A tre anni di distanza dall’approvazione della legge Fini-Giovanardi sulle droghe n. 49/2006, è stata svolta una ricerca valutativa sui dati della Toscana, a cura della Fondazione Michelucci e di Forum Droghe – che sarà presentata in un dibattito pubblico martedì 19 novembre a Firenze – focalizzata sull’impatto penale e sanzionatorio della nuova normativa. I risultati sono stati discussi in un panel di esperti, per evidenziarne le criticità in ambito giuridico e nella presa in carico psicosociale del fenomeno. Come notazione di fondo, si osserva che viene declamata la lotta al traffico per stroncare il consumo, ma realizzata nei fatti una guerra al consumo o tutt’al più al piccolo spaccio.
La legge ha degli aspetti fortemente ambigui: da una parte un’apparenza di “alleggerimento” della carcerazione -con l’innalzamento del limite di pena da 4 a 6 anni per accedere alle misure alternative e all’affidamento ai servizi-; dall’altra la realtà – documentata dalla ricerca – di una maggiore “afflittività”, sia per l’aumento delle pene, dovuta all’unificazione di queste al livello più alto per tutte le sostanze, pesanti e leggere, sia per l’ irrigidimento dei parametri per concedere le stesse misure alternative, col risultato di una loro tendenziale diminuzione. A ciò ha contribuito anche il maggiore rigore nella certificazione e nel controllo dello stato di tossicodipendenza, nonché della “idoneità” del programma terapeutico proposto: per la prima si attribuisce una importanza quasi esclusiva al mantenimento dell’astinenza tramite le verifiche di laboratorio, senza valutare la possibile integrazione sociale dei soggetti; per la seconda, si tende a legittimare maggiormente i programmi svolti in comunità terapeutiche, sottovalutando gli interventi dei servizi territoriali (SerT). Si osserva in particolare un accesso molto modesto alle misure sostitutive da parte dei detenuti tossicodipendenti stranieri privi del titolo di soggiorno, e soprattutto il non accesso, da parte degli stranieri titolari del codice regionale STP (Straniero Temporaneamente Presente), alle prestazioni dei SerT.
Probabilmente, una buona parte dei reati perseguiti riguarda l’ipotesi di “lieve entità” dello spaccio (art.73, comma 5), ma risulta difficile verificarlo perché questo tipo di distinzione non viene riconosciuta al momento dell’arresto, ma solo in sede di sentenza. Tuttavia, da una ricerca nel carcere fiorentino di Sollicciano sui certificati penali dei detenuti, risulta che il 25% sono stati condannati per piccolo spaccio. Inoltre, c’è da presumere che con l’accusa di spaccio di “lieve entità” si colpisca spesso il consumo, poiché la semplice detenzione al di sopra dei limiti quantitativi previsti dalle tabelle è considerata spaccio presunto.
La prassi dell’arresto obbligatorio in flagranza di reato, anche in presenza di modesti quantitativi di sostanza stupefacente e soprattutto se l’arrestato è straniero, può aver influito sull’aumento dei tossicodipendenti in carcere.
Dati più certi provengono dalle segnalazioni alle prefetture: la detenzione di stupefacenti per uso personale ha riguardato in stragrande maggioranza l’uso di cannabinoidi. Ancora una volta viene colpito un bersaglio “inferiore”, ritenendo erroneamente che colpendo i comportamenti meno pericolosi si dissuada dalla condotta più grave. Emergono altre criticità della legge: è stata eliminata la possibilità di sospendere le sanzioni per favorire l’invio al Sert del segnalato, sostituita da un invito generico a seguire un programma terapeutico, che, solo se concluso positivamente, può portare alla revoca della sanzione. Perciò le persone sono disincentivate a recarsi ai servizi, anche perché i tempi d’applicazione della sanzione sono inferiori alla durata media di un programma terapeutico.
Infine, gli esperti hanno indicato possibili interventi di competenza regionale, quali la promozione delle politiche di riduzione del danno e il minor ricorso alla carcerazione per i tossicodipendenti, il rilancio dei servizi pubblici, il potenziamento dei SerT interni ai carceri per cittadini italiani e immigrati; infine, un lavoro di rete tra i soggetti istituzionali coinvolti, con forme di coordinamento non episodiche e non puramente formali.