Da quando Rodrigo Duterte è stato eletto Presidente delle Filippine il 30 di giugno scorso, in quel paese è in corso una campagna di esecuzioni extragiudiziali in nome della “guerra alla droga”. In un paio di mesi circa sono stati uccise circa 3.400 persone, tra “spacciatori” e “drogati”, mentre più di 700.000 filippini si sono consegnati “spontaneamente” alle autorità per paura di cadere vittime della campagna di incitamento alla violenza.
Nel mese di aprile scorso, parlando a una grande folla nella sua città natale di Davao, Duterte aveva invitato i filippini a uccidere direttamente gli spacciatori che resistevano all’arresto o rifiutavano di essere portati nelle caserme della polizia esortando i presenti a “non esitate a chiamare la polizia” oppure, se in possesso di una pistola di “fare da soli”. Purtroppo, da luglio, dalle parole si è passati ai fatti. Il giorno dopo l’inaugurazione della sua presidenza, Duterte ha detto a un gruppo di poliziotti: “fate il vostro dovere contro gli spacciatori e se nel farlo vengono uccise 1.000 persone io vi proteggerò”. Nello stesso giorno messaggi simili, ma contro i tossicodipendenti, furono gridati davanti a una folla plaudente.
Non tutti i filippini la pensano però come Duterte per fortuna. La senatrice Leila de Lima, che in passato aveva condotto delle indagini indipendenti sulle attività degli squadroni della morte a Davao, ha organizzato delle audizioni parlamentari sulle uccisioni. Adesso teme per la sua sicurezza perché Duterte ha lanciato una campagna diffamatoria nei suoi confronti accusandola di traffico di droga, un’accusa tra le più pericolose di questi tempi nelle Filippine.
A metà agosto la polizia aveva indagando solo 22 casi di queste vittime della “guerra alla droga” mentre il totale delle persone uccise era già di 1.500. La Commissione per i diritti umani del parlamento filippino ha aperto una sua indagine, ma i numeri son tali per cui i lavori son ingolfati. Al contempo, numerose organizzazioni per i diritti umani sono state ostacolate nelle loro attività di ricerca e la situazione della sicurezza degli investigatori indipendenti è critica.
Tra i progressi degni di nota delle Filippine c’è (c’era?) anche la partecipazione alla Corte penale internazionale – che ha giurisdizione su crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità, ma non sul narcotraffico. Le Filippine hanno firmato lo statuto nel 2000 e ratificato il Trattato di Roma nel 2011. In caso in cui i crimini di competenza della Corte siano sistematici e su vasta scala, e non vengano o non possano essere presi in carico dal sistema nazionale, il procuratore dell’Aia può esser attivato.
Nell’anno in cui le Nazioni Unite, in una sessione speciale dell’Assemblea generale sulle droghe, hanno sancito il passaggio alla promozione delle alternative al carcere per chi usa le sostanze e hanno iniziato a porsi il dubbio che la “guerra alla droga” crea violazioni di diritti umani, queste uccisioni di massa devono cessare.
Occorre inoltre che la Corte penale internazionale venga interessata formalmente al caso Filippine e che possano iniziare delle indagini indipendenti secondo i più alti standard della giustizia internazionale per individuare le responsabilità politiche e fattuali di questi crimini contro l’umanità.
L’Italia, che tanto ha fatto per l’istituzione della Corte, deve sostenere il lavoro delle organizzazioni non-governative che stanno lavorando a un dettagliato dossier su Duterte da inviare all’Aia.