Il paese attraversa la fase forse più delicata della crisi sanitaria, in un clima di sconcerto, se non di sfiducia. Nessuno, nell’aprile 2020, immaginava che le cifre dei morti di quei giorni ce le saremmo ritrovate quasi identiche nell’aprile 2021. Quanto alla campagna vaccinale, la caccia al furbetto, cavalcata dallo stesso presidente del Consiglio, si rivela per quello che è: il goffo tentativo di coprire il vero problema della scarsità dei vaccini (con relative responsabilità, europee e non solo).
Non è però tempo di recriminazioni, né contro novelli untori, né contro istituzioni pachidermiche; quanto di seria riflessione sull’anno trascorso, per trovare la bussola delle politiche pubbliche.
Per cominciare, smettiamo di evocare le “uscite dal tunnel”: i vaccini saranno un grande aiuto, ma con il virus dovremo ancora fare i conti. Basta guardare al Regno Unito: grazie a un efficace piano vaccinale ha abbattuto morti e contagi, ma già sta preparando per l’autunno una nuova campagna di rivaccinazione contro le varianti. Dunque, il vero problema è di ricalibrare una strategia di governo della salute pubblica sui tempi lunghi: un governo “ordinario”, non “straordinario”.
Il che comporta innanzitutto di sbaraccare la scena attuale della politica, con le ragioni della salute versus quelle dell’economia; dei lockdown a oltranza, opposti alle aperture innanzi tempo; della scienza (e della solidarietà verso i più fragili), contro il negazionismo/individualismo. È più complicato di così e oggi è più chiaro di ieri: anche i lockdown, con la messa al bando della socialità, pongono una serie di ipoteche sulla salute, specie dei soggetti più fragili. Per i bambini, socializzare non è un lusso, a scuola e nel dopo scuola. Per gli anziani ricoverati, rimanere per mesi rinchiusi senza vedere i familiari può significare un decadimento senza ritorno. Dunque, un governo della salute, ispirato alla tanto invocata scienza, deve bilanciare i diversi determinanti della salute stessa.
Non è facile, lo sappiamo. Un anno fa, il Comitato Nazionale di Bioetica, in un parere sul Covid che ragionava sulla salute pubblica, nel rapporto fra libertà individuale e solidarietà sociale, giustificava in nome dell’emergenza le misure di limitazione di libertà costituzionali (come la libertà di circolazione e di riunione), ma al contempo ne sottolineava il carattere di eccezionalità: in forza della quale dovevano (e devono) rispondere a criteri di proporzionalità, di efficacia, di limitazione nel tempo.
È questa una bussola valida oggi ancora più di ieri, ancorché poco utilizzata. Intanto, la consapevolezza della eccezionalità di alcune restrizioni si è persa per strada: ci sono amministratori che inaugurano il “sovranismo” regionale e comunale, innalzando frontiere contro gli “untori” non residenti. Soprattutto latita il criterio di efficacia, strettamente connesso alla “proporzionalità” delle misure. Nel lockdown 2020, quando non molto si sapeva sulle vie di trasmissione del virus, era comprensibile una strategia elementare, di tendenziale azzeramento di tutte le occasioni di socialità. Un anno dopo, è mai possibile non saper discernere fra le situazioni più o meno rischiose di contatto sociale? Fra le probabilità di contrarre virus su un treno affollato oppure in un teatro mezzo vuoto? La sociologa Zeynep Tufecki (Internazionale, 12 marzo) a partire dalle più recenti evidenze epidemiologiche circa i pericoli della trasmissione via aerosol in luoghi chiusi, cerca di ricavare indicazioni per la riduzione del rischio. Invece di vietare parchi e spiagge, nel tentativo di imporre una indiscriminata astinenza sociale – osserva- sarebbe meglio informare correttamente le persone, “aiutandole a socializzare in modo più sicuro”. Detto altrimenti: il ritorno alla “normalità” comporta il ritorno a “normali” politiche di sanità pubblica, basate sulla conoscenza e sulla consapevolezza.