“La cannabis è un farmaco molto promettente: una vera risorsa per il paese. La mia previsione è che tra 5 anni le perplessità e i pregiudizi sull’uso di questa sostanza saranno superati”. A esprimere un parere tanto entusiasta sulle prospettive della canapa e tanto ottimistico riguardo all’archiviazione degli ostacoli ideologici con cui questa terapia deve fare i conti ancora oggi, è il colonnello Antonio Medica, direttore dello Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze, dove è in corso un progetto pilota per la produzione di cannabis terapeutica.
Al senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani, in visita allo Stabilimento, il colonnello Medica mostra le cellette in cui sono custodite le talee di cannabis, gli ambienti adibiti alla crescita delle piante e all’essiccazione, gli strumenti per l’irrigazione controllati tramite app e i laboratori di analisi. Sono i locali dismessi dello Stabilimento che riprendono vita dopo un lungo periodo di sotto-utilizzo. Manconi tra i primi ha indicato questa struttura come possibile sede per la coltivazione: proposta formalizzata nel luglio 2014 in Senato, insieme all’Associazione Luca Coscioni, in un convegno dal titolo La cannabis fa bene la cannabis fa male, a cui hanno preso parte rappresentanti dei ministeri della Salute e della Difesa. E proprio questi ministeri due mesi dopo hanno firmato un protocollo d’intesa per l’avvio del progetto di Firenze. Forse la professionalità dei militari (tutti chimici e farmacisti) che sono impegnati nel programma è proprio quanto serviva a sottrarre il dibattito a qualsiasi strumentalizzazione: e finalmente, perché la cannabis medica in Italia è ammessa in terapia dal 2007, ma ad oggi la sua disponibilità è tutt’altro che effettiva. E ciò in ragione di costi, di ostacoli burocratici, ma soprattutto di resistenze ideologiche: medici, farmacisti e operatori sanitari non sanno dell’esistenza di questa terapia, non ne conoscono i benefici, né la liceità dell’uso. La sfida del progetto, dunque è ardua. Per attuarla quest’anno è stato stanziato un investimento di 1 milione di euro: fondi che consentiranno di produrre fino a 400 kg di cannabis medica. Se il progetto pilota procede spedito, però, si profilano altre difficoltà per l’accesso alla terapia, a causa delle restrizioni stabilite dal ministero della Salute con un decreto del novembre scorso.
Il testo fissa i termini della coltivazione presso lo Stabilimento chimico farmaceutico, ma anche quelli di prescrizione e somministrazione. Una modalità impropria: infatti è competenza dell’Agenzia del farmaco (Aifa) approvare tali indicazioni. A ciò si aggiungono le perplessità per quanto riguarda la stima del fabbisogno nazionale che dovrebbe avvenire sulla base del quantitativo usato dai pazienti in trattamento: previsione assai limitativa, in quanto coloro che oggi ottengono legalmente la cannabis sono ben pochi. Infine il decreto individua un elenco chiuso di patologie ammesse alla prescrizione, lasciandone fuori altre per le quali pure vi è testimonianza in letteratura scientifica. E addirittura si sostiene che “i soggetti in terapia dovrebbero essere esentati dalla guida dei veicoli o dallo svolgimento di lavori che richiedono allerta mentale e coordinazione fisica per almeno 24 ore dopo l’ultima somministrazione per uso medico”. Non è chiaro se quel “dovrebbero” costituisca un divieto. In caso affermativo sarebbe un caso unico. Non esiste niente di simile per nessun’altra terapia, nemmeno con oppiacei. Insomma, il percorso per una concreta affermazione della cura a base di cannabis è ancora disseminato di ostacoli. Sebbene sembri non più reversibile.