“Siamo solidali con la Senatrice Leila de Lima detenuta ingiustamente da 1000 giorni dal governo del presidente Rodrigo Duterte con accuse motivate politicamente per via della sua critica alla più sanguinosa guerra alla droga degli ultimi anni”. Questo l’appello che circola in questi giorni – firmato anche da molte ONG italiane – per aggiungere una pressione internazionale a quella politica locale e chiedere la liberazione di una leader dell’opposizione filippina.
Il Governo di Manila inizia ad avere difficoltà nazionali e internazionali con le pretese di impunità di fronte alla violenza proibizionista di Stato che dal 2016 ha visto poliziotti, militari e squadroni della morte coinvolti nelle uccisioni di oltre 5000 persone perché “drogati” o “spacciatori” – morti che stime indipendenti ritengono essere oltre 27000.
Alla fine di ottobre scorso, il Presidente Duterte ha deciso di nominare Leni Robledo, la sua vice-Presidente che appartiene all’opposizione e la cui elezione è stata contestata dal regime per mesi, a capo delle politiche anti-droga delle Filippine. La scelta può esser letta come un’ammissione delle difficoltà crescenti a seguito dei propri metodi forti o come il desiderio di incastrare un’avversaria politica. Fatto sta che Robledo ha accettato, o ci è cascata, e che quindi la “guerra alla droga” non sarà più come prima.
Il traffico di stupefacenti che arriva o passa attraverso le Filippine è nelle mani di cartelli internazionali ben organizzati e altrettanto ben infiltrati nei gangli del regime. A metà ottobre il capo della polizia Oscar Albayalde è stato arrestato perché coinvolto in un giro di metanfetamine. Sebbene negli ultimi due anni molti funzionari siano stati licenziati, arrestati o allontanati perché contigui alle narco-mafie, la guerra ai drogati e ai piccoli venditori di pasticche è rimasta una delle priorità delle violenze di Duterte.
Le condotte criminali del Presidente delle Filippine sono state compilate da esperti nazionali e internazionali e sottoposte all’attenzione del Procuratore della Corte penale internazionale. L’idea, lanciata alla Commissione Onu di Vienna nella primavera del 2017 dalla DRCNet Foundation, No Peace Without Justice e l’Associazione Luca Coscioni, fu sostenuta anche dalla Robledo che in quell’occasione aveva inviato un messaggio con critiche durissima alle politiche di Duterte. Il video della vice-presidente creò problemi diplomatici alle Nazioni Unite per la delegazione governativa ma, grazie alla sua pubblicità, concorse a esporre a livello internazionale le violenze nelle Filippine aggiungendo elementi fattuali alle critiche politiche della società civile inorridita dal livello di violenza raggiunto contro la “droga”.
Duterte rimane popolare, l’uomo forte che oggi si oppone a Trump e domani alla Cina, che viene dal popolo, non si cura delle parole del Papa e si proclama salvatore dell’integrità morale di un paese che ha spesso avuto pessimi governanti, non teme rivali. Un padre padrone che però non è ancora riuscito a distruggere quel minimo di agibilità civica e politica dell’ex colonia statunitense.
La De Lima è stata la prima prigioniera politica dell’era Duterte, per incastrarla son state avanzate accuse, mai provate, di collusione coi trafficanti di droga. La senatrice è del Partito Liberale, lo stesso della vice-presidente che oggi gestisce la lotta alla droga nelle 7600 isole dell’arcipelago. Le prossime elezioni presidenziali nelle Filippine saranno nel 2022, nei prossimi mesi le due donne, oggi incastrate in dinamiche politiche difficili da prevedere, sono chiamate ad arginare l’autoritarismo violento di un ciclotimico criminale che fa strame dello Stato di diritto. Anche se non sono facilmente impressionabili, senza aiuti esterni sarà difficile che ci possano riuscire.