La notte del 22 dicembre, una vettura condotta dal ventenne Pietro Genovese investe e uccide due sedicenni, Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli, intente a traversare Corso Francia venti minuti dopo la mezzanotte. Una tragedia inesprimibile, almeno tre famiglie precipitate in un dolore immenso. Una sciagura con tali caratteristiche, a poche ore dal Natale, non poteva non coinvolgere emotivamente gli italiani in procinto di festeggiare: quello che è interessante registrare è che, ancora una volta, buona parte del mondo dei media e della politica non ha perso l’occasione per attribuire colpe a casaccio e per imbastire una stanca retorica moralistica, a tratti francamente reazionaria, tesa a dare una visione delle giovani generazioni come un branco di inetti, di avventati, di irresponsabili. E, soprattutto, di drogati e di ubriaconi.
La Repubblica, 24 dicembre: “Pietro Genovese positivo a cocaina e cannabis. Tasso alcolico oltre i limiti”, un guidatore indisciplinato e “un assuntore di droghe leggere”, in quanto fermato (a piedi) per tre volte in quattro anni per il possesso di piccole quantità di stupefacenti per uso personale. “Sabato scorso però le negligenze stradali si sono sommate al consumo di droga. Un mix che ha generato una tragedia indelebile”. È la droga ad aver generato la tragedia, nonostante il guidatore, al momento dell’incidente, avesse un tasso alcolemico di 1.4, ben sopra il consentito per un ventenne. Per sua fortuna, Pietro Genovese non è uno zingaro, e neppure un immigrato magrebino, non abita in un campo rom ma nel quartiere Coppedé e quindi, con il passare dei giorni, la tematizzazione giornalistica si modifica, in particolare per quanto attiene al consumo di droghe. Il 27 dicembre i quotidiani riportano la decisione del gip dell’esclusione dell’aggravante della guida sotto effetto di stupefacenti: il Corriere della Sera: “le sostanze riscontrate sebbene presenti potevano essere state assunte in epoca precedente all’incidente”. Sarebbe stata una ottima occasione per fare chiarezza sull’annoso problema della attendibilità dei test effettuati ai guidatori e a alcune categorie di lavoratori; spiegare che tali test non certificano il consumo di droghe in prossimità della guida o del turno di lavoro, ma solo la presenza nelle urine dei metaboliti delle diverse sostanze, anche se consumate molti giorni prima. Ma intanto, l’attenzione dei media si era rivolta alla ricerca di altri colpevoli: il semaforo, l’illuminazione, il fondo stradale…
Le équipe di prevenzione e limitazione dei rischi che fanno lavoro di strada sanno benissimo quanti diversi comportamenti, quante diverse consapevolezze distinguono i ragazzi che incontrano: gruppi nei quali, dopo anni di contatti con operatori sociali, è divenuta norma affidarsi al cosiddetto “guidatore designato”, che non consumerà alcolici e sostanze in quella serata, e giovani che, pur conoscendo i rischi e le sanzioni in cui possono incorrere, mettono in campo comportamenti da loro stessi indicati come pericolosi. Ragazzi e ragazze che sono all’esordio della loro vita di relazioni, che spesso, come scrive Pellai su Famiglia Cristiana, non fanno quello che “sanno”, ma rispetto ai quali rimane il dovere delle istituzioni di garantire, nei loro luoghi di incontro, la presenza di operatori in grado di promuovere la cultura della consapevolezza e della responsabilità.
Feltri, il 27 dicembre su Twitter cinguetta: “Le due ragazze sedicenni uccise da un auto in corso Francia cosa facevano a mezzanotte in giro? Hanno scavalcato le barriere metalliche e attraversato la strada col semaforo rosso. Il cretino al volante le ha travolte. È una gara a chi è più stupido”. Ecco, il disprezzo non protegge le ragazze e i ragazzi che esordiscono alla vita, e davvero non ne hanno bisogno.