Tra i presidi del nostro ordinamento si iscrivono i rigorosi e inderogabili confini, costituzionalmente stabiliti dall’art. 13, a ogni limitazione della libertà personale, che può essere compressa dall’autorità giudiziaria solo nelle forme e nei casi stabiliti dalla legge. La società civile, comunque, è consapevole di dover sempre mantenere alta l’attenzione sui rischi di arbitrii e ingiustizie che si registrano nei contesti di restrizione della libertà personale, poiché il piano formale delle garanzie costituzionali spesso si scontra con quello sostanziale di abuso e sopraffazione.
V’è oggi uno spazio di irragionevole e sproporzionata compressione della libertà personale che rimane invisibile, o addirittura normalizzata: a seguito di valutazione di psicologi forensi che accusano le madri, spesso in fuga con i figli dalla violenza domestica, di condotte alienanti, manipolatorie o “disturbi relazionali”, i tribunali civili e minorili ordinano l’esecuzione coercitiva di provvedimenti di allontanamento dei figli, contro la loro volontà, per collocarli presso il padre o in case famiglia, con divieto di contatti e incontri con la madre, ritenuta responsabile del rifiuto dei figli nei confronti del padre. Si vede in azione così l’effetto secondario della patologizzazione e criminalizzazione senza reato (dal momento che il plagio che di fatto si invoca, è fattispecie espunta dal nostro ordinamento dalla Corte costituzionale), prodotta dai provvedimenti civili e minorili a carico della figura materna: sulla presunzione che, se l’autorità giudiziaria è giunta a una decisione così drastica, quest’ultima sicuramente “qualcosa avrà fatto”. In queste operazioni, spesso coordinate da tutori, curatori e servizi sociali, con l’intervento delle forze dell’ordine e personale sanitario, il pregiudizio contro le donne si traduce non solo nel dispiegamento di sorveglianza e contenimento (fino al trattamento sanitario obbligatorio nei riguardi delle donne coinvolte), ma anche nell’uso illegittimo della coercizione fisica e psicologica, ossia di violenza, nei confronti delle persone minorenni, ridotti a res oggetto di esecuzione.
La Corte di cassazione (ord. 24/3/22 n. 9691) ha chiarito che l’esecuzione con la forza dell’allontanamento coercitivo dei figli da un genitore, in assenza di concreto pregiudizio, è da ritenersi estraneo allo Stato di diritto: ciò vuol dire che la pratica è in sé estranea all’ordinamento stesso per la sua portata violenta e autoritaria.
Nonostante ciò, sono ancora diffuse prassi che espongono persone minorenni a trattamenti inumani e degradanti motivati dal loro superiore interesse, svuotato di ogni aderenza al bene di rango costituzionale del concreto «benessere dell’infanzia» (art. 32 Cost.); e, cosa che allarma ancora di più, le stesse prassi diventano oggetto di linee guida e tavoli di lavoro per la loro “regolamentazione”, come appena annunciato dal Garante nazionale dell’infanzia e dell’adolescenza. Questa iniziativa, che si traduce di fatto nella scelta di normalizzare pratiche senza alcuna legittimità costituzionale, svela la persistente incapacità dell’ordinamento giuridico, e con esso della società tutta, di riconoscere bambini e bambine quali soggetti di diritto con una voce propria autodeterminata. Si susseguono carte, dichiarazioni, opuscoli nei quali si sintetizzano i loro diritti e le loro libertà fondamentali, ma la loro voce rimane silenziata e, non di rado, soverchiata da quella del padre violento.
Per cambiare il discorso giuridico su queste pratiche autoritarie, non si può non affrontare la questione del pregiudizio sessista che colpisce le loro madri. D’altra parte, solo grazie alle riforme promosse dal movimento delle donne per abbattere gli istituti della patria potestà e della potestà maritale, i bambini e le bambine sono stati “visti”, per la prima volta, come soggetto di diritto.