Da tempo si registrano casi di cronaca che riguardano minori allontanati contro la loro volontà dalla casa e dal genitore con cui vivevano, per decisione di tribunali nelle cause di separazione fra coniugi: per trasferirli nella casa dell’altro genitore in alcuni casi; in altri, in una comunità, con restrizioni di rapporto col genitore da cui sono stati allontanati, che possono giungere fino al divieto di contatto per molto tempo. Lo sconcerto nasce sia per la gravità dell’intervento coatto sulla vita del bambino, sia per il ricorso imponente alla forza con cui è a volte eseguito: con utilizzo delle forze dell’ordine, ambulanza, vigili del fuoco, abbattimento di porte, immobilizzazione del minore.
Questi fatti possono essere analizzati da diversi punti di vista, non ultimo quello della differenza di genere poiché nella stragrande maggioranza di questi casi i bambini sono allontanati dalla madre. Entrano anche in gioco la violenza di genere e la (scarsa) considerazione da parte dei giudici della violenza in famiglia: col risultato che in nome del principio di “bigenitorialità” e dei “diritti di padre” del coniuge maltrattante si ignorano i contorni reali della sua relazione coi figli, non si dà peso alle paure dei bambini, si chiudono gli occhi sui rischi che i piccoli possono correre : il caso del bambino di Varese ucciso dal padre la notte di Capodanno parla da sé.
Scelgo però di partire dal punto di vista del minore che subisce queste decisioni, per una riflessione di carattere etico, trattandosi di soggetti vulnerabili, il cui benessere è sotto la responsabilità – e il potere- di altri.
Come la legge giustamente prevede, il minore può essere tolto dalla famiglia anche contro la sua volontà e in nome del suo “superiore interesse”, ma solo di fronte a fatti eccezionalmente gravi, come maltrattamenti o dimostrazioni di trascuratezza da parte dei genitori. Ma i casi cui ci riferiamo di trasferimento forzato non sono motivati da comportamenti accertati a danno del minore, bensì da interpretazioni circa la dinamica relazionale fra il bambino e i due genitori in via di separazione. Sulla base di costrutti psicologici senza alcuna fondatezza scientifica, le eventuali difficoltà e resistenze del bambino al rapporto con uno dei genitori – in genere il padre- sono ricondotte alla cosiddetta sindrome di “alienazione parentale”, che si presume indotta dalla “madre malevola”, manipolatrice e “ostativa” (al rapporto del bambino col padre). Si attua così la patologizzazione del sentire del minore, che lo ammutolisce del tutto come soggetto. Con una serie di conseguenze: se la sua parola è pregiudizialmente invalidata, decade il diritto di essere ascoltato, e, insieme, il dovere delle autorità di indagare sugli eventi traumatici che possono dar conto delle sue paure. Il bambino è “malato” e al tempo stesso “colpevole” (insieme alla madre) di non adeguarsi alla “norma bi-genitoriale”. Con ogni evidenza, questa idea è parente degli assunti e delle relative pratiche punitive della psichiatria dello scorso secolo, utilizzate per correggere “gli anormali”, per dirla con Foucault. In altri termini, l’annichilimento del pensiero e dei sentimenti del minore, in una parola della sua soggettività, è congruente con lo smodato ricorso alla forza nell’esecuzione dei provvedimenti; ma anche con lo smodato esercizio di potere nel comprimere la libertà personale del minore, quale si manifesta nel costringere un bambino a separarsi dagli affetti più cari e a lasciare il suo ambiente di vita. Nascono da qui inquietanti interrogativi etici: come è possibile ridurre il bambino/bambina a oggetti da trasferire forzosamente al fine di favorire una relazione altrettanto forzosa con un genitore? Come non rendersi conto che la responsabilità nei confronti dei minori richiama la limitazione del potere su di loro, non il contrario?