Per curiosa circostanza, il mio vagare con i pensieri susseguente alla lettura dell’articolo “Severgnini, i pompieri di Alessandria e Denzel Washington” di Susanna Ronconi, è interrotto da un messaggio di… Susanna Ronconi.
«Cara Anna Paola,
(…) fuoriluogo.it ha un nuovo speciale, “Abbiamo delle alternative”, che ospiterà articoli mirati a sollevare dibattito e confronto circa le alternative alle politiche attuali sulle droghe (…) mi farebbe piacere se tu volessi scrivere un contributo da pubblicare sul sito. Fammi sapere.»
Le chiedo i tempi, se c’è un limite di battute e un tema particolare da affrontare. O più di uno.
Mi sorprende la risposta:
«… ho pensato a te anche a partire dallo scambio “nervoso” che abbiamo avuto… puoi riprendere anche da lì, se vuoi…»
Seguo il suo consiglio, dunque, e parto da quello scambio:
Il 24 marzo 2021, uno degli amministratori del Gruppo Facebook “Sanpa Muccioli San Patrignano e le altre La mappa perduta” posta quanto pubblicato sul blog della Società Italiana delle Tossicodipendenze a proposito dell’uscita del mio libro “La polvere sotto al tappeto. Il discorso pubblico sulle droghe tra evidenze scientifiche e ipocrisie” (Carocci, marzo 2021).
Tra i vari commenti c’è quello di Susanna Ronconi:
«Se è per quello, esistono anche le evidenze scientifiche del fallimento dell’approccio penale alle droghe, …. chi dichiara di voler uscire dalla contrapposizione proibizionismo-antiproibizionismo è chi non ha alcuna intenzione di schierarsi per una battaglia per la decriminalizzazione. E infatti queste società scientifiche non lo fanno. Sui minori: certo che dei minori dovremmo occuparci, perché pensando alla regolazione legale è immaginabile che vengano posti limiti di età, come accade per l’alcool, ma certo questa non è una buona ragione per non andare avanti. L’ultimo libro di Carl Hart si intitola “il consumo di droghe per gli adulti”, appunto: preoccupiamoci dei minori ma non usiamoli strumentalmente per infantilizzare la società e i consumatori maggiorenni. Infine, la citazione di Basaglia è davvero una usurpazione: Basaglia non ha solo chiuso i manicomi, ha criticato radicalmente la disciplina medica, la medicalizzazione della società e il potere dei medici. Magari avessimo questo respiro nell’asfittico dibattito sulle droghe!»
Penso: … eccone un’altra convinta che lavorando in un Dipartimento delle Dipendenze Patologiche io sia ferma alla Gateway Drug Theory… che poi a pensarci bene i proibizionisti non contemplano il piacere, gli antiproibizionisti la malattia. I primi pensano di avere a che fare con una sorta di società bambina, i secondi non contemplano i rischi per i minori. Gli uni non ti ascoltano, gli altri non ti fanno nemmeno parlare.
Mi rincresce ma parlo (scrivo) e spero di essere ascoltata. Ecco allora che la mia risposta non si fa attendere:
«Sono d’accordo con te sulle evidenze scientifiche a proposito del fallimento dell’approccio penale alle droghe (nel libro c’è). Sono apertamente schierata rispetto alla battaglia per la decriminalizzazione (nel libro ma più ancora in ogni mio giorno di lavoro c’è). Quando si parla di sostanze non si può misconoscere il piacere ma anche la malattia (visibile per chi ha occhi per guardare confrontandosi ogni giorno con la carne viva dei Servizi e la persona). Nel libro c’è un chiaro invito all’adultizzazione… degli adulti. La citazione di Basaglia è condivisa con Gianni Berengo Gardin le cui considerazioni rispetto all’iniziativa le tengo, però, per me… Racchiudono una delicatezza che i social non sempre rispettano. Sento la responsabilità di custodirle e difenderle- il libro è stato donato a 100 parlamentari, riprendendo il precedente storico di “Morire di classe” del 1968 che contribuì a dare forza al movimento guidato da Franco Basaglia per l’umanizzazione della cura in psichiatria e la chiusura dei manicomi in Italia (NdR)-. Sono una sociologa e mai mi sognerei di garantire per avallo la medicalizzazione della società… Dovrei rimettere in discussione una vita intera. Il dibattito temo resterà asfittico dando per scontato ciò che l’altro vuole dire senza aver davvero dato ascolto o aver letto ciò che ha detto o scritto. Susanna ho grande stima di lei e se mi mandasse un indirizzo in privato mi piacerebbe farle dono del libro… Dopo sarebbe più bello e costruttivo parlarne. Un abbraccio.»
In estrema sintesi: conosco la passione che metti nel tuo lavoro, Susanna, ma non sottovalutare la mia.
Ciò che più mi sorprende è la sua risposta:
«Lo leggerò certamente, ho reagito al testo che ho potuto leggere. Voglio dirti però che citare il dibattito su pro o contro il proibizionismo come questione non cruciale espone inevitabilmente a critica, le droghe sono governate dalle politiche sulle droghe, e a proposito di Basaglia, per lui era necessario uscire dalle discipline e osare nella politica.»
Mi aspettavo una chiosa finale collocabile in un continuum tra il niente e il maiora premunt e invece… Rendo noto il mio concordare con un emoticon.
A seguire “Severgnini, i pompieri di Alessandria e Denzel Washington”, l’invito, questo foglio bianco.
Mi faccio delle domande, in realtà da quando ho iniziato a lavorare nel settore e non ho mai smesso di farmene. Che cos’è il dubbio se non la meno patologica di tutte le possibili dipendenze? (è una domanda anche questa).
Al di là delle singole posizioni sul tema della legalizzazione di tutte le sostanze o di almeno quella più associata all’idea stessa di legalizzarne qualcuna, cos’è che davvero impedisce in Italia un dibattito reale?
C’è la contrapposizione di idee utile a qualsivoglia confronto, ci sono i numeri e le tabelle, c’è un problema che da troppo tempo misconosciuto quando non del tutto ignorato urla il suo bisogno di attenzione. C’è un molto che da qualsiasi posizione lo si guardi non può essere, però, il tutto, perché quello che c’è deve fare i conti con una questione complessa, di matrice bio-psico-sociale.
Allora, forse il problema non è in ciò che manca ma in ciò che abbonda.
Il dibattito è fermo per eccesso così come la dipendenza (che non è l’uso) per eccesso indebolisce il sistema della scelta.
É esubero di opinioni richieste e non (su questi temi si esprime ormai anche l’estratto a caso).
Esubero di voci all’interno del dibattito (stonato, disarmonico e spesso decontestualizzato).
Esubero di paradigmi e approcci che rivendicano attenzione (affollamento disorientante di pari polifonia paragonabile solo al mondo della cucina e all’entourage di una neomamma alle prese con il suo primo figlio).
Esubero di difese delle proprie roccaforti epistemologiche, dei consueti e rassicuranti copioni, dei “posticini” conquistati e da occupare.
E allora nella necessità di supportare idee e convinzioni, cercasi evidenze scientifiche.
La scienza sperimentale non procede per certezze ma per ipotesi che vengono costantemente messe alla prova. Per Karl Popper la falsificabilità di una teoria – la possibilità che possa essere confutata – è il requisito imprescindibile affinché la si possa definire scientifica. Conseguenza inattesa ma inevitabile è che il sapere finisce per essere discontinuo e spesso contrastante. Miliardi di conferme, poi, non renderanno mai del tutto certa una teoria, perché basterà un fatto avverso per mettere in dubbio una legge universale.
Si possono trovare specialisti pro e specialisti contro perché cambiano i risultati così come le indagini, i paradigmi della ricerca ma anche e soprattutto perché gli studiosi stessi sono parte integrante di ciò che studiano, ossia della società. Non esiste l’unanimità in ambito scientifico, benvenuti nel mondo della mancanza di certezze assolute che per altro equivarrebbe all’assoluta irresponsabilità accompagnata dalla stupidità del credere che è possibile predisporre di ragioni valide oggi e per sempre.
Nel dibattito pubblico sulle droghe cultori, professionisti e politici per avvalorare la propria posizione hanno fatto ricorso alla scienza selezionandone i contenuti con attenzione e, in alcuni casi, con faziosa selettività. Talvolta si fa riferimento ai numeri talvolta si ventila la necessità di farne a meno rinvenendo l’opportunità di un approccio più qualitativo, quasi mai, però, si interroga chi è direttamente coinvolto, l’informato che può farsi informatore (nella fattispecie il consumatore e il dipendente).
Nella scienza hanno trovato supporto e conforto le più svariate posizioni, attribuendo alla bisogna il valore assoluto che serviva a supportare la preconcetta idea di partenza.
Ingenuità o mirata strumentalizzazione, comunque non si possono chiamare in causa gli studi muovendo da intenzioni valoriali. È l’errore epistemologico per eccellenza nonché il peggiore degli usi cui si può sottoporre la scienza.
Leggera o pesante non appartengono alla terminologia scientifica.
L’effetto non è la liceità del comportamento. La farmacologia non può essere prestata alla politica.
La scienza può esaminare la tossicità di una sostanza o indagare le modalità con cui si sviluppa una dipendenza patologica, ma non le si può delegare (né dovremmo averne l’intenzione) l’autorità di decidere cosa deve essere proibito oppure no.
Stupefacente è un termine rigorosamente medico solo per chi non appartiene al mondo della scienza. Una sostanza psicoattiva diviene illegale perché la politica gli conferisce un tratto di valore che per sua natura non ha.
Legalizzare una o tutte le sostanze non è un problema scientifico è politico, legale, etico, sociale e tanto altro ancora con tutto il bagaglio di rischio di fraintendimento dettato da idiomi, approcci, visioni, formazione e obiettivi non sempre conciliabili quando non in netto contrasto tra loro.
Riaccendere il dibattito in Italia è difficile perché la politica non vuole rischiare. Perché decidere di mettere mano alla materia significa schierarsi e, dunque, perdere il consenso di qualcuno come inevitabile conseguenza dettata dalle tante e differenti ragioni delle parti in causa.
Riaccendere il dibattito sulle droghe è difficile ovunque se lo si vuole fare con serietà perché questa implica l’apertura alla discussione e in modo crescente all’accettazione della sua complessità multiparadigmatica e multimetodologica.
Un confronto che si rispetti, poi, prevede la partecipazione allo stesso dei diretti interessati. Significa dare voce al piacere del consumatore e al dolore del dipendente patologico. A chi utilizza la diversione del metadone per sopravvivere. A chi nel settore ci lavora fronteggiando frequenti aggressioni e dovendo fare i conti con la contrazione delle risorse economiche e umane. Alle famiglie, che nella panoplia dell’offerta di cura di chi specula sulla disperazione, sarebbero disposte ancora oggi a soprassedere sui diritti e sulla dignità dei propri congiunti.
Nelle ultime righe della prefazione di un libro del 2012, Don Andrea Gallo scriveva: «È necessario predisporre una catena terapeutica il cui anello centrale è il Servizio Pubblico. Un anello che si ponga come intenso luogo propedeutico nel processo che porta il soggetto dalla dipendenza alla pratica della libertà. Mettere sempre al centro la Persona in difficoltà, le sue esigenze, il suo volere, la sua storia, per conseguire una sua autentica presa “di coscienza” per un’autentica e diffusa coscientizzazione di tutti.»
Non esclusivamente attraverso la scienza, dunque, può delinearsi la zona franca del confronto costruttivo ma imprescindibilmente dalla volontà di centralizzare la persona.
Più che al Gedogen olandese credo ci sia in Europa un modello che ritengo utile oltre che necessario che la politica italiana conosca. Nel 2001 il Portogallo ha depenalizzato l’acquisto, il possesso e il consumo di droghe ricreative per uso personale.
La normativa prevede che chi viene trovato in possesso di queste sostanze debba presentarsi dinanzi alla Commissione per la dissuasione dalla dipendenza dalla droga, solitamente costituita da un medico specialista, uno psicologo (o assistente sociale, o sociologo) in alcuni casi da un avvocato. Evidentemente la posizione sociosanitaria è orientata a far riflettere i fermati su salute e benessere.
Appare evidente come l’impostazione sia quella della decriminalizzazione sul piano socioculturale e della depenalizzazione sul piano giuridico con risultati positivi in termini di tassi di mortalità, di numeri di detenuti per piccoli reati legati alle droghe.
Non si tratta solo di eliminare sanzioni per l’uso e il possesso personale, significa ancora prima cambiare il paradigma, guardare al consumatore e al dipendente come persona e come tale porla al centro del confronto, tornare a investire nelle realtà accreditate della cura del pubblico e del privato sociale – non della discutibile filantropia che non conosce ratifica e confronto ma in ultima istanza solo l’inevitabile fenomeno dell’autolisi con conseguente crollo dei confini interni e della struttura stessa-, significa finanziare gli interventi e i progetti della Riduzione del Danno, significa dare continuità nel tempo, per meglio rispondere a qualcosa in perenne evoluzione, al dibattito.
Quello che fa tanta fatica ancora oggi a ripartire per esubero di evidenze e deficit di responsabilità (dal latino responsum dare).
Se la politica vera, quella che si prefigge il bene della persona, c’è ancora in questo Paese che batta un colpo, cominciando dal convocare la Conferenza Nazionale sulle droghe, disattesa da dodici lunghi anni.
P.S. I 100 libri sono arrivati tra il 29 e il 30 marzo 2021 ai componenti della Commissione “Affari sociali” e “Sanità” della Camera dei Deputati, ai componenti della Commissione “Sanità” del Senato della Repubblica e al Senatore Giuseppe Lumia, autore della Legge n. 45 del 1999.
Ad oggi (18 aprile 2021) solo in due hanno sentito il bisogno di ringraziare…