La guerra tra questura e famiglia Aldrovandi continua all’esterno dell’aula di giustizia. L’ultimo pomo della discordia è stata la scoperta che dal cellulare di Federico, alle 20 del 25 settembre 2005 (circa 14 ore dopo la morte del ragazzo) partì una chiamata che aveva come destinatario il numero privato di un ispettore di polizia.
Il “mistero”, che comunque non dovrebbe avere alcuna rilevanza processuale, venne chiarito il giorno successivo. Gli inquirenti stavano cercando di risalire al numero di telefono del cellulare e per farlo hanno adottato il metodo più veloce: chiamare un altro cellulare – appunto quello dell’ispettore di polizia – per far comparire sul display il numero desiderato.
Una spiegazione che però non convince i genitori di Federico che in una lettera alla redazione che “quel numero fu chiamato dal mio avvocato in mia presenza e di altre persone in viva voce quando ci accorgemmo “della stranezza”. Il funzionario incaricato che rispose al telefono disse, e percepimmo tutti chiaramente, che non sapeva spiegarsi il come e il perché. Percepimmo chiaramente la sua perplessità e lo sconcerto”.
Quel funzionario venne sentito il giorno dopo al processo e “non seppe dare una spiegazione”.
Patrizia Moretti e Lino Aldrovandi fanno notare poi il fatto che “quel numero era già noto a tutti da 12 ore e che quel telefono era stato già ampiamente compulsato dagli inquirenti compresa l’apertura dei messaggi che io avevo inviato a mio figlio”.
“Che conoscessero il numero – continuano gli Aldrovandi – è indicato anche nel verbale di rinvenimento oggetti, redatto, in data 25 settembre 2005 alle ore 12,47, in cui si legge: “n. 1 portafogli… n .1 cellulare Nokia di colore nero e grigio metallizzato il cui numero telefonico è 3280…”.
“Perché allora questo numero era registrato nella rubrica del cellulare di Federico in forma anonima?”, si chiedono i genitori di Federico che chiudono con le parole del perito chiamato ad esaminare l’autenticità della chiamata e del suo orario: “Tale circostanza è censurabile in quanto l’accensione e l’utilizzo di telefoni cellulari, personal computers ovvero qualunque periferica digitale che possa diventare per qualsiasi motivo possibile fonte di prova, non deve mai essere effettuata se non attraverso specifiche procedure attuate da personale esperto e preparato, al fine di preservare i dati originali rendendoli scevri da contaminazioni di qualsivoglia natura per le eventuali successive fasi di indagine ed accertamento. Nel caso specifico (Codice di Procedura Penale art. 260) al momento del rinvenimento del telefono cellulare si sarebbe dovuto spegnerlo, riporlo in luogo asciutto, possibilmente in un contenitore antistatico e metterlo immediatamente a disposizione dell’Autorità Giudiziaria nella persona del magistrato inquirente”.