semplice “monitoraggio” della loro applicazione. Si pensi al pregevole lavoro di valutazione dello stato dei mercati globali della droga, curato da Peter Reuter e Franz Trautmann, commissionato dalla Commissione Europea in vista della Review che la Commission on Narcotic Drugs (CND) era chiamata a svolgere nel 2009, nel cosiddetto Segmento ad Alto Livello della CND (con la presenza dei Ministri e Capi di Stato dei paesi membri)[3]. In quella sede, il Report sui mercati della droga non fu neppure discusso.
Un secondo esempio calzante riguarda la Relazione Annuale al Parlamento sulle droghe e la tossicodipendenza. Come si ricorderà, la Relazione Annuale è un adempimento previsto dalla legge antidroga, introdotta con l’intento di fornire ai parlamentari, e più in generale ai policy maker, uno strumento di valutazione delle politiche sulla droga. Le Relazioni al Parlamento non sono però state in grado di adempiere al loro compito istituzionale, perché carenti nell’offrire strumenti di lettura delle strategie messe in campo. Si vedano in particolare le carenze della griglia di rilevazione dati per il pilastro penale, già evidenziate nei precedenti Libri Bianchi (in particolare il Libro Bianco n.6). Si veda la scarsità di informazioni che le Relazioni offrono in tema di stili di consumo nei setting naturali, e perfino di funzionamento dei servizi, denunciata in queste stesse pagine in alcuni scritti (in particolare di Leopoldo Grosso, Angelo Giglio, Felice Nava).
Di contro, a livello internazionale la ricerca valutativa delle politiche sta assumendo sempre più rilievo e si arricchisce di nuovi aspetti di impatto da tenere in considerazione. Ad esempio, l’impatto della politica delle droghe sui diritti umani: questione venuta di recente alla ribalta nel dibattito internazionale, in particolare per le politiche penali. Quanto le politiche penali delle droghe sono in linea coi principi generali dello Stato di diritto, come il principio di proporzionalità fra la gravità del reato e la pena inflitta? Quanto la pena di morte prevista in alcuni paesi per i reati di droga rispetta quel principio? L’articolo di Patrizia Meringolo, che segue queste note, offre uno spaccato generale sugli sviluppi della ricerca valutativa.

Proposte della società civile per nuovi indirizzi nella ricerca

Nel febbraio 2018, nell’ambito di un progetto europeo teso a promuovere il coinvolgimento della società civile nelle scelte di politica delle droghe e a favorire il dialogo con le istituzioni e i policy maker, un ampio arco di associazioni (guidate da Forum Droghe e LILA), hanno inviato una lettera alla responsabile del Dipartimento Antidroga contenente proposte complessive in tema di ricerca. Riportiamo in sintesi le richieste finali.

Lettera aperta al Dipartimento Antidroga

Noi associazioni impegnate nel progetto europeo Civil Society Involvement in Drug Policy chiediamo che venga progettato e finanziato un quadro nazionale di ricerca che:
Integri le tradizionali indagini epidemiologiche con ricerche qualitative ed etnografiche nei setting naturali, focalizzate sullo studio delle traiettorie di consumo, delle strategie di regolazione e controllo adottate dai consumatori, dei fattori influenti, del ruolo dei setting. Attenzione particolare va prestata ai consumi di stimolanti e Nuove Sostanze Psicoattive, sebbene questo tipo di ricerca sia funzionale e auspicabile per ogni tipo di sostanza
Costruisca in un percorso partecipato una “cornice” teorica (di modelli di interpretazione del consumo e di finalità generali della ricerca sulle droghe) in cui inserire la varietà delle ricerche secondo un disegno generale, partendo dalla letteratura internazionale e dalla ricerca indipendente condotta sul campo in questi anni dalle associazioni della società civile italiana e europea

Chiediamo anche che sia privilegiata
Una ricerca “orientata all’azione”, attenta a focalizzare aree di indagine spendibili per il ridisegno e delle politiche e degli interventi
Una ricerca attenta a comprendere e adottare la “prospettiva del consumatore”, al fine di conoscerne obiettivi, scelte, strategie, culture, nella prospettiva di far sì che le persone che usano droghe siano messe nella condizione di governare maggiormente il proprio consumo (secondo l’accezione che il “governo democratico” di un fenomeno è quello che mette gli attori del fenomeno stesso nelle condizioni di esercitare controllo). Questa prospettiva, del resto, assume l’approccio della promozione della salute per come sostenuto dall’OMS, e alla promozione della salute esplicitamente si rifà la stessa Riduzione del danno
Una ricerca progettata attraverso un processo di partecipazione della comunità scientifica e della società civile esperta (operatori, ricercatori indipendenti, associazioni attive nelle politiche sulle droghe, organizzazioni dei consumatori) attraverso un Tavolo ad hoc in sede di Osservatorio del Dipartimento Antidroga; implementata e condotta con il contributo dei ricercatori e loro associazioni già attivi in questo campo di ricerca.

Chiediamo un Panel di esperti sulla ricerca per la valutazione di impatto e di esito delle politiche nazionali e della legislazione
Il dibattito internazionale ed europeo negli ultimi anni si è significativamente orientato verso la necessità di elaborare studi di valutazione di impatto e di esito delle politiche sulle droghe, anche in relazione al dibattito attorno alla necessità di una valutazione delle politiche globali basata sull’evidenza. Di valutazione delle politiche si è ragionato a UNGASS 2016 e, a livello comunitario, si continua a ragionare in sede di Commissione e Gruppo orizzontale; è, inoltre, terreno di costante confronto tra gli organismi comunitari e il Civil Society Forum on Drugs che rappresenta la voce della società civile europea. A livello nazionale, mentre esistono studi routinari di processo, uno studio – evidence based e human rights based – sull’impatto delle politiche legislative, penali e sociosanitarie sulle droghe non è mai stato condotto, nonostante proprio questo tipo di conoscenza sia cruciale nei processi politici decisionali. Alcune realtà della società civile e accademiche hanno condotto studi circoscritti, nel tentativo di colmare questo gap di conoscenza così fondamentale per il ridisegno delle politiche nazionali nella direzione di una loro maggiore efficacia.
Crediamo sia urgente promuovere uno studio nazionale di valutazione di impatto nelle tre dimensioni, legislativa, penale e sociosanitaria. Come passo propedeutico, proponiamo che, grazie al rinnovato Osservatorio del DPA e alle previste forme partecipative e di collaborazione aperta, sia convocato un Panel di esperti che individui una prospettiva di ricerca in questa direzione, avvalendosi di esperti italiani ed europei, e coinvolgendo le realtà della società civile che su questo hanno competenza ed esperienza e che sono attive nel campo dello studio della valutazione, innovazione e riforma delle politiche sulle droghe.

Note

  1. Si veda quanto scrive il sociologo belga Tom Decorte (2010), Come si diventa un consumatore controllato. Riflessioni sulle insidie di una scienza delle droghe viziata dal pregiudizio, in Grazia Zuffa (a cura di), Cocaina, il consumo controllato, EGA, Torino
  2. Norman Zinberg (1984), Drug, Set, Setting, Yale University Press, New Haven and London, p.199 sgg.
  3. Reuter, P. and Trautmann, F. (eds) (2009), A Report on Global Illicit Markets 1998-2007, European Commission, Brussels