A giorni, la Corte costituzionale sarà chiamata ad esprimersi sulla legittimità della legge con la quale, nel 2014, si pose fine alla tragica storia di un’istituzione tra le più dannose nel panorama novecentesco. Gli ospedali psichiatrici giudiziari erano nati al principio del secolo scorso ed erano stati pensati per controllare e curare il folle – reo, ovvero l’autore di reato infermo di mente. Seguiva la non imputabilità e l’etichetta di pericoloso socialmente. Implacabili luoghi di confino per persone bisognose di cura, gli ospedali psichiatrici giudiziari resistettero a lungo, impedendo il recupero del reo folle.
Finalmente il legislatore, grazie ad una decisiva inchiesta condotta da una Commissione del Senato, ne sancì la morte definitiva, sette anni fa. Così come fu per la legge Basaglia, tuttavia, il Parlamento non volle sostituire un’istituzione totale con un’altra. Così la nascita delle Rems non rappresentava l’alternativa per rispondere all’equivoca domanda di sempre: dove mettere le persone con disturbo mentale che hanno compiuto un delitto? La legge 81 del 2014 offriva risposte ad una domanda del tutto diversa: cosa serve per curare e far stare meglio questo persone? Si puntò così su soluzioni nuove: piani terapeutici individuali, così da tener conto delle storie di chi soffre, degli ambienti dove è vissuto e cresciuto, dei loro bisogni; presa in carico da parte dei Dipartimenti di Salute Mentale, prescindendo dagli internamenti oppressivi, tipici delle psichiatrie tradizionali; piccoli luoghi ad alta intensità terapeutica pensati per approfondire la diagnosi, per elaborare un piano di azione socio psichiatrico integrato, per gestire eventuali fasi acute.
Ora, un’ordinanza di un giudice di Tivoli pone dubbi su questa coraggiosa opera di de-istituzionalizzazione. Ma dietro il sipario di complesse questioni poste alla Corte costituzionale, si intravede il grande tema: l’istanza di aumentare l’offerta dei posti letto nelle Rems, per far fronte alle liste di attesa che non consentono di assicurare la quota intera del controllo sociale stabilito dalla magistratura giudicante. La Corte, con un’ordinanza interlocutoria, ha acquisito, tra l’altro, i dati relativi alle misure di sicurezza non eseguite per mancanza di luoghi ove ricoverare i non imputabili. Nei prossimi giorni giungerà la decisione definitiva dei giudici costituzionali. La speranza è che la scelta di politica legislativa del 2014, tanto sofferta, regga l’urto. Ma perché quell’avanzamento sociale resista vi è bisogno che la Corte costituzionale colga lo spirito unitario dell’opzione di politica legislativa di sette anni fa. Basterebbe rievocare la geniale intuizione basagliana, secondo cui quando aumenta l’offerta di posti nelle istituzioni del contenimento, la domanda segue e subito si adegua. Il tutto esaurito non basta mai alla famelica crescita delle istanze di controllo sociale e di privazione della libertà. Si dirà: e allora, quali le risposte effettive? Il sentiero fu tracciato nel 2014 e fu confermato da una lungimirante delibera del Consiglio Superiore della Magistratura che parlava ai giudici penali. La soluzione del ricovero coattivo in Rems deve essere residuale, va disposta solo se nessun’altra soluzione offerta dai Dipartimenti di salute mentale si profila efficace. Al centro deve restare il bisogno di assistenza terapeutica individuale. Sarebbe vitale riaffermare la necessità, anzi, di sostenere con i programmi del Pnrr proprio i Dipartimenti, spesso divenuti presidi di risposta sanitaria posti ai confini delle metropoli, sovente con il compito proibitivo e solitario di riassorbire la disperazione annodata alla sofferenza psichica. Qui sta la sfida. Prima di provare a vincerla, servirebbe un segnale di consapevolezza autorevole e aperto alla condivisione che scongiuri i rischi di regressione culturale.