Per coprire l’indecenza della legislazione penale di favore accordata ai colletti bianchi, la maggioranza forzaleghista che ci ha governato negli anni scorsi si è accanita contro l’emarginazione sociale, producendo una serie di norme repressive insensate, che hanno costretto la Consulta ad intervenire per riportare l’ordinamento alla legalità costituzionale. Grazie alla Consulta sono stati cancellati, tra l’altro, lo smisurato aggravamento di pena per i recidivi, l’aggravante della “clandestinità” per gli immigrati e, da ultimo, le pene irragionevoli previste dalla Fini/Giovanardi per le cosiddette droghe leggere. Ma intanto, nelle more dell’intervento risanatore della Corte costituzionale, sono passate in giudicato le condanne pronunciate in base alle norme illegittime. È nato così il problema se da queste condanne definitive deve essere eliminata la parte di pena illegittima oppure se il condannato deve scontare l’intera pena. La soluzione del problema sembrerebbe ovvia, essendo evidente che finire in carcere per scontare una pena comminata da una legge che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima, è una inaccettabile iniquità, che urta il più elementare senso di giustizia.
Ma, come si sa, nelle prassi giudiziarie il senso di giustizia non sempre riesce a prevalere sui tradizionali formalismi, sicché tra i nostri giudici è nato un contrasto. Alcune sentenze, richiamandosi “all’insieme dei principi costituzionali che regolano l’intervento repressivo penale”, ritengono che non sia “costituzionalmente giusta, e perciò eseguibile, anche soltanto una frazione della pena, se essa consegue all’applicazione di una norma contraria a Costituzione”. Altre sentenze oppongono a queste ragioni di giustizia la tradizionale “intangibilità del giudicato”, per cui in sede di esecuzione non si potrebbero ritoccare le pene irrogate con condanne definitive.
Su questo contrasto si pronuncerà il prossimo 29 maggio la corte di cassazione che dovrà dire, a sezioni unite, quale dei due orientamenti sia quello giusto. È auspicabile e prevedibile che i giudici di piazza Cavour, se non se ne laveranno le mani rimettendo la questione alla Consulta, diano la prevalenza alle esigenze di giustizia iscritte nella Costituzione.
Ma c’è da chiedersi: nel frattempo che fa la politica? Sono passati più di tre mesi dalla decisione della Consulta che ha cancellato la Fini/Giovanardi, ci sarebbe stato tutto il tempo per eliminare dalle condanne da eseguire il sovrappiù di pena irrogato in base a questa legge insensata. Invece si è emanato un decreto legge per rimodulare le tabelle, in cui si è tentato di reintrodurre per vie traverse le pene dichiarate illegittime. Il tentativo è fallito, ma ne è rimasta traccia nel preambolo del decreto, dove si sottolinea che la Fini/Giovanardi è stata bocciata dalla Consulta non per la “illegittimità sostanziale delle norme oggetto della pronuncia”, ma per la violazione dell’art. 77 della Costituzione. Come se il principio costituzionale di stretta legalità del reato e delle pene, possa essere degradato a vuoto formalismo e non sia invece il primo presidio della libertà personale.
Non meraviglia il tipo di cultura del centro destra, ma preoccupa lo spirito subalterno con cui l’alleato PD la subisce. Alla Camera la maggioranza di governo ha bocciato un emendamento di SEL che risolveva il problema delle condanne passate in giudicato e al Senato è stato nominato relatore Giovanardi, il principale responsabile dell’illegalità accertata dalla Corte costituzionale.
Di questo discuteremo domani a Roma alle 15 nella Sala di Santa Maria in Aquiro, piazza Capranica,72.
Dossier Fini-Giovanardi sul sito de La Società della Ragione.