Si riuniscono in gruppi rumorosi, ricorrono di frequente a insulti e blasfemità, usano termini offensivi, razzisti e sessisti, il loro atteggiamento è provocatorio e può capitare che risultino maneschi, al limite della violenza. Li vediamo all’opera, in città, nei piccoli centri urbani e anche in zone rurali dalla densità abitativa rarefatta. Sono le bande di anziani, un fenomeno in costante crescita, in un paese come l’Italia, dove l’età media è di 48 anni e oltre un quarto della popolazione è ultrasessantacinquenne.
Una silente rivoluzione: mai nella storia dell’umanità si erano date le condizioni non solo per un tale allungamento dell’età di vita, ma anche perché si creasse una così forte sproporzione tra anziani e nuovi nati. Una forza tale da incidere de facto sulla nostra percezione della normalità.
Nonostante il loro numero sempre più esiguo i giovani costituiscono un polo d’attrazione irresistibile per i media italiani, tanto che si è ritenuto necessario trovare una categoria più specifica della generalista e già discriminatoria youth gang utilizzata in tutti gli stati occidentali. In Italia si è coniata la dicitura “baby gang”, forse con l’intenzione di suscitare maggiore scandalo richiamando l’accostamento tra innocenza e devianza.
Sono esseri rari i giovani, forse per questo fa uno strano effetto vederli raggruppati, a ostentare atteggiamenti così lontani da quanto ci aspetteremmo: insolenti, insoddisfatti, provocatori.
La criminalizzazione della “gioventù” accompagna la categoria fin da quando è stata forgiata, in quella fase specifica della modernità tratteggiata da Jon Savage: inurbamento, progressivo ampliamento dell’accesso alla scolarizzazione (e della lunghezza del tempo dedicato alla formazione) unite a modalità di consumo inedite che, oltre a essere identitarie, rappresentano l’unico livello di presenza pubblica e quindi di eventuale manifestazione del dissenso per chi non partecipa del tessuto produttivo.
Sono stato parte del gruppo di ricerca che si interrogava sul fenomeno dei comportamenti a rischio di ritiro sociale nell’ambito di un progetto del Gruppo Abele che ha dotato di un set di quesiti appositi l’indagine ESPAD® condotta in Italia dal CNR. Diverso tempo è stato speso nel riflettere sui pregiudizi che caratterizzavano un gruppo di adulti cresciuti tra gli anni ’80 e ’90 che cercavano di comprendere forme e modalità di socialità di nativi digitali per i quali la suddivisione concettuale tra ambiente online e ambiente offline non ha alcun significato.
Pregiudizi che emergono regolarmente nei focus group territoriali che precedono l’attivazione dei progetti di educativa di prossimità che, come Università della Strada, promuoviamo in vari territori. Adulti che tracciano i confini di ciò che è lecito e ciò che non lo è, proiettando aspettative nei confronti dei giovani frutto di un mix tra nostalgia adolescenziale e giudizio morale.
Ai giovani è lasciata la possibilità di accesso allo spazio pubblico ma secondo modalità precise, che li vogliono soggetti docili e passivi, né troppo assenti, né troppo presenti.
È sotto gli occhi di tutti come la normalizzazione del comportamento giovanile abbia subito un’impennata dal punto di vista normativo: dall’introduzione del reato di “Rave Party” alle recenti negazioni di accesso sia allo spazio, inteso in senso concreto tramite il daspo urbano, che allo spazio-tempo della gioventù, con la progressiva estensione ai minori di misure pensate per gli adulti.
Se ancora non sono scomparsi dal punto di vista anagrafico, a minacciare la sopravvivenza dei giovani contribuiscono una retorica e una politica sempre più pervasive che rischiano di farli scomparire come entità, rendendoli semplici proiezioni di ciò che una società di ultracinquantenni ha immaginato per loro.
*Antropologo, Università della Strada Gruppo Abele