Cresce l’attesa per la riunione della Commissione sulle droghe narcotiche (Cnd) dell’Onu, con la partecipazione straordinaria di ministri e capi di governo, che si svolgerà a Vienna dal 10 al 12 marzo: lì sarà decisa la strategia globale antidroga per i prossimi dieci anni. E crescono le tensioni, non solo fra i paesi del blocco riformista (quasi tutti gli stati dell’Unione Europea) e quelli del “pugno duro” (Usa, Russia, Cina in testa); ma anche fra gli stessi organismi delle Nazioni Unite, come dimostra la lettera ufficiale, inviata poco prima di Natale alla presidenza della Cnd dal Rapporteur sulla tortura, Manfred Nowak e da Anand Grover, Rapporteur sui diritti alla salute. I due operano nell’ambito dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani e proprio in nome di questi essi criticano i documenti politici destinati ad essere approvati al meeting di marzo (in via di stesura definitiva in queste settimane): a cominciare da quello più importante, la dichiarazione politica, che omette la condanna delle più frequenti violazioni dei diritti fondamentali delle persone, perpetrate in varie parti del mondo sotto il vessillo della “lotta alla droga”.
La prima critica riguarda la salute dei consumatori. I Rapporteur denunciano il silenzio sulla riduzione del danno, in particolare sullo scambio siringhe e sui programmi con metadone per prevenire la infezione di Hiv. “La stragrande maggioranza delle persone che ne avrebbero necessità non hanno a disposizione questi servizi – scrivono Nowak e Grover –per non parlare dei detenuti, che possono accedere alle siringhe pulite solo in 8 paesi e al metadone solo in 33 stati del mondo”. E’ una critica che riguarda anche paesi leader come gli Stati Uniti, dove non sono previsti fondi federali per lo scambio siringhe; e da cui, in deprecabile coerenza, provengono le più fiere resistenze ad adottare le pratiche e il linguaggio della riduzione del danno a livello internazionale.
L’altra denuncia concerne gli abusi nell’applicazione delle norme penali, compresa l’estradizione verso i paesi che praticano la pena di morte o non hanno adeguati standard di diritti civili. Ebbene, la Convenzione contro la tortura e le pene degradanti, così come la Convenzione Internazionale sui diritti politici e civili, prevedono l’assoluta proibizione di deportare una persona in uno stato dove si applichino trattamenti penali inumani (il principio di non refoulement). Ma la bozza di dichiarazione politica della Cnd non cita questo principio come limite invalicabile alla repressione antidroga, avallando di fatto i numerosi casi di violazione.
La panoramica mondiale delle crudeltà perpetrate nel mondo è agghiacciante: dalle azioni violente al di fuori della legge come quelle intraprese in Tailandia nel 2003, che portarono all’uccisione di 2275 “trafficanti” (1400 dei quali non avevano niente a che fare con la droga, si scoprì in seguito); all’applicazione della pena di morte per reati di droga in vigore in ben 33 paesi (fra cui Cina, Malesia, Singapore), in evidente disprezzo della dovuta proporzionalità fra i delitti e le pene; fino all’uso delle crisi di astinenza per estorcere informazioni e confessioni, come capita in Ucraina, Russia e Kazakistan, o alla repressione applicata in maniera discriminatoria contro le minoranze: secondo Human Rights Watch, gli Afro americani costituiscono il 62% di tutti i detenuti per droga nelle prigioni statunitensi, contro il 34% di bianchi.
L’intervento dei due garanti internazionali va ben oltre gli specifici appunti ai documenti della Cnd: esso porta alla luce il conflitto di fondo fra il mandato generale delle Nazioni Unite, di promozione dei diritti umani, e quello specifico sulle droghe, regolato dalle convenzioni internazionali proibizioniste e fortemente repressive: che spingono alla negazione di quegli stessi diritti che si vorrebbero tutelare. Un conflitto finora rimasto nell’ombra, facendo di fatto prevalere le ragioni della “guerra” su quelle della “pace”. C’è da augurarsi che Vienna 2009 rappresenti finalmente una svolta.
Articolo di Grazia Zuffa
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