Torno a scrivere dopo questo periodo in cui ho conosciuto, per scelta stranamente, l’esperienza del ricovero in un reparto di psichiatria. Si è trattato di dodici giorni a diretto contatto con il mio appartenere alla categoria dei folli ed anche di diretto contatto con i casi quali i T.s.o., di cui mi ero interessato ma che in realtà non avevo visto così da vicino.
In quel periodo mi sono tornati in mente i racconti di Paolo, quelli legati al suo arresto ed al ricovero in stato di custodia cautelare, ed è stato “piacevole” trovarmi quasi con lui al fianco nell’affrontare questo periodo. Un T.s.o. ce l’avevo proprio in stanza, è arrivato di sera portato dalla polizia e gli infermieri dell’ambulanza, sembrava tranquillo, fino a quando gli hanno offerto la terapia.
Sosteneva che gli infermieri volevano ucciderlo, che gli mettevano la droga dappertutto, anche un tizio, che non ho capito se era un amico od un parente, raccontava che da quando aveva accettato la terapia si era ammalato ed era morto. Improvvisamente sono usciti da una stanza sette infermieri coi guanti di lattice, un fare spedito simile a quello di chi si deve dare coraggio per affrontare senza esitazioni una situazione difficile: gli sono saltati addosso e lo hanno siringato.
Hanno atteso che l’iniezione facesse effetto come nelle mischie del rugby, poi lo hanno trascinato in una stanza liscia, materasso per terra e nient’altro. Ovviamente è stato poi messo in camera con me ed un altro che soffriva di “anssia e angossia”, come diceva lui, tanto che vomitava sempre e piangeva a ripetizione così, senza preavviso, senza motivo apparente.
Checco (mister T.s.o.), era talmente imbottito che quando di notte tentava di alzarsi per andare a pisciare, finito il periodo di isolamento, rimaneva davanti al letto piegato sulle ginocchia, dondolava per alcuni secondi cercando di muovere qualche passo, ed inesorabilmente si pisciava addosso. Finché decidono di abbassargli un po’ il dosaggio di psicofarmaci mettendolo in condizione di sembrare quasi vivente ed, ogni tanto, di interagire coi suoi simili. L’orario della terapia era diventato una scenetta tragicomica: “Checco la prendi la terapia?” “Dai che lo sai come va a finire!” “Dai che sennò ci tocca farti la puntura!”. Le prime volte faceva resistenza, coi giorni che passavano aveva imparato che dopo il rifiuto del bicchiere con le gocce gli conveniva girarsi di culo ed aspettare piagnucolando che lo trafiggessero.
Checco proprio era un caso di trattamento coatto, era gentile ed educato con gli infermieri, ma loro lo volevano uccidere e gli mettevano la droga nella colazione quindi doveva andarsene in qualsiasi modo. Una sera lo vedo trafficare nel nostro armadio comune, durante la notte si alzava continuamente per sistemare i bagagli finché, alle prime luci dell’alba lo vedo partire con due valige, la sua e la mia. Gli vado dietro pretendendo indietro i miei quattro stracci, gli unici che avevo d’altronde, e lui veramente dispiaciuto si scusava e cercava di capire cosa poteva portarsi dietro e cosa no, fino a scoprire che si era messo la mia camicia ed il mio maglione, che la sorella gli aveva portato via tutti i vestiti tranne il pigiama e che con quello uscire era proprio un gran casino… senza contare che gli infermieri lo attendevano prima della porta blindata.
La sera dopo aveva organizzato meglio la fuga, aveva rimediato i vestiti elemosinando tra noi matti, io gli avevo regalato anche il mio berretto di lana, alle tre di notte si alza vestito di tutto punto, valigetta piena di niente o quasi, berretto in testa e ciabatte ai piedi: “Scusate per il disturbo fioi, mi no ghe a fasso più, vago casa prima che i me copa, grassie de tuto e dea compagnia, vago prima che s’incorse che no’ghe so pi”. È arrivato alla porta blindata, gli infermieri dormivano come al solito, tanto che è rimasto lì fino al mattino, berretto, ciabatte e valigetta, sperando che qualcuno aprisse la porta e lui, senza essere notato, potesse tornarsene a casa.
Insomma ho conosciuto un sacco di gente interessante ed il più antipatico era sicuramente lo psichiatra che mi seguiva. Mi faceva continuamente capire che quello non era un posto per tossici, per me i reparti erano altri, anche se per la depressione stavo letteralmente andando in malora.
Ora sto meglio, mangio e dormo quasi con regolarità, sto sperimentando nuovi farmaci e chissà di non aver fatto qualche passo in avanti.
“Che ci faccio qui?”
Articolo di Redazione
Scene da un reparto psichiatrico.