E’ certamente vero che non esistono misure o progetti che portino a cancellare del tutto il rischio di suicidio di chi, privato della libertà, è ristretto in un luogo chiuso al mondo esterno. L’atto del suicidio attiene alla sfera intima, personale, mai del tutto esplorabile e leggibile; attiene a una sofferenza e a una scelta che non sono mai dominabili attraverso sistemi di regole esterne e che, in quanto tali, vanno rispettate e discusse con pudore e senza facili scorciatoie interpretative. E’ anche vero che in nessuno dei sistemi detentivi europei, e certamente anche in quelli al di fuori del nostro continente, il numero dei suicidi è zero. Tuttavia queste sono verità parziali. Altre ci dicono che nelle carceri italiane lo scorso anno, e nell’avvio di questo, se ne è verificato un numero tale che indica una crescita allarmante del fenomeno, percentualmente tra i più alti in Europa; che questa impennata è segno ed effetto del negativo funzionamento di un’istituzione che si vorrebbe destinata al recupero sociale; e che per ridurne il numero molto si può e si deve fare, anche seguendo le tracce di altri paesi. L’estensione del fenomeno dell’autolesionismo e l’aumento del numero dei suicidi ci proiettano innanzitutto l’immagine di un mondo detenuto debole, prodotto di assenze d’intervento sociale e di una marginalità declinata penalmente e rigidamente affrontata con la detenzione.
In questo contesto, il carcere diviene un luogo di abbandono di ogni progettualità possibile, luogo ininfluente rispetto all’elaborazione culturale e alla decisione politica: se ne conoscono numeri, problemi e carenze, ma questi elementi non incidono nel formare pensiero collettivo. Per chi è in carcere questa percezione di essere nel luogo dell’ininfluenza sui processi reali e della mancanza di qualsiasi progettualità che non sia il mero contenimento è un fattore che incide sulla decisione di sancire definitivamente tali assenze; quindi, sul numero dei suicidi. Ogni suicidio in carcere ci interroga sulle nostre responsabilità e dà una indiretta immagine delle criticità e degli elementi patologici e patogeni di questa istituzione, perché rappresenta sempre il risultato di più incapacità: a leggere disagio e difficoltà, a prevenirne gli esiti più negativi, a dare sostegno adeguato. Quindi, non è possibile chiudere il problema come insito nella logica stessa della detenzione o nelle vicende umane difficili da cui proviene la gran parte dei detenuti. Abbiamo il dovere di capire le ragioni di numeri così elevati, di chiederci come intervenire, di riflettere sugli interrogativi che essi pongono. Gli interlocutori di questa riflessione sono molteplici e non si restringono a chi del carcere ha diretta responsabilità. Certamente questi sono i primi interlocutori e alcune indicazioni europee delineano linee d’intervento: la costruzione di équipe di accoglienza, composte di operatori con diverso profilo professionale; il potenziamento della comunicazione tra detenuto e staff, anche attraverso forme di rappresentanza; il passaggio da un modello de-responsabilizzante, in cui il detenuto è un soggetto passivo che deve chiedere per agire, a un modello di assunzione attiva di responsabilità; la scrupolosa rilevazione degli atti auto lesivi, nonché dei suicidi, e il loro utilizzo come casi d’analisi per la stessa formazione del personale, rompendo la tendenza a occultare e negare; la drastica riduzione delle forme d’isolamento del detenuto. Sono linee guida, che l’Italia dovrebbe attuare, che certamente non sanano le questioni a monte di politica penale, ma che, nel contesto dato, chiedono all’istituzione di agire al proprio interno al massimo delle possibilità per ridurre drasticamente il numero di suicidi. All’esterno, l’unico segnale positivo si è avuto lo scorso anno, quando il Comitato Nazionale di Bioetica ha inserito il tema dei suicidi in carcere nella propria agenda, avviando una serie di audizioni. Un segnale della consapevolezza sociale del problema, non più ristretto così a tema per specialisti o ad argomento da includere nel più generale tema del suicidio, senza evidenziarne la specificità del suo porsi nella privazione della libertà. Sarebbe importante avere gli esiti di tale lavoro, anche come apertura di una riflessione sulla responsabilità intrinseca di tutti i noi su quel numero alto di vite che si continuano a perdere dietro le sbarre.
Articolo di Mauro Palma
Mauro Palma, Presidente del CPT (Comitato europeo prevenzione tortura) per la rubrica settimanale di Fuoriluogo sul Manifesto del 17 febbraio 2010.