È il giorno del giudizio. In tutti i sensi. Quello della sentenza d’Appello del processo Aldrovandi. Di fronte ci sono due parti contrapposte. La famiglia, orfana di Federico, e i quattro poliziotti condannati in primo grado a tre anni e mezzo per omicidio colposo. In mezzo c’è lo Stato. Chiamato a decidere sulla responsabilità di quattro suoi servitori.
La tensione rimane latente per tutte le ore di camera di consiglio. La madre di Federico, Patrizia Moretti, suo figlio Stefano, il marito Lino e amici giunti da diverse parti d’Italia non guardano nemmeno in faccia gli imputati. Solo due degli agenti coinvolti sono presenti, Paolo Forlani ed Enzo Pontani. Mancano nel giorno decisivo Luca Pollastri e Monica Segatto, quest’ultima assente per tutta la durata del secondo grado.
In quelle ore di attesa la mente dei protagonisti corre a quel 25 settembre 2005. A quell’alba in cui la vita di un ragazzo di 18 anni è stata troncata. Di quella breve vita rimane la foto del suo volto contornato di sangue sul lettino della morgue. Rimane il silenzio calato sulla vicenda per mesi. Fino a quando Patrizia Moretti non aprì un blog, nel gennaio 2006, per raccontare al mondo “come è morto mio figlio”. Perché fino ad allora nessuno sapeva ancora come fosse morto Federico. Le prime versioni arrivate dalla questura parlarono di overdose, poi di malore. Il questore di allora, Elio Graziano, difese i suoi “ragazzi”, sostenendo che il giovane non era “morto per le botte”. Si accodò anche il procuratore capo Severino Messina.
Poi, grazie al blog, la morte di un diciottenne nella prima periferia di una cittadina di provincia divenne un caso nazionale. Il resto è storia.
Oggi si è aggiunto un altro pezzo a questa storia che nessuno avrebbe voluto vivere. A scriverlo è stata la prima sezione della Corte d’Appello di Bologna. Dopo tre ore e mezza la presidente, il giudice Magagnoli, entra seguita dai giudici a latere Oliva e Ghedini. E “in nome del popolo italiano” conferma la condanna di primo grado, oltre alle spese processuali. Tre anni e mezzo. Grazie allo sconto dell’indulto la pena residua rimane di appena sei mesi. Ma il significato simbolico va oltre ai numeri.
“È giusto. Sono colpevoli. È chiarissimo – si sfoga la madre, Patrizia Moretti -. E se ci sarà un terzo grado non potrà che essere di conferma della loro colpevolezza. Dopo tutti questi anni sembra ancora che il processo lo facciano a noi. Ogni volta che alla sbarra ci sono le forze dell’ordine gli imputati sono le vittime. Chiederò al Capo dello Stato che impedisca questo linciaggio”. E a Napolitano sa già cosa dire: “chi uccide qualcuno non può più indossare una divisa, è pericoloso per i nostri figli e i nostri fratelli”, sostiene guardando Ilaria Cucchi e Lucia Uva accanto a lei.
Sono le altre “donne coraggio” che insieme a Patrizia stanno combattendo per ottenere verità e giustizia per la morte dei loro cari. Anche a loro lo Stato deve spiegare perché i loro fratelli sono morti davanti alle forze dell’ordine. E il giudizio che si attendevano dall’appello di oggi serviva proprio a questo. Il caso di Federico ha fatto, suo malgrado, scuola. Lo dice chiaramente la sorella di Stefano Cucchi: “se non fosse stato per Patrizia e per suo marito oggi non sarei qui a parlare di mio fratello. Il loro coraggio non ci lascia soli”. Vicende parallele, che a tutti “sono costate caro: sentirsi sempre sotto accusa, sentire gettare fango sopra chi non può più difendersi”.
Vicende parallele anche nella fiducia nella giustizia. “Credo nello Stato, credo nelle istituzioni – conferma Ilaria Cucchi -, ma credo che a questo punto meritiamo una risposta”.
Della vicenda di Federico Lucia Uva è venuta a conoscenza tre anni fa, guardando in tv “Un giorno in pretura”: “si dicevano le stesse cose sentite a proposito di Giuseppe; capii che ero unita a quella famiglia dallo stesso dolore e volli conoscerla per dire a quei genitori che un bambino di 18 anni non può morire così; lo Stato deve dare una risposta”. Anche Lucia attende una risponda, sul “perché mio fratello sia entrato in caserma vivo e ne sia uscito morto sopra una barella. Dallo Stato voglio una risposta che mi restituisca il senso della giustizia, quel valore che voglio poter trasmettere ai miei quattro figli”.
La difesa ricorrerà in Cassazione: l’avvocato Trombini: “Ci crediamo ancora di più di prima
“Prima o poi verrà a galla la verità. Che non è quella che è stata confermata oggi”. È il commento secco dell’avvocato Michela Vecchi all’uscita dall’aula dopo la lettura della sentenza di Appello che ha confermato le condanne ai quattro poliziotti.
“Leggerò le motivazioni della sentenza”, le fa eco il collega Giovanni Trombini, che assicura come “ci crediamo ancora di più di prima e ricorreremo in Cassazione”.
Scuro in volto anche l’avvocato Gabriele Bordoni: “quello che dovevo dire l’ho già detto in aula”. Il riferimento è alla sua arringa difensiva tenuta in mattinata in chiusura della fase della discussione.
In poco più di un’ora Bordoni ha enucleato i motivi per i quali chiedeva l’assoluzione del suo assistito, Paolo Forlani.
A partire dall’esiguo arco temporale in cui si incardina l’imputazione: “la vicenda, per quello che riguarda il capo di imputazione di Forlani, intervenuto solo dopo la prima colluttazione, si consuma in cinque minuti: dalle 6.04 alle 6.08/6.09”.
E quando Forlani arriva in via Ippodromo, “era già stato sollecitato l’invio di un’ambulanza e la chiamata verrà reiterata”. È il 118 che “indugia una quindicina di minuti prima di arrivare sul posto e questo non è imputabile ai poliziotti”.
Il penalista fa presente che “fu Aldrovandi a raggiungere i poliziotti davanti al cancello di via Ippodromo e a prodursi in una sforbiciata. Non si può negare che in quel momento ci fosse nella mente di Federico uno sconvolgimento assoluto. Altrimenti sarebbe scappato verso il parchetto, la cui via di fuga era protetta da paracarri e quindi non inseguibile da parte della polizia”.
Quanto alle lesioni (il cui “quadro lesivo è poco significativo”), “sono tutte compatibili con l’uso dello sfollagente”, il cui utilizzo “è prescritto dai protocolli e nelle regole paradigmatiche dell’agire della polizia”.
Al professor Thiene invece, l’avvocato risponde a sua volta con una massima: “il consulente di parte risolve il processo esaminando due elementi fotografici e dicendo che si vede quel che si sa. Io credo invece che si vede quel che si vede. E i periti della procura toccarono con mano i reperti autoptici”