«Dal primo ottobre il servizio Drop in è stato sospeso. Nel giro di 24 ore la città di Bologna è stata privata di un importante servizio di riduzione del danno. E gli operatori che ci lavoravano sono ora in cassa integrazione». E’ l’ultima notizia sulla silenziosa, capillare e progressiva chiusura di servizi cosiddetti “a bassa soglia di accesso”, quelli che accolgono senza filtro cittadini in situazione di estrema difficoltà. Servizi che danno prime risposte a bisogni di base, quelli la cui soddisfazione, costituzionalmente, è la premessa per poter pronunciare almeno la parola “dignità”, molto prima di quell’altra parola, “promozione” individuale che troppo spesso non si arriva a pronunciare quando si tratta delle persone più povere. Solo pochi giorni prima, a Torino, è stato chiuso dal Comune un dormitorio che non era uno tra i tanti, ma dedicato a persone con fragilità particolari, come l’età avanzata e la malattia, e per questo gestito con apertura anche diurna e una qualità professionale adeguata. Una gestione oggi definita “antieconomica”, e sostituita da interventi definiti, con neologismo bellico, “a bassa intensità assistenziale”. A Napoli, la crisi regionale della sanità e il commissariamento delle ASL lascia senza stipendio per mesi gli operatori del Terzo Settore che collaborano con il pubblico nella gestione di servizi a bassa e media soglia, e non una parola istituzionale arriva a dare una prospettiva: mentre continuano a lavorare senza retribuzione, questi operatori si guardano attorno nel deserto attuale del lavoro sociale, alla ricerca di una alternativa. Bologna, Torino, Napoli, città, utenti, contesti diversi, ma un filo rosso percorre queste storie. Colpisce, innanzitutto, una politica di tagli fatta con le sole forbici in mano: il drop in di Bologna e il dormitorio di Torino erano in riprogettazione, con investimento di denaro destinato ad ampliare locali e prestazioni, a seguito di attente valutazioni. Valutazioni sparite nel nulla, con buona pace di qualsiasi nesso bisogno-risulato-risorse. Colpisce la tipologia di persone che viene così esclusa, i più poveri, di denaro, risorse, reti sociali, cittadinanza, cui viene meno quella parte di welfare che, spesso sola, consente loro di avere un luogo dove bisogni di base e dignità negata incontrano un riconoscimento non caritatevole ma “pubblico”. La fragilità loro e dei loro operatori non li fa “mettere in agenda”, a nulla vale il fatto che stiano crescendo: non si chiude per mancanza di utenti e di domanda, per dirla in termini economici. Si chiude per “scarsa cittadinanza” o per un difetto di “prospettive di sviluppo”: i più poveri e i meno adatti, per dirla con le parole del bel romanzo di Peter Hoeg, sommano le loro difficoltà con una società che non ha alcuna intenzione di assumere le fragilità di persone su cui non si capisce perché si dovrebbe “investire”. E se si somma a questo il fatto che sono nel tempo spariti vincoli ai finanziamenti di politiche mirate (per esempio sulle dipendenze), si capisce come a ogni tavolo locale si trovino mille tipologie sociali più “meritevoli”. Di questo deficit di cittadinanza è emblematico proprio il caso di Torino: il dormitorio resterà patrimonio delle politiche sociali ma “a bassa intensità assistenziale”, un secondo livello di risposta al bisogno abitativo (di cui certo c’è pure bisogno).
Ma qui sta il punto: c’è un welfare locale che ha deciso di puntare verso chi è già, oggi e qui, in grado di mettere a frutto un proprio capitale individuale e farcela da sé: così il bisogno abitativo vira verso il cohousing e la neomutualità. Encomiabile, se si parla di vulnerabilità transitoria, ipocrita e miope se si parla di persone in grave difficoltà, scarso capitale e – insisto – bassa o nulla cittadinanza, a causa di nazionalità, stile di vita, inadeguatezza postfordista (che vuol dire scarsa abilità a cavarsela da sé nella giungla sociale). Fino a non molto fa ci preoccupavamo di un workfare che puniva i “quasi adatti” e includeva sulla base della meritevolezza, sulla base non del bisogno (figuriamoci del diritto!) ma dell’adesione a un sistema di vita e valoriale. Oggi siamo di fronte a un sistema che si attiva in presenza di garanzie di un capitale individuale da spendere. Il resto è a perdere.
Articolo di Redazione
Susanna Ronconi scrive per la rubrica di Fuoriluogo sul Manifesto del 20 ottobre 2010.