Se l’approccio incongruamente afflittivo del sistema giuridico si rivela in ogni suo contorno nel Testo unico sugli stupefacenti, è nella “doppia conforme” di quello sull’immigrazione che conferma la propria sublimazione. Del resto, stranieri e detentori di sostanze stupefacenti – a tacer di terroristi e appartenenti alla criminalità organizzata – rientrano a pieno titolo nella categoria dei “nemici” dell’ordine pubblico e della sicurezza, i cui diritti e le cui garanzie sono ritenuti secondari rispetto al simbolismo penale e alla corsa legislativa alla rassicurazione dell’elettorato sensibile ai temi securitari.
Ancora una volta la ragionevolezza è prevalsa grazie a una sentenza della Corte Costituzionale, la n. 88/2023 depositata l’8 maggio scorso, con la quale è stata dichiarata l’incostituzionalità degli articoli 4, comma 3 e dell’art. 5, comma 5 del decreto legislativo 286/98 nella parte in cui determinano l’automatico rigetto della richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro nel caso di uno straniero precedentemente condannato ai sensi dell’art. 73 comma 5 D.P.R. 309/90 per condotte di lieve entità connesse allo spaccio di stupefacenti.
L’art. 4 comma 3 prevede che non è ammessa la permanenza in Italia dello straniero che risulti condannato, anche con sentenza non definitiva, per “reati inerenti gli stupefacenti”, tout court. La Consulta, nel dichiarare l’illegittimità di questa previsione, ha affermato che non è ammessa l’automatica ostatività di una condanna se questa sacrifica in modo ingiustificato i diritti fondamentali dello straniero prescindendo da una valutazione concreta della sua pericolosità sociale. Difatti, la precedente condanna per un reato inerente agli stupefacenti non è di per sé indice della minaccia all’ordine e alla sicurezza pubblica da parte del suo autore. Il diniego di rinnovo del permesso di soggiorno, applicato automaticamente costituisce misura irragionevole e sproporzionata che, in quanto tale, è discriminatoria.
In altre parole, la Corte costituzionale ha finalmente dato atto della mutata percezione sociale e giuridica dei fatti legati agli stupefacenti che per quantità, qualità o modalità della condotta risultano di offensività esigua o inesistente e pertanto non giustificano un ulteriore sacrificio dei diritti del condannato.
Per altro verso, non pare casuale che la sentenza sia intervenuta tre giorni dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Decreto Cutro, con il quale il Governo ha cancellato dall’art. 19 del Testo unico sull’immigrazione il permesso di soggiorno per protezione speciale. Essa veniva concessa in tutti i casi l’espulsione dal territorio italiano avrebbe comportato la lesione dei diritti dello straniero e la violazione del suo diritto al rispetto della vita privata e familiare tutelato dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti umani.
Alla Presidenza del Consiglio dei Ministri – intervenuta nel giudizio di costituzionalità per ribadire che i reati in materia di stupefacenti continuano a destare allarme sociale – la Consulta ha voluto ricordare che malgrado l’eliminazione testuale dell’art. 8 della Convenzione europea, esso è principio immanente al sistema che opera attraverso il parametro dell’art. 117 Cost., norma che impone all’Italia di rispettare i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
In nessun caso la tutela della convivenza sociale, potrà dunque giustificare l’automatico diniego di rinnovo del permesso di soggiorno per un reato che, pur se contemplato nell’elenco dei reati ostativi, non è in sé necessariamente sintomatico della pericolosità sociale del suo autore. Figuriamoci se trattasi di un reato “senza vittime” quali sono quelli connessi agli stupefacenti.
Su fuoriluogo.it il commento di Hassan Bassi.
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