Di recente, è giunta dalla Francia la notizia sulla scarsa affidabilità dei test sulla saliva nell’individuare la positività all’uso di cannabis (con circa il 10% di errori). Poiché anche da noi l’uso dei test si va diffondendo, sulle strade e sul lavoro, vale la pena approfondire la questione.
Le analisi per la ricerca dei metaboliti delle principali sostanze di abuso vengono svolte seguendo due metodiche: l’immuno-chimica e la gas cromatografia. La prima è solamente qualitativa, la seconda è anche quantitativa e più affidabile. Purtroppo, per il suo costo la gas cromatografia è riservata ai laboratori di secondo livello e/o per confermare un dubbio su risultati ottenuti in immuno-chimica, la quale ha sempre tra il 10 e 20 % di errori sia per falsi positivi che per falsi negativi. Se l’analisi è richiesta all’interno di un programma terapeutico, allo scopo di verificarne l’andamento, la contestazione di una positività viene affrontata valutando l’evoluzione complessiva del programma, anche nel caso di controlli richiesti dal tribunale. Diverso è il problema in ambito squisitamente medico-legale, quando dai test possono derivare sanzioni amministrative (allontanamento dal lavoro, ritiro della patente) o penali. In tal caso è indispensabile fare il test di conferma in gas cromatografia e dotarsi di procedure rigorose per la raccolta e la conservazione del campione.
L’analisi in immuno-chimica può essere fatta sull’urina, la saliva o eventualmente il sudore, sia tramite sistema di diagnosi rapida (stick) oppure con le normali tecniche di laboratorio: la percentuale di errori possibili rimane più o meno la stessa. La cosiddetta analisi del capello (o del pelo) può essere fatta per ora solo in gas cromatografia (si sta sviluppando una metodologia meno costosa in immuno-chimica, ma ancora in fase sperimentale). In ambito medico-legale, gli strumenti per la diagnosi rapida non possono essere utilizzati nei Sert, che non dispongono di biologi, mentre i medici non sono abilitati a certificare i risultati.
Per l’alcol, si ricorre all’esame del sangue o all’etilometro. A differenza degli altri sistema di analisi rapida, questo strumento è anche quantitativo e consente di verificare se la quantità di alcol rilevata nel sangue è nei limiti consentiti dalla legge. Sulla strada naturalmente viene utilizzato l’etilometro, il quale però non consente il test di conferma: perciò la persona trovata positiva è accompagnata alla struttura sanitaria più vicina per un prelievo di sangue. In caso di rifiuto fa fede, per la legge, il risultato dell’alcoltest. Sempre nel caso della guida, quando le forze dell’ordine hanno il “legittimo” sospetto che chi è alla guida sia sotto l’effetto di sostanze psicoattive, devono accompagnare la persona ad una struttura sanitaria per il prelievo di sangue.
Oltre all’affidabilità degli esami, un altro grave problema è quello di verificare se la presenza di una sostanza o di uno dei suoi metaboliti significhi davvero l’alterazione delle condizioni psico-fisiche, visto che (a parte l’alcol) possiamo ritrovarne tracce fino a tre, quattro giorni dopo, se non trenta come nel caso dei cannabinoidi. Nessun esame è in grado di stabilire quando la sostanza è stata assunta ed in quale quantità. Ogni prelievo dovrebbe quindi essere accompagnato da un esame clinico approfondito alla ricerca di segni d’intossicazione.
Purtroppo, principalmente per lo screening e l’accertamento dei lavoratori con mansioni a rischio, questo non avviene (o molto di rado). Col risultato che i test non servono a prevenire comportamenti pericolosi sul posto di lavoro da parte di chi si presenta a svolgere mansioni pericolose sotto effetto di sostanze psicoattive, ma si traducono in una caccia indiscriminata al consumatore (e principalmente ai fumatori di spinelli)!
Questa stortura mostruosa non suscita l’imbarazzo che dovrebbe poiché, purtroppo, è coerente con il principio alla base della proibizione (modernizzato e sostenuto da un’interpretazione rigidamente medicalizzata della dipendenza come “malattia cronica recidivante”), secondo cui il contatto con la sostanza basterebbe ad alterare (definitivamente?) le capacità cognitive della persona. Non importa quindi quando è avvenuto il contatto, l’importante è che vi sia stato! Peccato che il dubbio nell’applicare un tale principio nei confronti dei bevitori di alcol, non turbi le coscienze nei confronti di chi, per uno spinello, rischia il posto di lavoro!