Non si può fare a meno di guardare la docuserie su Muccioli; in questi giorni ne parlano tutti.
Carlo Gabardini, che ha scritto la docuserie assieme a Neri e Paolo Bernardelli, l’ha definita come una storia sul “potere di persone, sostanze, idee e politica”. La terza puntata lo accenna appena, ma Muccioli è stato in quegli anni il faro, e allo stesso tempo il testimonial, della guerra alla droga che si è fatta guerra alle persone che usano droghe. Lo rappresenta bene, in una sola istantanea il suo sguardo magnetico e soddisfatto rivolto alla ministra Iervolino che risponde tentennando sul palco di Minoli alla domanda: “Ma quindi questa legge (la Iervolino-Vassalli che si stava discutendo in quei mesi, appunto) criminalizza i drogati?”.
Questo potere è soprattutto potere di rappresentazione di cui portiamo ancora i segni. Il vocabolario trasuda ancora di retorica muccioliniana nel linguaggio comune. C’è un’ambivalenza di fondo, un insito desiderio di salvezza da una parte e un pesante giudizio morale di colpa dall’altra. Ci sono parole, nel vocabolario dei giornali, dei politici di ogni schieramento e di chi li legge e li vota, che vengono da quella storia e che giustificano ogni intervento “contro la volontà del tossicodipendente perché non è da considerare piena volontà; c’è una piena capacità di intendere, ma una incapacità di volere il proprio bene” (parole di Andrea Muccioli). Frasi o commenti come “La piaga della droga”, “la guerra per salvare la vita”, oppure “se l’è cercata”; e ancora “Io non capisco perché si bruciano la vita in questo modo”. Dice la voce di Muccioli a inizio della prima puntata: “Il vero miracolo non è un fiore che nasce, ma un fiore morto che rinasce”. Capite? Anche le parole più belle e le metafore più romantiche, in questo linguaggio acquistano questa ambivalenza. Chi entra in comunità sulla collina deve annullarsi perché tutto ciò che è stato finora è sbagliato, marcio; deve azzerarsi per ricostruirsi un’identità dentro un regime di ricompense e punizioni (a volte anche sanguinose) perché fino a quel momento è stato marcio.
Ascoltate la lettera che legge Fabio Cantelli (uno dei testimoni più onesti della docufiction): parla di un sé manipolato dalla droga, e ne parla come di un’altra persona che non c’è più, morta e dalla quale ne nasce un’altra, libera. Un reset, uno switch da mostro a essere umano grazie alla scelta di rifiuto del sé stesso che si drogava sotto la guida benevola ma severa del patriarca. A me ha impressionato il potere identitario racchiuso in quel momento, tanto quanto lo sguardo compiaciuto di Muccioli al quale il ragazzo si rivolge durante la sua lettura. A distanza di 30 anni le catene indignano, e ci mancherebbe che non fosse così! Ma impressiona altrettanto tutto quel giudizio che una persona si appiccica addosso fino a negare di essere esistito? Dubito. Il metodo del buon padre di famiglia in quella scena mi ricorda un vecchio detto veneto: “Mi te go fato, e mi te desfo” (“Io ti ho fatto e io di distruggo”).
In questo armamentario ideologico, c’è una parola che annulla la persona e che Muccioli usava spesso, una parola che ho sentito anche di recente sulla bocca di qualche amico che si dice libertario e progressista: zombie. Si dice: “I ragazzi che si fanno l’eroina diventano zombie abbandonati a sé stessi”, o “I venditori di morte che trasformano in zombie i loro coetanei”. “Sono arrivati qui che erano morti che camminavano”, dice lui. Lo zombie è la metafora perfetta per de-umanizzare chi usa droghe; lo zombie è senza volontà, guidato solo dalla sua spasmodica ricerca e la coscienza gli sta fra la vita e la morte. Lo zombie non è persona. Non si accetta quello zombie come figlio e lo si caccia di casa, i baristi non lo vogliono nei loro bagni e lo cacciano, e i buoni cittadini non lo vogliono sotto casa e fan di tutto per cacciarlo. L’altro giorno una mia vicina di casa mi ha detto candidamente che il problema del quartiere in cui viviamo sono i consumatori che vengono a comprare sostanze. “Non serve la polizia che in forze pattuglia le vie, se non può mettere in prigione e punire chi compra la droga, o portarlo dentro in comunità”, ha detto. Il carcere e la comunità tolgono gli zombie dalla strada, li allontanano dagli occhi e il problema è risolto perché si salvano da sé stessi, anche contro la loro volontà. C’è una cosa però che ogni appassionato di horror sa: in caso di invasione zombie, non si deve aver paura di morti viventi più di quanta se ne deve avere di chi li affronta, perché spesso l’eroe fra i normali instaura regimi totalitari che giustifica con la ragione della sua morale assoluta e della sua superiorità.
L’idea stessa di cura della dipendenza, oggi è più muccioliniana che basagliana. Altro che “La libertà è terapeutica”! È come se chi usa droghe e si rivolge a un terapeuta fosse un colonizzato, al quale svelare il vero modo di essere e che deve essere guidato nella costruzione di un nuovo sé da qualcuno che ne sa molto più di lui e che deve fare le scelte di cui lui non è capace; gli serve che la sua vita sia invasa da persone superiori più civili di lui perché non si drogano. Nel mondo che questo vocabolario ha creato non c’è molto spazio per i diritti e per l’autoderminazione delle persone che usano droghe. Alcuni hanno interiorizzato questo stigma, questa immagine di un sé sbagliato da aggiustare, come Cantelli quando legge la sua lettera. Dobbiamo renderci conto che tutto questo, e anche il paternalismo che è l’altra faccia di questa medaglia, è molto più vicino alle catene di Muccioli di quanto si pensi.
“Sanpa” ha scatenato un dibattito sulle droghe senza precedenti negli ultimi anni, in un paese inchiodato a fare piccoli passi avanti e subito grandi passi indietro sulla cannabis light! Sarebbe un peccato sprecare questa occasione, concentrandoci solo sulla San Patrignano che fu negli anni ’80, e non allargando lo sguardo di tutti al linguaggio e allo sguardo sulle droghe di cui quella storia è la genesi e di cui oggi tante persone che usano droghe pagano le conseguenze.