“Oggi, in Italia, le carceri si chiamano casa. L’idea di questo appellativo sorse durante i lavori preparatori che sfociarono nella Riforma [penitenziaria] del 1975. Si trattava dell’ennesima riforma carceraria che i politici del tempo volevano far apparire come un impegno di rinnovamento più marcato di tutte le riforme precedenti”. È così che Giuseppe Di Gennaro, già magistrato e tra i dirigenti dell’Amministrazione penitenziaria, scriveva in un articolo dal titolo: La casa dei detenuti, apparso sulla Rivista della Fondazione Giovanni Michelucci: “La Nuova Città” nel dicembre 1998 (VII Serie, n. 2/3).
“Ma la gente, il popolo” – proseguiva Di Gennaro – “non sembra si faccia convincere da questa cosmesi verbale e con brutale sincerità conia espressioni che non velano la sostanza”, continuando ad appellare il carcere come gabbio, serraglio, galera.
Quell’articolo seguiva un interessante convegno organizzato a Fiesole, il 22 novembre 1997, dalla medesima Fondazione, dalla Regione Toscana e dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria dal titolo: Architettura e carcere: gli spazi della pena e la città.
A molti anni di distanza, il tema dell’architettura penitenziaria appare ancora di estrema attualità, sia per l’effettivo stato in cui versano molte strutture, sia per i disagi aperti dall’emergenza pandemica, sia per le risorse previste dal PNRR per l’edilizia carceraria e indirizzate, nel periodo 2022-2026, alla costruzione o al miglioramento di padiglioni e spazi presso gli istituti detentivi per adulti e minori. Questo orientamento ripropone il consueto, annoso, dibattito circa l’opportunità di edificare nuovi spazi entro carceri esistenti, con il rischio di aggravarne vivibilità e gestione complessive, e la prospettiva di costruire nuovi edifici. Il tema dell’edilizia penitenziaria è delicato, complesso, e si agita assieme agli allarmi sociali, sovente sollecitati e declinati dalla ricerca di un consenso politico, quasi mai colto quale elemento centrale di una discussione volta a dare concreta attuazione a quel che resta, per l’appunto, della Riforma penitenziaria. Gli spazi ed il tempo della pena danno forma alla quotidianità delle persone, al loro benessere, al trattamento generale, così come al trattamento rieducativo e alla possibilità di aspirare ad un autentico reinserimento sociale.
Gli ultimi anni, caratterizzati dalle Sentenze della CEDU, dai lavori degli Stati generali dell’esecuzione penale e dalle mancate riforme, dalle nuove spinte al sovraffollamento e da una problematica gestione delle carceri che ha visto il succedersi di gravissimi episodi di violenza e di morte negli istituti penitenziari, rendono urgente una nuova ed incisiva riflessione sull’architettura carceraria, volta a restituire piena dignità a quanti abitano i luoghi della pena.
L’idea di ieri di individuare gli istituti di pena come Case circondariali o di reclusione, deve oggi interrogare su quanto dette strutture continuino ad essere distanti dal rappresentare autentici luoghi di vita, dignitosi e non esposti ad alcuna declinazione afflittiva.
Il Convegno nazionale promosso dalla Fondazione Michelucci, in collaborazione con Sapienza Università di Roma, intitolato: Abitare il carcere – Gli spazi della pena nella società digitale, in programma il 16 giugno 2022 a Roma (https://www.michelucci.it/2022/05/13/convegno-abitare-il-carcere-roma-16-giugno/), intende quindi promuovere una riflessione sul rapporto tra la fissità del carcere e il dinamismo della società contemporanea. Il Convegno vuole sviluppare un’analisi critica sull’architettura e sull’edilizia penitenziaria, a partire dagli esiti e dalle effettive ricadute dei Piani carceri, dalle proposte mosse dagli Stati generali, nonché dai recenti lavori delle Commissioni per l’Architettura penitenziaria e per l’Innovazione del sistema penitenziario