Sono di ritorno dalla Otranto Legality Experience (Ole, l’evento internazionale organizzato da Libera e dalla rete europea Flare), dove ho avuto l’opportunità di discutere con i tanti giovani che partecipavano all’iniziativa: una bella esperienza di confronto su un tema difficile come quello delle droghe, ad iniziare dalle parole chiave. Come si può declinare la parola legalità (e rispetto della legalità) nel campo di sostanze che la legge dichiara illegali (dal consumo, al traffico, passando per lo spaccio)? Già questa domanda obbliga a riflettere, evitando il rischio di letture banalizzanti del termine. “Legalità” può, e deve, significare la tensione verso una società fondata sui diritti umani fondamentali delle persone, in cui non è ammessa la sopraffazione di alcuni sugli altri, e neppure dello Stato sulla libertà dei cittadini. Il che reca con sé il monito a tutti, specie ai governanti, perché le leggi (e la loro applicazione) si ispirino a questi principi fondanti della convivenza umana. In tale accezione, chi si batte per la legalità opera in spirito libero e critico nei confronti delle regole di cui una società si dota, seguendo una prassi di cittadinanza attiva: esercitando forme di controllo (democratico) affinché tutti, e lo Stato in primis, osservino i “principi generali di legalità”. Come ha detto giustamente un ragazzo durante i lavori di Ole: per me “legalità” significa rivendicare il diritto all’obiezione di coscienza verso leggi che considero ingiuste!
Se invece non è così, se l’appello alla legalità si riduce a ribadire l’obbedienza (acritica) dei cittadini alle leggi vigenti dello Stato, la cittadinanza rischia di mutarsi in sudditanza. Nel delicato campo della legge penale, la legalità può tramutarsi nell’appello alla “durezza della legge” tout court. Chi non ricorda la vergognosa campagna contro l’indulto del 2007? Una misura dovuta contro il sovraffollamento delle carceri e la violazione dei diritti umani dei detenuti è stata esposta al ludibrio pubblico come “benevolenza e lassismo verso i criminali”. Nel campo delle droghe, il fossato fra le due concezioni di legalità è profondo come non mai. Le convenzioni internazionali di controllo penale delle droghe, alla base delle legislazioni nazionali, si sono dimostrate uno strumento formidabile di controllo dei consumatori e di sottomissione dei gruppi più deboli della popolazione in ogni parte del mondo. In nome dell’emergenza droga, le leggi hanno operato uno strappo al diritto e alle garanzie individuali, richiamando altri strappi a cascata: come la sproporzione delle pene per reati di droga, fino all’applicazione pena di morte. Sono di terribile monito le esecuzioni pubbliche di massa in Cina per “celebrare” la giornata internazionale di lotta alla droga.
Quando “legalità” fa tutt’uno con “giustizia” e “diritti umani”, l’orizzonte non può essere che il superamento del regime di proibizione delle droghe. Una concezione ben diversa da quella dei sindaci che il 26 giugno scorso hanno issato sui pennoni municipali lo slogan di condanna dei consumatori di droga “complici delle mafie del narcotraffico”. Un ignobile esercizio di biasimo delle vittime, come ha scritto Susanna Ronconi in questa rubrica (4 luglio). E un fulgido esempio di cretineria politica degli epigoni italioti del tough on drugs, che ormai vacilla in tutto il mondo.