“50 milioni di tonnellate di cocaina sequestrate dalla sola Guardia di Finanza”. Partiamo da qui, dal lapsus del Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi l’altra settimana a Piazza Pulita. 50 tonnellate – comunque troppe – evidentemente gli sembravano poche, e così fra nervosismo da studio televisivo e coda di paglia, ha annunciato una quantità abnorme di sequestri di cocaina, pari a 1700 volte le confische annuali di coca nel pianeta.
“L’80% dei tossicodipendenti usa cocaina”. Sempre a Piazza Pulita, la settimana scorsa, è stato il turno di Nicola Gratteri. Il magistrato, interrogato da Formigli sulla sua opinione sulla “liberalizzazione” (sigh!) della cannabis, ha prima evitato di rispondere – invitando il giornalista a chiederlo ai “tossicodipendenti nelle comunità” – e poi trasformatosi in medico ha inanellato una serie di miti, dagli effetti sul cervello alle schizofrenie, degni del miglior Serpelloni, braccio armato di Fini e Giovanardi facendo intendere che chiunque la usi debba essere classificabile come “tossicodipendente”. Gratteri è convinto, lo ribadisce ad ogni incontro, che la legalizzazione della cannabis non avrebbe effetti sulle narcomafie e mistifica clamorosamente. Prima sui dati del consumo perché se in effetti è vero che la gran parte delle persone usano una sostanza, questa è proprio la cannabis. Poi sul prezzo di vendita di hashish e marijuana nel mercato illegale, che non è di 4 euro al grammo, come detto dal Gratteri aspirante analista, ma più del doppio (fra gli 8 e i 10 euro secondo la Relazione del Dipartimento antidroga). Infine sul possibile prezzo legale, fissato dal Gratteri pseudo economista in 12 euro al grammo, quando la cannabis terapeutica italiana costa 7,5 e il prezzo della cannabis legale in Canada è ormai sceso intorno ai 3,5.
Sappiamo benissimo quali comunità visita Gratteri: sono per fortuna una piccola minoranza fra quelle che si occupano dell’uso problematico delle sostanze in Italia. Conosciamo anche il curriculum da Prefetto di Piantedosi, basti ricordare i mini Daspo per spaccio a Bologna. Quindi non ci aspettiamo certo da loro un’improvvisa illuminazione sulla via di Damasco. Ma visti i ruoli che ricoprono ci aspetteremmo almeno la precisione dei dati nel sostenere le loro posizioni. Proprio qui è il punto: nel 2023, con metà degli Stati Uniti che hanno legalizzato la cannabis e migliaia di studi pubblicati, quelli che un tempo potevano essere slogan funzionali al messaggio proibizionista – soprattutto perché inverificabili – oggi suonano talmente vuoti e fuori tempo che è necessario ricorrere all’iperbole, anche quando questa sposta il tutto nell’area del ridicolo.
Nel frattempo abbiamo assistito, per fortuna, ad un vero e proprio cortocircuito proibizionista, che ha fatto esplodere utili contraddizioni.
“Un buon bicchiere di vino non ha mai fatto male a nessuno. Anzi, è dimostrato che faccia bene alla salute, lo sapevano anche i nostri nonni”. Di fronte alle linee guida dell’OMS sull’alcol, e alla decisione dell’Irlanda di inserire sulle bottiglie di vino messaggi di allerta sui danni provocati, c’è stata una levata di scudi, guidata dall’eurodeputato leghista Da Re. “Scelta che ignora la differenza tra consumo moderato e l’abuso di alcol” ha chiosato il Ministro degli Esteri Tajani. Finalmente pare condiviso un approccio di autoregolazione nei confronti di una sostanza che – pur legale – l’importante rivista The Lancet classifica seconda per pericolosità. Del resto il vino – come la canapa – fa parte della nostra cultura, e gli studi di Franca Beccaria sul modello mediterraneo di consumo e il volume Droghe e autoregolazione di Grazia Zuffa e Susanna Ronconi dimostrano che un approccio di regolazione sociale è molto più efficace rispetto alla proibizione, limitando l’uso problematico. Ovviamente se l’autoregolazione vale per l’alcol deve valere anche per le altre sostanze.