Se si tratta di un risarcimento per il millantato credito nella formazione del Governo, bisogna far sapere a Matteo Renzi che l’indennizzo che sta pagando a Nicola Gratteri è decisamente sproporzionato alla frustrazione che il magistrato calabrese può aver subito dalla mancata nomina a Ministro della giustizia. Lasciamo per un momento da parte il metodo (su cui ha richiamato l’attenzione Lirio Abbate su L’Espresso ancora in edicola), e la surreale concorrenza di due ipotesi di riassetto del Ministero della Giustizia e dell’amministrazione penitenziaria, una maturata istituzionalmente nelle stanze di via Arenula e dovuta alla spending review del Governo Monti, l’altra in corso di elaborazione a Palazzo Chigi sotto la regia del procuratore Gratteri. Stiamo al merito della proposta Gratteri e a quel che se ne sa.
L’Amministrazione penitenziaria (un Dipartimento con circa 50.000 dipendenti, mica l’Anti-droga, che ne avrà sì e no una ventina) verrebbe abolito e sostituito da non si sa cosa. Certamente non verrebbe abolita la polizia penitenziaria che, invece, con un più ambizioso nome (“polizia della giustizia”) amplierebbe le sue competenze, dall’esecuzione degli ordini di reclusione alla ricerca dei latitanti, dal controllo dell’esecuzione penale esterna (detenzione domiciliare in primis) alla protezione dei collaboratori di giustizia e – già che ci siamo – anche dei tribunali e dei singoli magistrati. Ai commissari della polizia penitenziaria andrebbe poi la responsabilità diretta e formale degli istituti penitenziari, che verrebbero abbandonati progressivamente dagli attuali dirigenti “civili”, incanalati in un ruolo professionale a esaurimento. Nonostante l’ottima preparazione di alcuni dei giovani dirigenti della Polizia penitenziaria, finirebbe così definitivamente la mitologia del direttore dal volto umano, il Brubacker di Robert Redford, e il carcere tornerebbe a essere innanzitutto un luogo di reclusione e di sicurezza, a scapito di ogni promessa di trattamento e di rieducazione. Nessuna notizia delle altre figure professionali penitenziarie, dagli educatori agli assistenti sociali (di cui, scoprendo l’acqua calda, si dice che debbano occuparsi del reinserimento dei detenuti negli uffici di probation: ciò che già fanno), agli esperti (psicologi e criminologi) già sottoposti a turn over forzato dalle amministrazioni che si sono succedute negli ultimi due anni.
In questo modo, attraverso la “messa in sicurezza” del carcere e delle misure alternative, “con pochi accorgimenti tecnologici e impiegando i nuovi agenti, si potrebbero avere in esecuzione pena fuori dal carcere 200 mila persone”, non si sa se e di quanto riducendo i detenuti. Dopo il disincantato realismo immobiliare di Franco Ionta, che pensava di affrontare il sovraffollamento penitenziario aumentando la capienza del sistema fino a 70mila posti letto (la storia ha poi dimostrato che si potevano diminuire i detenuti e il coraggio potrebbe fare anche di più), siamo ora all’utopia negativa del raddoppio della popolazione in esecuzione penale, dagli 80-100mila degli ultimi dieci-quindici anni, ai 200-250mila del progetto Gratteri: un popolo di santi, poeti, navigatori … e malfattori in esecuzione penale.
Non sorprende questa proposta. Qualcosa era stato anticipato in un’audizione sul 41bis presso la Commissione diritti umani del Senato dove Gratteri rappresentò le sue idee sul carcere, già ampiamente criticate su queste pagine da Franco Corleone (“Il carcere del lavoro forzato”, 18 giugno 2014). Ma ora siamo alla prefigurazione di un sistema penitenziario di tipo nuovo, la cui compatibilità con i principi costituzionali in materia di pena è tutta da verificare. Un conto davvero troppo salato per l’incauta promessa di un posto da ministro.